Ma anche al livello delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non deve far altro che prendere conoscenza come di un capitolato d’appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri. Persino l’atto così elementare che chiamiamo “vedere una persona conosciuta” è in parte un atto intellettuale. Noi riempiamo l’apparenza fisica dell’individuo che vediamo con tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell’immagine totale che di lui ci rappresentiamo queste nozioni hanno senza alcun dubbio la parte più considerevole. Esse finiscono per gonfiare con tanta perfezione le sue guance, per seguire con tale esatta aderenza la linea del suo naso, si incaricano così efficacemente di sfumare la sonorità della sua voce, come se si trattasse soltanto di un involucro trasparente, che ogni volta che vediamo quel viso e sentiamo quella voce sono loro, le nozioni, a presentarsi al nostro sguardo, a offrirsi al nostro ascolto. Certo, nello Swann costruito dai miei parenti essi avevano omesso per ignoranza di far entrare una quantità di dettagli della sua vita mondana, che erano poi quelli in virtù dei quali altre persone, trovandosi di fronte a lui, vedevano ogni sorta di eleganza regnare sul suo volto e arrestarsi al suo naso aquilino come a un naturale confine; ma è anche vero che il quel volto sconsacrato del suo prestigio, vacante e spazioso, in fondo a quegli occhi deprezzati, erano riusciti a stipare il vago e dolce residuo – metà memoria, metà oblio – delle pigre ore passate insieme dopo i nostri pranzi settimanali, intorno al tavolo da gioco o in giardino, durante la nostra vita di buon vicinato campagnolo. L’involucro corporeo del nostro amico ne era stato così ben imbottito, con l’aggiunta di qualche ricordo relativo ai suoi genitori, che quello Swann era diventato un essere completo e vivente, e io ho l’impressione di abbandonare qualcuno per andare verso un’altra e ben distinta persona quando dallo Swann che ho conosciuto più tardi con esattezza passo nella mia memoria a quel primo Swann – a quel primo Swann nel quale ritrovo gli incantevoli errori della mia giovinezza e che d’altronde assomiglia meno all’altro, al secondo, che non alle persone da me conosciute nello stesso periodo, come se succedesse nella nostra vita quel che succede in un museo dove tutti i ritratti d’una stessa epoca hanno un’aria di famiglia, una tonalità comune – a quel primo Swann riempito di buon ozio, profumato dell’odore del grande castagno, dei cestini di lamponi e d’un sentore di dragoncello.
[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori] pp. 24-25