L’amicizia tra il Narratore e il marchese di Saint-Loup

Fra lui e me si stabilì ben presto che eravamo diventati grandi amici per sempre, e Saint-Loup parlava della “nostra amicizia” come di qualcosa d’importante e delizioso che esistesse al di fuori delle nostre stesse persone e ch’egli non tardò a definire – fatto salvo il suo amore per l’amante – la più grande gioia della sua vita. Queste parole mi provocavano una sorta di tristezza, e qualche imbarazzo a rispondere, perché stando insieme a lui, conversando con lui – e certo sarebbe stato lo stesso con chiunque altro – non provavo nulla della felicità che mi era invece possibile assaporare quand’ero senza compagnia. Da solo, a volte, sentivo affluire dal fondo di me stesso una di quelle impressioni che mi davano un soave benessere. Ma non appena mi trovavo con qualcuno, non appena parlavo con un amico, nel mio intimo avveniva un voltafaccia, era verso l’interlocutore, e non verso me stesso, che si dirigevano i miei pensieri, e questi, procedendo in senso inverso, non mi procuravano alcun piacere. Quando poi lasciavo Saint-Loup, con il soccorso delle parole mi sforzavo di mettere una specie di ordine nei confusi minuti trascorsi assieme a lui; mi dicevo che avevo un buon amico, che un buon amico è cosa rara, e assaporavo, nel sentirmi circondato da beni difficili da acquisire, l’esatto contrario del piacere che mi era naturale, il contrario del piacere d’aver estratto da me stesso e portato alla luce qualcosa che stava lì, nascosto nella penombra. Se avevo passato due o tre ore a conversare con Robert de Saint-Loup e lui aveva espresso ammirazione per i miei discorsi, provavo una sorta di rimorso, di rimpianto, di stanchezza per non essere rimasto solo e disposto, finalmente, a lavorare. Ma poi riflettevo che non si è intelligenti solo per se stessi, che i più grandi cercano di farsi apprezzare, che non potevo considerare perdute delle ore durante le quali avevo edificato un’alta idea di me nell’animo dell’amico, persuadendomi facilmente che dovevo esserne felice e augurandomi tanto più intensamente di non venir mai privato di tale felicità, quanto meno l’avevo avvertita. I beni di cui paventiamo la scomparsa sono quelli rimasti al di fuori di noi, giacché il nostro cuore non se n’è impadronito. Mi sentivo capace di esercitare le virtù dell’amicizia meglio di tanti altri (perché avrei sempre anteposto il bene degli amici agli interessi personali cui altri restano attaccati e che per me non avevano valore), ma non di ricevere gioia da un sentimento che, anziché accrescere le differenze fra la mia anima e quelle altrui – differenze quali ne esistono fra le anime di ciascuno di noi -, fosse tale da cancellarle. In compenso, il mio pensiero coglieva a tratti in Saint-Loup un essere più generale della sua persona, il “nobile”, che, simile a uno spirito interiore, muoveva le sue membra, comandava i suoi gesti e le sue azioni; allora, in quei momenti, pur essendo accanto a lui, ero solo, come davanti a un paesaggio di cui avessi percepito l’armonia.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Tullio Pericoli, caricatura di Marcel Proust

L’amicizia tra il Narratore e il marchese di Saint-Loupultima modifica: 2021-09-07T15:09:55+02:00da ellen_blue

14 pensieri riguardo “L’amicizia tra il Narratore e il marchese di Saint-Loup”

    1. E’ una roba sulla quale non ho mai riflettuto perché ho sempre dato per scontato che l’intelligenza sia qualcosa di privato, ma sbagliavo. L’intelligenza, nel momento in cui l’apprezzi negli altri, la stai condividendo e ne stai quindi beneficiando. Quindi la risposta è sì.
      Ma non basta, questa pagina apre anche ad altre riflessioni, devo rileggerla però perché, alle volte, sto cazzo di Marcel, è complesso ma attizza come un gioco 🙂

  1. Per quanto mi riguarda, da giovane volevo che la mia seppur minima intelligenza venisse riconosciuta in qualche modo. Ora non più, mantengo sempre un basso profilo, almeno sotto questo aspetto sono in pace con me stessa.

    1. “Per quanto mi riguarda, da giovane volevo che la mia seppur minima intelligenza venisse riconosciuta in qualche modo.”

      Ne hai da vendere, invece (e lo sai)…

  2. “Da solo, a volte, sentivo affluire dal fondo di me stesso una di quelle impressioni che mi davano un soave benessere. Ma non appena mi trovavo con qualcuno, non appena parlavo con un amico, nel mio intimo avveniva un voltafaccia, era verso l’interlocutore, e non verso me stesso, che si dirigevano i miei pensieri, e questi, procedendo in senso inverso, non mi procuravano alcun piacere.”
    Mentre nella prima frase può quel “soave benessere” può essere frainteso nel sano amore per la giusta solitudine, la frase successiva rivela una miscela di egocentrismo, narcisismo e gelosia di se stesso difficile da comprendere, figuriamoci da spiegare.
    Tutto il resto l’avrò riletto tre volte, ma non ci ho capito una mazza. Certo, ho i miei limiti ma, al di là di essi, l’idea che mi son fatto è che Marcel già da piccolo aveva una confusione sentimentale da far paura. Parla d’amicizia ed io non credo che lo faccia solo per coprire che del “giovane leone”, ma proprio perché è confuso. Lui ne è innamorato ma, orgogliosamente, visto che l’altro, sotto quest’aspetto neanche lo caga, preferisce parlare d’amicizia. Perché dico questo? Perché credo che lo dica lui alla fine della pagina:
    “il mio pensiero coglieva a tratti in Saint-Loup un essere più generale della sua persona, il “nobile”, che, simile a uno spirito interiore, muoveva le sue membra, comandava i suoi gesti e le sue azioni; allora, in quei momenti, pur essendo accanto a lui, ero solo, come davanti a un paesaggio di cui avessi percepito l’armonia.”, il Saint-Loup che, infatti, “muoveva le sue membra, comandava i suoi gesti e le sue azioni” e Marcel “pur essendo accanto a lui, ero solo”. Se fosse amicizia, una simile situazione non la vivresti come solitudine perché, conoscendo l’altro, non la chiameresti solitudine. E, soprattutto, non chiuderesti il discorso con una roba così: “ero solo, come davanti a un paesaggio di cui avessi percepito l’armonia.”
    [cfr. Psychosomatique de la Recherche – André François Victor Xavier de A. Passant – 1912]

    1. Errata Corrige: “Parla d’amicizia ed io non credo che lo faccia solo per coprire che del “giovane leone” ne è innamorato, ma proprio perché è confuso.”

      Pardonne-moi, Madame.

  3. Il bello di un libro come la Recherche è la sua complessità, le sue innumerevoli sfaccettature che, se da un lato possono disorientare il lettore, dall’altro lo arricchiscono perché lo inducono a riflettere, e infine a bearsi del fatto che tutto lo scibile concernente l’animo umano, è lì, sotto i suoi occhi, non deve fare altro che “appropriarsene”.
    Ma tornando alla pagina in questione, la mia chiave di lettura è questa: il Narratore è molto centrato su se stesso, ama stare da solo, nondimeno sente d’aver trovato in Saint-Loup un amico; tuttavia le ore passate con lui lo allontanano non solo dai suoi pensieri, ma anche dal suo amore per la scrittura (“lavorare”) e qui c’è tutto Proust. Però se da un lato è l’egoismo (o solo l’inclinazione naturale alla solitudine?) a spingere, dall’altro opera il buon senso che suggerisce di tenere in conto il valore dell’amicizia.
    Per quanto riguarda la chiusa “In compenso, il mio pensiero coglieva a tratti in Saint-Loup un essere più generale della sua persona, il “nobile”, può essere corretta la tua interpretazione, ma potrebbe pure essere che Proust voglia rimarcare d’essere un borghese, mentre Saint-Loup è un nobile. (Qui la tua chiave di lettura è più sottile, quindi possiamo convenire ancora una volta che l’esegesi di Proust è tutt’altro che ovvia).

    1. “Ma tornando alla pagina in questione, la mia chiave di lettura è questa: il Narratore è molto centrato su se stesso, ama stare da solo, nondimeno sente d’aver trovato in Saint-Loup un amico; tuttavia le ore passate con lui lo allontanano non solo dai suoi pensieri, ma anche dal suo amore per la scrittura (“lavorare”) e qui c’è tutto Proust.”
      Certo, lo allontanano dal lavoro anche se, come il cane che si morde la coda, quelle ore lontane dal proprio “lavoro” sono poi proprio l’oggetto del suo lavoro.

      “Però se da un lato è l’egoismo (o solo l’inclinazione naturale alla solitudine?) a spingere, dall’altro opera il buon senso che suggerisce di tenere in conto il valore dell’amicizia.”
      Più che egoismo ho parlato di egocentrismo. In ogni caso, tu puoi insegnarmelo, le persone inclini alla solitudine non lo sono per egoismo o egocentrismo, anzi, se penso a te, nel tuo crogiolarti nella solitudine (quella buona) non c’è traccia di egoismo o egocentrismo. Sul valore dell’amicizia non lo discuto, dico che per me, nel suo caso, non è amicizia, ma innamoramento.

      “Per quanto riguarda la chiusa “In compenso, il mio pensiero coglieva a tratti in Saint-Loup un essere più generale della sua persona, il “nobile”, può essere corretta la tua interpretazione, ma potrebbe pure essere che Proust voglia rimarcare d’essere un borghese, mentre Saint-Loup è un nobile.”
      Sì, può essere che sia come dici ma, in questo caso, ha ragione il marchese del Trullo quando dice che da un lato lui critica l’aristocrazia, dall’altro però le corre dietro non da piccolo o medio borghese, ma da borghese che frequenta alla pari la nobiltà. In fondo stiamo parlando di nobili e non di dei.

      “ (Qui la tua chiave di lettura è più sottile, quindi possiamo convenire ancora una volta che l’esegesi di Proust è tutt’altro che ovvia).”
      Certo, non è ovvia, ma un po’ contorta e contraddittoria sì.
      Buongiorno 🙂

  4. “quelle ore lontane dal proprio “lavoro” sono poi proprio l’oggetto del suo lavoro”, e infatti se non avesse frequentato il mondo, non avrebbe fatto un trattato di psicologia 🙂 domanda: non temi di diventare contorto leggendo troppo Proust?

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