A volte Albertine faceva fermare lì, e mi chiedeva d’andare da solo a cercare, per consentirle di berlo nell’auto, del calvados o del sidro, dal quale, benché ci assicurassero che non era spumante, venivamo tutti innaffiati. Eravamo stretti l’uno contro l’altra. Quelli della cascina intravedevano appena Albertine nella vettura chiusa, io tornavo a restituire loro le bottiglie; ripartivamo come per continuare quella vita solo nostra, quella vita d’amanti ch’essi potevano attribuirci e di cui quella sosta per bere non sarebbe stata che un momento insignificante; supposizione che sarebbe parsa ancor meno inverosimile se ci avessero visto dopo che Albertine aveva bevuto la sua bottiglia di sidro; sembrava, infatti, che non potesse più sopportare, fra lei e me, una distanza che abitualmente non la infastidiva; sotto la gonna di tela, le sue gambe si stringevano contro le mie, avvicinava alle mie le sue guance ch’erano diventate livide, calde e rosse ai pomelli, con un che di ardente e appassito come nelle ragazze dei sobborghi. In quei momenti, oltre che di personalità, cambiava, e quasi altrettanto rapidamente, di voce; perdeva la sua per prenderne un’altra rauca, ardita, quasi abietta. Cadeva la sera. Che piacere sentirla contro di me, con la sua sciarpa e il suo berretto, ricordandomi che proprio così, fianco a fianco, siamo abituati a vedere gli innamorati! Forse amavo Albertine, ma non osavo darglielo a vedere, cosicché se questo amore esisteva in me, era solo come una verità che non ha alcun valore fin quando non si sia potuto controllarla con l’esperienza; cosa che mi sembrava irrealizzabile, e al di fuori del piano della vita.
M. Proust, Sodoma e Gomorra II
Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori