Sono ancora in tempo, sono ancora in grado?

Era ben altro quello che dovevo scrivere, io: qualcosa di più lungo, e per più di una persona. Lungo da scrivere. Di giorno, al massimo, avrei potuto tentare di dormire. Se avessi lavorato, sarebbe stato solo di notte. Ma ci sarebbero volute molte notti, forse cento, forse mille. E sarei vissuto nell’ansia di non sapere se il Padrone del mio destino, meno indulgente del sultano Shahriyàr, quando, al mattino, avessi interrotto il racconto, avrebbe voluto soprassedere alla mia condanna a morte e consentirmi di riprendere il filo la sera successiva. Non che pretendessi di rifare in alcun modo le Mille e una notte, e nemmeno i Mémoires di Saint-Simon, scritti anch’essi di notte, o qualcun altro dei libri che avevo amati nella mia ingenuità di fanciullo, superstiziosamente legato ad essi come ai miei amori, incapace di immaginare senza orrore un’opera che ne fosse diversa. Ma, come Elstir con Chardin, si può rifare ciò che si ama solo rinunciandovi. Un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne, avrebbero certo finito per morire. Ma bisogna rassegnarsi a morire. Si accetta il pensiero che fra dieci anni noi, fra cento anni i nostri libri, non ci saremo più. La durata eterna non è promessa ai libri più che agli uomini.

Sarebbe stato un libro lungo forse come le Mille e una notte, ma completamente diverso. Certo, quando si è innamorati di un’opera, si vorrebbe rifare qualcosa di affatto simile, ma bisogna sacrificare il proprio amore del momento, non pensare ai propri gusti, ma a una verità che non vuol sapere le vostre preferenze e vi proibisce di pensarci. E solo seguendola ci si trova a volte ad incontrare ciò che si è abbandonato e ad aver scritto, dimenticandole, le “Novelle arabe” o le “Memorie di Saint-Simon” di un’altra epoca. Ma ero io, ancora in tempo? Non era troppo tardi?

Non mi chiedevo soltanto: “Sono ancora in tempo?”, ma: “Sono ancora in grado?”. La malattia che facendomi come un rude direttore di coscienza, morire al mondo, mi aveva favorito, “perché se il seme, dopo essere stato messo nella terra, non muore, rimarrà solo, ma se muore recherà molti frutti”, la malattia dalla quale, dopo che l’indolenza m’aveva protetto contro la facilità, sarei stato forse protetto contro l’indolenza, la malattia aveva logorato le mie forze e come avevo notato da tempo, soprattutto quando avevo smesso di amare Albertine, le forze della mia memoria.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Sono ancora in tempo, sono ancora in grado?ultima modifica: 2023-06-26T10:12:26+02:00da ellen_blue

Lascia un commento

Se possiedi già una registrazione clicca su entra, oppure lascia un commento come anonimo (Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato ma sarà visibile all'autore del blog).