Il sonno di Albertine, la possibilità dell’amore, il piacere

Distesa dalla testa ai piedi sul mio letto, in un atteggiamento talmente naturale che sarebbe stato impossibile inventarlo, mi dava l’idea d’un lungo stelo fiorito che qualcuno avesse posato là, e così era in effetti: la capacità di sognare che avevo soltanto in sua assenza la ritrovavo, in quei momenti, accanto a lei, come se, dormendo, si fosse trasformata in una pianta. Il suo sonno realizzava così, in una certa misura, la possibilità dell’amore: da solo, potevo pensare a lei ma mi mancava, non la possedevo; lei presente, le parlavo, ma ero troppo assente da me stesso per poter pensare. Quando lei dormiva non dovevo più parlare, sapevo che lei non mi guardava più, non avevo più bisogno di vivere alla superficie di me stesso. Chiudendo gli occhi, perdendo coscienza, Albertine s’era spogliata, l’uno dopo l’altro, dei vari caratteri d’umanità che m’avevano deluso dal giorno in cui l’avevo conosciuta. Ormai era animata solo dalla vita inconsapevole dei vegetali, degli alberi, una vita più remota dalla mia, più strana, e che tuttavia m’apparteneva di più. Il suo io non scappava via ogni momento, come quando conversavamo, attraverso i varchi del pensiero inconfessato e dello sguardo. Albertine aveva richiamato a sé tutto ciò che di lei era al di fuori di lei; si era rifugiata, racchiusa, riassunta nel suo corpo. Tenendola sotto il mio sguardo, fra le mie mani, io avevo quell’impressione di possederla intera che non avevo quando era sveglia.

[…]

Entrando nella camera, ero rimasto in piedi sulla soglia, non osando far rumore, e non ne sentivo altri all’infuori del respiro che veniva ad affiorare sulle sue labbra, a intervalli intermittenti e regolari, come un riflusso, ma più sopito e più dolce. E nel momento in cui il mio orecchio coglieva quel rumore divino mi sembrava ch’esso condensasse tutta la persona, tutta la vita dell’incantevole prigioniera, distesa là sotto i miei occhi.

[…]

Ho passato sere incantevoli a parlare, a giocare con Albertine, mai però paragonabili per dolcezza a quelle in cui la guardavo dormire. Certo, chiacchierando, giocando a carte, lei aveva la naturalezza che un’attrice non avrebbe saputo imitare, ma quella offertami dal suo sonno era una naturalezza più profonda, una naturalezza al quadrato. (…) Se le labbra di Albertine erano chiuse, in compenso, dal punto in cui mi trovavo, le palpebre parevano così poco unite che avrei quasi potuto dubitare del suo sonno. Al tempo stesso, le palpebre abbassate davano al suo volto quella perfetta continuità che gli occhi non interrompono. Vi sono creature il cui viso assume una bellezza e una maestà inconsuete appena non hanno più lo sguardo.

[…]

Allora, sentendo che il suo sonno aveva raggiunto la pienezza, che non rischiavo più d’urtare negli scogli della coscienza ricoperti ora dal mare profondo del pieno sonno, saltavo decisamente sul letto senza far rumore, mi coricavo lungo il suo corpo, le cingevo con un braccio la vita, le posavo le labbra sulla guancia e sul cuore e poi, su tutte le parti del corpo, la sola mano rimastami libera e sollevata anch’essa, come le perle, dal suo respiro di dormiente; io stesso venivo lievemente spostato da quel movimento regolare. Mi ero imbarcato sul sonno di Albertine.

[…]

Ne ricavavo, a volte, un piacere meno puro.

[…]

Il rumore del suo respiro, facendosi più forte, poteva dare l’illusione dell’ansito del piacere, e quando il mio s’era compiuto potevo baciarla senza aver interrotto il suo sonno. Mi sembrava, in quei momenti, d’averla posseduta più completamente, come una cosa incosciente e senza resistenza della muta natura.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il sonno di Albertine, la possibilità dell’amore, il piacereultima modifica: 2022-07-20T12:49:59+02:00da ellen_blue

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