Albertine Simonet

Ci eravamo portati, Elstir e io, in fondo all’atelier, davanti alla finestra che s’affacciava, oltre il giardino, su una stretta traversa, quasi un sentiero di campagna. Ci eravamo messi lì per respirare l’aria più fresca del tardo pomeriggio. Mi credevo lontanissimo dalle fanciulle della piccola banda e anzi, nel momento in cui, finendo con l’esaudire la preghiera della nonna, ero venuto a far visita a Elstir, avevo appunto sacrificato, per una volta, la speranza di vederle. Quel che cerchiamo, infatti, non sappiamo mai dove sia, e spesso ci ostiniamo a evitare il luogo dove, per altre ragioni, qualcuno ci invita, non sospettando che proprio lì incontreremmo l’essere cui pensiamo. Guardavo distrattamente quel sentiero di campagna che, esterno all’atelier, gli passava vicinissimo pur senza appartenere a Elstir. Tutt’a un tratto vi comparve, percorrendolo a rapidi passi, la giovane ciclista della piccola banda, con il polo abbassato sui capelli neri verso le larghe gote, gli occhi allegri e un po’ insistenti; e lì, in quel fausto sentiero miracolosamente colmo di dolci promesse, la vidi rivolgere a Elstir, da sotto gli alberi, un sorridente saluto d’amica, arcobaleno capace di congiungere, per me, il nostro mondo terracqueo a regioni che fino allora mi erano parse inaccessibili. S’avvicinò, persino, per tendere la mano al pittore, senza fermarsi, e vidi che aveva un piccolo neo sul mento. “Conoscete quella ragazza, signore?” domandai a Elstir, rendendomi conto che avrebbe potuto presentarmi a lei, invitarla a casa sua. E quel placido atelier, col suo orizzonte campestre, s’era riempito d’un sovrappiù delizioso, come una casa dove un bambino, che già ci si trovava a suo agio, scopre che – grazie alla generosità con cui le cose belle e le persone nobili usano incrementare indefinitamente i loro doni – si sta preparando per lui una magnifica merenda. Elstir mi disse che la fanciulla si chiamava Albertine Simonet, e mi rivelò anche i nomi delle altre amiche, che gli descrissi con precisione sufficiente a eliminare, in pratica, ogni sua esitazione. Riguardo alla loro estrazione sociale, avevo commesso un errore, ma non dello stesso tipo di quelli in cui incorrevo di solito a Balbec, dove prendevo facilmente per principi dei figli di bottegai che andavano a cavallo. Stavolta, avevo collocato in un ambiente equivoco delle ragazze appartenenti a una piccola borghesia molto ricca, al mondo dell’industria e degli affari. Era, a prima vista, il mondo che meno m’interessava, non possedendo per me né il mistero del popolo, né quello della società dei Guermantes. E certo, se un prestigio preliminare, che non avrebbero più perduto, non fosse stato conferito loro, davanti al mio sguardo abbagliato, dalla radiosa vacuità della vita di spiaggia, forse non sarei mai riuscito a sconfiggere il pregiudizio che si trattasse delle figlie di grossi negozianti. Non potei fare a meno di pensare con ammirazione quale meravigliosa fucina della più svariata scultura fosse la borghesia francese. Quanti tipi imprevisti, che inventiva nella fisionomia dei volti, che determinazione, che freschezza, che ingenuità nei lineamenti! Vecchi, avari borghesi, dai quali erano scaturite quelle Diane e quelle ninfe, mi sembravano i massimi esponenti dell’arte statuaria. Prima che avessi il tempo di rendermi conto della metamorfosi sociale delle mie fanciulle, e grazie all’istantaneità da reazione chimica di queste scoperte d’un errore, di questi aggiustamenti della nozione d’una persona, dietro il volto sbarazzino di quelle fanciulle che avevo prese per amanti di ciclisti, di campioni di boxe, s’era già installata l’idea che potessero senz’altro avere un qualche legame con la famiglia d’un notaio di nostra conoscenza. Non sapevo quasi nulla di Albertine Simonet. Lei certamente ignorava che cosa sarebbe stata, un giorno, per me. Persino il cognome Simonet, che avevo già sentito sulla spiaggia, se mi avessero chiesto di scriverlo ci avrei messo due n, senza sospettare quale importanza la famiglia attribuisse al fatto che ce ne fosse una sola. Man mano che si scende lungo la scala sociale, lo snobismo s’aggrappa a minuzie che magari non sono più inesistenti delle distinzioni dell’aristocrazia, ma, più oscure, più peculiari, suscitano maggior stupore. Forse c’era stato qualche Simonnet bancarottiere, o peggio ancora. Fatto sta che, a quanto pare, i Simonet s’erano immancabilmente irritati come d’una calunnia ogni volta che qualcuno aveva raddoppiato la loro n. D’essere i soli Simonet con una n al posto di due erano, forse, altrettanto fieri quanto i Montmorency d’essere i primi baroni di Francia.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Albertine Simonetultima modifica: 2021-09-30T16:01:10+02:00da ellen_blue

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