(…) quando dovetti raggiungere di corsa mio padre e mio nonno che mi chiamavano, stupiti ch’io non li avessi seguiti sul viottolo che sale verso i campi e lungo il quale si erano incamminati. Lo trovai tutto ronzante dell’odore dei biancospini. La siepe formava come una sfilata di cappelle che scomparivano sotto il paramento dei loro fiori, ammucchiati a formare una sorta di repositorio; al di sotto, il sole stendeva per terra un quadrettato chiarore, come filtrato da una vetrata; il profumo s’espandeva altrettanto untuoso, altrettanto circoscritto in una propria forma che se mi fossi trovato davanti all’altare della Vergine, e i fiori, non meno acconciati, con aria distratta reggevano ciascuno il suo scintillante mazzolino di stami, fini e raggianti nervature di stile flamboyant simili a quelle che in chiesa traforavano la balaustra della tribuna o le partizioni della vetrata e sboccianti in candida carne di fior di fragola. Come sembravano ingenue e paesane, al confronto, le rose di macchia che, di lì a qualche settimana, si sarebbero inerpicate anch’esse, in pieno sole, per lo stesso agreste cammino, nel loro corpetto di liscia seta rosseggiante che basta un soffio a disfare! Ma avevo un bel sostare davanti ai biancospini a respirare, a fissare nel mio pensiero, incerto su che farne, a prendere, a ritrovare il loro profumo saldo e invisibile, a unirmi al ritmo che lanciava qua e là i loro fiori, con giovanile allegrezza e a intervalli inattesi come certi intervalli musicali: era sempre lo stesso fascino che essi mi offrivano, con inesauribile profusione ma senza lasciarmelo approfondire più di tanto, come quelle melodie che si possono suonare cento volte di seguito senza scendere più addentro nel loro segreto. Me ne distoglievo un momento, per abbordarli poi con forze più fresche. Inseguivo fino alla scarpata, che al di là della siepe saliva scoscesa verso i campi, qualche papavero disperso, qualche fiordaliso rimasto pigramente indietro, che l’ornavano qua e là con le loro corolle così come nella bordatura di un arazzo compare, sparsamente accennato, il motivo agreste che trionferà nel centro; ancora radi, spaziati come le singole case che annunciano già l’approssimarsi di un villaggio, essi mi annunciavano l’immensa distesa dove dilagano le messi, dove s’accavallano le nubi, e la vista di un solo papavero che inalberava in cima alla sua fune e lasciava sferzare dal vento il rosso della sua fiamma al di sopra del nero unto della sua boa, mi faceva battere il cuore, come al viaggiatore che, scorgendo su una terra bassa una prima barca incagliata e un calafato che la ripara, esclama, prima ancora di averlo visto: “Il Mare!”.
[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 168-169