Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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La guerra

Post n°15 pubblicato il 23 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 

Forza, devi dire addio ai tuoi cari. Bacia la madre, stringi la mano al padre. Non ti curare dell’abito, ciò che indossi è sufficiente. Come? No, non preoccuparti, ne avrai altri. Avanti, assicurati di avere messo tutto nel tuo sacco: coraggio, decisione, gioventù. Domani si va in guerra.

Non chiederti né dove né perché, la guerra non ha tempo di risolvere i tuoi dubbi. Ma ora dormi, la strada che conduce al fronte è lunga, le trappole nemiche sono ovunque, ma il cammino non ti deve impensierire. Dormi adesso, ché il domani arriva in fretta. Ché domani si va in guerra... Ma come, ancora sveglio? Come posso assicurarti che difenderti è un diritto, che un diritto ha il beneplacito divino? Partirai, diverrai eroe, ritornerai: tu sogna questo, soltanto questo è vero, il resto è propaganda demagogica e nemica. Domandi chi è il nemico? Davvero non ti basta che ti vogliano sottrarre tutti i beni? Che ti vogliano distruggere i valori? Chetati, per Dio! Domani si va in guerra.

Ora il ragazzo dorme. Sogna. Nel sogno è quasi l’alba e un cane latra. Da molte notti latra e il giorno non arriva mai. Si sveglia ripetutamente, si alza, indossa una vestaglia e poi s’accorge di non essersi mai alzato: è tutto un sogno. Si sforza di contrarre la mascella, prova a digrignare i denti per disciogliere il torpore, infine ne sortisce. Sudato, con l’affanno, resta immobile per poco e poi si scuote, corre, fugge dalla reiterata prigionia del sonno. Con mani malaccorte accende una candela e questa gli si squaglia in mano in una pozza semisolida e giallastra, ne è sorpreso, spaventato. Torna in camera: qualcuno sta dormendo nel suo letto. Lui stesso è nel suo letto: è tutto un sogno. È tutto un sogno. Quanto è lungo questo sogno dentro al sogno? Ci si deve abbandonare, stare calmi. Così, proprio così... Adesso è meglio: i muscoli del corpo sono sciolti, il ritmo del respiro è rallentato, regolare, sincrono col battito del cuore, flebile e perfetto. Le scosse sono assenti, gli occhi immobili: il sogno è terminato. Tra poco, finalmente, potrà alzarsi.

Che fai già in piedi? Non vedi che è da poco mezzanotte? Diamine, ritorna nel tuo letto! Devi riposare bene, essere fresco, lucido, perfetto. Come dici? Avevi caldo e ti è venuta sete? Va bene, prendi pure un goccio d’acqua, non è il caso di agitarsi, ché domani si va in guerra. Ché la guerra è cosa seria.

Ora il ragazzo suda. Avvolto nelle sue coperte, lo sguardo conficcato in una macchia del soffitto, suda. Cosa accadrà domani? Cos’è la guerra? Non era forse ieri, solo ieri, che la notte era un momento di riposo e i libri chiusi e i campi arati e il mondo dolce e il bacio di sua madre? L’airone che sostava fiero ad aspettar la rana in uno scacco di risaia, l’ondeggiar di nubi come d’anima sparata contro al cielo ed il profumo acre e dolce di pannocchie e fieno appena fatto tana delle lucciole d’estate...

La porta della stanza s’apre brusca, il fuoco d’una lampada, violento, irrompe e spezza il dormiveglia. La notte s’è impregnata tutt’a un tratto d’un olezzo insopportabilmente greve, come di stoffa logora ed antica più e più volte risciacquata in acqua lercia, abbandonata al buio in un cassetto alla mercé di muffe e tarme. Il tanfo è rinforzato da un aroma penetrante, come quello che si leva dai cavalli imbizzarriti, o dai maiali che si portano al macello. Tre, quattro ombre tremule serpeggiano scomposte lungo il muro. Borbottano qualcosa. Un mormorio di voci esagitate – ogni sintassi pare assente – percuote i nervi del ragazzo precipitandolo in un mare di sgomento. Un’ombra incede. È di statura più elevata e meno tremula delle altre e, giunta al pagliericcio, intima al ragazzo di rizzarsi, di riunire le sue cose e di seguirlo: ma che faccia molto in fretta, per favore, ché la guerra è cominciata. Nell’aia sosta un automezzo. Il suo motore acceso è un brontolio di sbuffi mori di petrolio che anneriscono le foglie delle felci. Filari di individui d’ogni età siedono muti, viso a viso, su due panche parallele improvvisate nel cassone. Il loro sguardo è assente. Ciascuno, nel compagno che ha di fronte, scorge il proprio volto sfigurato dal timore e solo un impeto d’estremo orgoglio devia l’occhio al panorama retrostante a simulare malcelata indifferenza. Ora il ragazzo sale. La massa prontamente si scompone, si restringe a fargli posto e in quel subbuglio, mortale come fiato d’ubriaco con il fegato divelto da cirrosi, si diffonde il lezzo acre già avvertito in precedenza. Il rombo del metallo, lo stridere di cinghia, il ticchettio pesante dei pistoni ed il convoglio è in marcia verso il fronte, lasciandosi alle spalle quel fetore antico quanto la paura. È un moto lento, quasi gravitazionale. La terra sembra scivolare pigra sotto al mezzo cigolante e appesantito da quel carico di corpi prelevati da ogni dove: d’onde viene, che ci fa, dov’è diretta questa ridondanza di materia? Distante, lungo l’argine di un fiume, insetti antropomorfi con le zampe brulicanti zappano un podere: contadini assorti nella lotta con le messi, impolverati di speranza, nemmeno alzano il capo al transitare della carovana. Nel tempo di un’Ave Maria si perdono nel nulla, sorpassati dalla corsa, deglutiti in tubature di memoria. Il mondo è una cisterna di ricordi – questo il ragazzo pensa, mentre la campagna scivola lontano e lascia il posto a geografie diverse, mai vedute prima. Le strade s’attorcigliano, si fondono e diramano. Chissà da quanto tempo esiste quell’intrico di sentieri, quanto è vasto l’Universo! E il mare? Vedrà il mare? Da sempre gli raccontano che è grande, molto grande, più di un fiume, più di un lago e non lo ha visto mai. Gli piacerebbe raccontarne al suo ritorno, farsi bello di qualcosa di infinito, prelevarne qualche goccia da portare come dono ai genitori. Forse al fronte esisterà un contenitore per il mare, una bottiglia, una fiaschetta in cui riporlo... Ora il ragazzo dorme, il capo reclinato contro al petto, sogna che è Natale. Sul tavolo del vecchio cucinino sta una goccia di cristallo. È luminosa, d’una luminosità pulsante. Suo padre gli sorride: ho valicato mari e monti per trovarti delle lucciole d’inverno – dice, mentre gli fa cenno d’accostarsi. In sottofondo un tramestio leggero, sua madre sta infornando dei biscotti e i semi del granturco si riscaldano nei letti di terriccio, il gatto si appallottola dinnanzi al focolare ed il letargo della fanciullezza è eterno: il mondo è una tempesta di carezze. Col cuore fibrillante, il bimbo si avvicina a quella lampada di Leida, ma la fosforescenza si dilegua. Ad ogni passo lucciole si spengono, precipitando inerti in un mucchietto di ali frantumate, cenere di carne. Ecco che è buio. Un buio che avviluppa, popolato da presenze sconosciute, incattivite dalla cecità, iraconde. Si fanno avanti, sempre più pressanti fiatano sul collo, ed è una brezza di verdura marcia, un’afa di malevolenza che pietrifica le membra in simulacro di terrore. Poi un rimbombo fragoroso, una lacerazione cavernosa: la lacrima di vetro è deflagrata. Un treno di bagliori fluorescenti rivela fotogrammi di realtà: dove era il padre adesso c’è una fossa scura, un pozzo nero di macerie fumiganti. La madre è una vecchietta scheletrita, sosia anziana di se stessa. Le lucciole si sono vendicate, il tempo ha accelerato, per invidia della gioia di un bambino. Bambino? La pelle delle mani è raggrinzita, le vene sono ragnatele nere di coaguli ossidati ed il futuro è già passato: la nascita, il vagito, la prima lallazione, l’adolescenza, la maggiore età, la guerra, il fronte, la speranza di tornare sano e salvo, l’esplosione. Rottami, brandelli di tessuti insanguinati scagliati rasoterra sulla strada. Qualcuno si lamenta, agonizzante chiama il cielo, il Dio, la mamma. Nessuno s’era accorto del tranello, nessuno aveva udito il sibilo di quella bomba a mano, nessuno. Ciascuno era perduto nella sua malinconia di ciò che fu, di ciò che ancora ha da arrivare, di quel sogno dentro a un sogno che è la vita. Inutile cercare  il fronte, viaggiare, tracciar mappe: il fronte è ovunque. Ora il ragazzo muore. Non sente alcun dolore, solo un vago senso di perplessità s’impadronisce di quel corpo devastato che gli sembra appartenere a qualcun altro. E forse è vero: gli arti depezzati si confondono. Un unghia, un dente, il dito di una mano, niente è proprietà privata, nulla ha più ragione d’essere distinto in quella soluzione estrema ch’è la morte.

 Un’ultima visione ghermisce le pupille dilatate: il dondolio del fieno, un lampo come lucciola che ride. Un ultimo sospiro e cala il buio. Però...

Però qualcosa ancora si fa strada nei meandri percettivi. È come uno strusciare di lenzuola, fragranza d’orzo e avena, scricchiolio di legno. Qualcuno sta dicendo qualche cosa, è un sussurrio vicino e, inconsistente, canta: vedo che non dormi, io vedo che non dormi...

« Vedo che non dormi. Tu non dormi! » – ora la voce è chiara ed il ragazzo in un sussulto si risveglia nel suo letto: è stato un sogno, solo un sogno. Tutto è un sogno dentro a un sogno.

« Vedo che non dormi! » – ripete quella voce – « Va bene, alzati e prendi una sedia. Siedi ed ascolta. Fallo con cuore sedato poiché non avrai verità personali, ma solo oggettive realtà. Vedi che bel panorama? Tutto s’illumina d’astri ed è notte, una splendida notte di maggio adagiata in un’epoca calma di un mondo sorpreso in un’era di pace, transitoria ma lunga quel tanto che basta per darti una vita serena. La vedi la luna? Quel piccolo globo lassù dal colore di latte cagliato, spremuta di vacca ammalata. Lo senti il ronzio delle stelle? Vorrei darti un bacio, ma il nostro discorso è da poco iniziato e non posso permettermi alcuna tua fuga, sebbene ti ami di amore profondo e sperduto. Che voglio? Chi sono? Afferra una sedia. Siedi ed appoggia la testa su questo cuscino di spine e cotone d’oriente, intessuto per te, poco prima che tu mi venissi a cercare. Perché io non sono arrivato per caso, sei tu che hai chiamato il mio nome. Per tanto, ora, siedi ed ascolta: ho un quesito da porti. Hai mai stretto tra le braccia l’aria, un suono, lo spettro della luce? Hai mai raccolto per la strada un animale abbandonato, sporco ed affamato, scoprendo infine, solo infine, che non era un animale ma carcassa, ossi di nebbia fratturata, pollice verso di natura? Hai mai provato che non basta il cuore, non aiutano le idee, non fischia il vento perché nessun vento esiste, non t’addormenta il mare perché il mare altro non è che sogno in risonanza di bugia? Non hai mai cinto, con le braccia fiduciose, delle spalle, per scoprire ch’erano tue e di nessun altro? Sussurrato amore, prenotato anni di luce, separato il mare, tutti i mari per una carezza accolta in una notte di speranza con la luna appesa a un cavo trattenuto da una croce al neon? Hai mai gettato le tue labbra sopra al ghiaccio, a caso, per vedere se davvero s’incollavano e tacevi? Hai mai scoperto che la truffa è dentro, molto dentro, che tu stesso sei una truffa di te stesso e fuori tutto ruota attorno ad altro e quasi, forse, non ha scopo, non ha fine? Hai mai sentito ogni tuo osso fradicio di vino tintinnare sulle scale in filastrocca di apostatici rosari mentre il gallo tace ed il sepolcro è stato sempre vuoto e lei – bellissima – non c’è? Davvero non ti sei mai disperatamente amato? ». Ora il ragazzo trema. Ed è un tremore calmo, caldo e calmo. Dall’aia, scivolato in bianche gallerie di pioppi , giunge un alito di vento: porta il canto di una madre che, sommessa e delicata, disfa tele di timori accumulatisi nel giorno. Un tintinnio di rame, lo scalpiccio pesante degli zoccoli legnosi , lo scricchiolio del pagliericcio: il padre adesso si riposa, il campo è arato, il fuoco spento – Ogigia ed Etna, Eea ed i Proci: soltanto labili ricordi. La stanza, pennellata di penombra, si tramuta: la bacinella del lavacro mattutino, i muri, il letto, il pavimento, tutto quanto si  condensa, si compenetra in un logos primordiale che, centrifugo, si porta via l’angoscia.

 « La tua paura mi ha portato qui. Paura della vita, paura della morte, paura d’essere soltanto ciò che sei. Paura della guerra, paura dell’errore, paura di non essere accettato, di partire, di tornare, di lasciare, di ferire, d’essere ferito. Ascoltami: laddove c’è un’entrata c’è un’uscita, non esiste labirinto privo di una scappatoia. Librati ed osservalo dall’alto, vedrai che non esiste impedimento alla tua fuga, poiché non c’è bisogno alcuno di fuggire: la trappola che temi è tua creazione, eretta con mattoni di paura. La guerra non è altro che paura di un’eternità negata. Ma tutto è calmo, tutto è eterno e tutto è qua. Si nasce da embrioni, si vive come feti, si muore da bambini. Il labirinto è un sogno dentro a un sogno. Percorrilo con calma, non crucciarti per l’uscita: sei già fuori. »

Cheto, un refolo di vento scuote dolcemente il tiglio e lo stormire delle fronde intona antiche ninne-nanne. La sagoma di un larice, stagliata su scacchiere di risaia, s’inchina alla bellezza della luna ed il coniglio si riposa nel cunicolo scavato da suo padre, familiare labirinto di una vita. La luce si acciambella dentro al buio e una crisalide assopita sulle foglie, sa di bacio ingravidato di futuro. Ora il ragazzo dorme.

Yolanthe Stratos

 
 
 
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