Rileggendo la sua lettera ero per altro deluso nel vedere quanto poco ci sia di una persona in una lettera. Certo, i caratteri tracciati esprimono il nostro pensiero, non diversamente da quel che fanno i nostri lineamenti; ci troviamo pur sempre in presenza d’un pensiero. Ciò non toglie che nella persona il pensiero ci appaia solo dopo essersi diffuso nella corolla del viso, tutta aperta come una ninfea. Il che, comunque, lo modifica alquanto. E tra le cause delle nostre perpetue delusioni in amore ci sono, forse, le perpetue deviazioni per cui alla nostra attesa dell’essere ideale che amiamo ogni convegno offre una persona di carne che già assomiglia così poco al nostro sogno. E poi, quando a questa persona chiediamo qualcosa, ne riceviamo una lettera in cui della persona stessa rimane ben poco, così come nelle lettere dell’algebra non rimane la determinazione delle cifre dell’aritmetica, le quali, a loro volta, non contengono più le qualità dei frutti o dei fiori addizionati. E pensare che forse l’amore, l’essere amato, le sue lettere sono altrettante traduzioni – per insoddisfacente che sia il passaggio da una cosa all’altra – della medesima realtà, giacché la lettera ci sembra insufficiente solo quando la leggiamo, mentre sudiamo morte e passione finché non arriva, e basta a calmare la nostra angoscia, se non a soddisfare con i suoi piccoli segni neri il nostro desiderio che sente come essa contenga comunque più dell’equivalente d’una parola, d’un sorriso, d’un bacio, non quelle cose stesse.
Marcel Proust, Albertine scomparsa I
Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori