Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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« La volontà (parte II)Leda e il cigno »

La volontà (parte I)

Post n°52 pubblicato il 04 Novembre 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Maša serrò la porta, accostò le ante, fece scorrere le tende, poi indossò il pigiama viola, quello di cotone acquistato tempo addietro in un mercato a Lužok. Levò l’elastico dai capelli, quello verde acqua, e se lo legò al polso. Infine strinse la coperta grigia e, messasi sul fianco, cominciò a contare gli elefanti.

« Odin slon... dva slonika... tri slonika... » – « Un elefante... due elefanti... tre elefanti... ».

Nel buio per un poco agitò i piedi. Infine emise un gemito e sognò.

Vide sé stessa bimba, ai margini di un infinito campo, scalza e lambita da una fonte elettrica lontana. Il mondo immobile. Nessun canto di uccelli, nessun vento di foglie; nemmeno il rombo del silenzio. Soltanto un dito in bocca ed un bagliore intermittente a illuminarle gli occhi a noce d’acagiù.

In quella solitudine notò un piccolo scrigno celato a mezzo dagli steli. Timidamente gli si avvicinò, lo prese in mano e ricordò d’avere già sognato quel paesaggio, di avere già toccato quell’oggetto e ciò le diede l’impressione di tornare a casa. Ma appena il senso di solitudine cominciava a dileguarsi ed un calore antico prendeva a perfonderle l’addome, ecco comparire un ampio squarcio nel terreno. Subito da esso colò acqua come da ferita il sangue. La fenditura procedeva in linea retta, scucendo metro a metro il campo, e i girasoli cominciavano a inclinarsi, qualche petalo cadeva in quello che era ormai uno stagno via via sempre più fondo e vorticoso. Il cielo si coprì di nubi, dapprima grigie, dopo pece, finché non fu tutt’uno con l’oceano d’acqua, terra e arbusti roteanti in mulinelli di  rabbiosi cerchi.

Maša, sudata, serrando la coperta con i denti, si svegliò. Pensò per pochi istanti alla sua casa, alla sua terra. Poi si vestì di fretta, allontanando l’incubo dal cuore.

Due piccole fessure oblique, impenetrabili. Sottili labbra astutamente disegnate, zigomi alti, dispiegati come ali a carezzare gli occhi ed una cicatrice sulla fronte, rosato stampo del passato, da tempo aveva abbandonato la sua terra per raggiungere Galati, sul confine tra Ucraina e Romania. La vendita del corpo, affrancamento dalle botte e dalla povertà di bimba, emancipava dalla fame, permettendole uno spazio personale ed una certa dignità, sontuosità insperate per chi nasce prigioniero di un kolchoz.

Aveva scelto un nome d’arte: Irene. Pur non sapendone il significato, ne adorava il suono: vocali dolci, sostenute dal pilastro della giusta consonante, pacifici ruscelli diramati dalla pietra levigata di una “erre”. Seppure affezionata a questo nome, il suo dialogo interiore, i sogni ed i segreti appartenevano al suo nucleo originale, erano proprietà di Maša. Ma Irene, il nome Irene, ammorbidiva gli adirati, innamorava i disperati, coccolava solitudini e dolori in un abbraccio di pacifica armonia che garantiva protezione.

Eppure la città stava cambiando. Movimenti integralisti a sfondo pseudo-religioso richiedevano un ritorno alla morale. Ronde di villani con la brama di vendetta (personale, la vendetta è sempre cosa personale) pattugliavano le strade di Galati, controllavano pertugi, scalinate ed intenzioni, in cerca di misfatti, imperdonabili devianze. Sorgente del pensiero perbenista la città di Bucarešti. Il popolo, frustrato e ottuso, domandava ad alta voce un padre, un capro di espiazione, un uomo nuovo. A dirlo chiaro: un dittatore; se il Potere è un canto di sirena cui l’opporre resistenza è ritenuto debolezza, il dittatore era alle porte, puntuale come carie destruente.

Fu così che una mattina di settembre, di ritorno dal mercato, Irene fu arrestata. Delatore un certo Pavel, sedicente innamorato, megalomane perbene. Fu a lui che il giorno avanti rifiutò una prestazione: al fine di allentarne il desiderio di possesso, il cappio che da tempo le stringeva attorno al collo:

« Se non ti ho, se mai ti avrò, chi mai ti avrà? » le chiese Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« Se io non esistessi, chi ameresti? » incalzò Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« E se non fossi nato qua ma a mille miglia, o sulla luna, chi ameresti? » insisté Pavel.

« Un altro » disse Irene.

« Tu non sai amare! »

Amore è congruenza di occasioni rigonfiate di molecole ormonali – pensò Maša – è  abitudine, paura appena cessa d’esser voluttà. Amore è una realtà mistificata, una bugia del tempo. E il tempo è un egoismo personale.

« Certo che so amare » disse Irene.

« Sei bugiarda! »

Se baci in bocca o lecchi il sesso di una donna ti innamori – pensò Maša – se il cane annusa poi decide di accoppiarsi. Uomo e donna sono solamente odore. Dio ci annusa ad uno ad uno: riconosce in noi il suo antico simulacro, la sua impronta di selvatico alambicco a dare al succo di noi umani una pesante gradazione.

« Bugiarda e opportunista! »

Siamo nuvole di olfatto, voci nella nebbia – pensò Maša – terremoti di emozioni instabili, cangianti. Siamo polvere di stella frantumata, non ci basta un solo corpo, non ci basta un solo volto. Adesso sono Irene, ma sono stata Sonia, Valerie, Maruška, Yvonne, Nadežda, Lili Brik, Veruška, Smilla. Non ho tempo d’essere una sola, di donarmi ad una sola, ad uno solo: non mi basta. Il tempo è avaro e non dispensa mai carezze; ma non lesina gli schiaffi.

« Io non posso più aspettarti, mi hai sfiancato! » - chiosò Pavel.

Tutto ha il tempo che conviene – pensò Maša – La premura è dei felici, dei bambini e, forse, degli agonizzanti. Serenità è una stanza chiusa illuminata da perpetua delusione fatta corpo rilavato, insudiciato, rilavato per ancora insudiciarsi. Appollaiati come uccelli in una notte di novembre, i corpi chiedono calore. Tarpare ali, negare cibo, rompere uova ed occupare nido altrui, questo è immorale, altro non vedo. Tutto ha tempo d'essere, e di essere aspettato. La frenesia che qualche cosa sia o non sia mai stata è convulsione senza sbocco. Non lo vedi che siam soli? Irrimediabilmente soli, indecifrabilmente soli, stupendamente soli? Non senti che abrasione di una stella è pari a morte di un amico, larva deglutita da cornacchia, airone deturpato in un agguato di sparvieri predatori? Non senti che la vita è una soltanto e non ci può bastare mai, davvero mai? Reclamati bellezza, sii tutto ciò che puoi: la vita non è cosa che si ama: la vita è quella cosa che si è!

L’attesero in quattro, ed il tutto si svolse in silenzio. Irene raccolse i capelli, poi il cuore per pochi secondi fu a casa: la vacca muggì, il grano, scomposto dal vento, ondeggiò ed il sole creò quel groviglio di ombre diretto al convoglio in attesa. Ci vollero solo quaranta minuti per compiere tutto: partenza, prelievo, ritorno. Le donne, le altre, eran note a metà: Svetlana, Katiuša, Jelena... clonarsi di visi e di nomi guastati, ingoiati dal tempo, oramai sfigurati dagli enterosucchi di ogni memoria. Ancorate ad un uomo con mitra gettavano sguardi di ghiaccio, danzando superbe su pioli di legno del carro bestiame.

Ci furono stupri di massa, ma questo fu nulla.

Volarono botte – ad Oksana spaccarono due premolari – ma questo fu nulla.

Due notti e tre giorni di viaggio, senz’acqua né cibo, quaranta ragazze pressate in un solo vagone, ma questo fu nulla.

L’arrivo nel buio, latrare di cani furiosi, le chiome rasate, in fila per cinque, paura di essere uccise, annientate, ma questo fu nulla.

Spogliate, private del viso, condotte a ceffoni ed insulti nel blocco diciotto, bordello del campo: punite del loro peccato col loro peccato in eterno, ma questo fu nulla.

La vera tortura non è negazione forzata di ciò che si è – pensò Maša –  distruzione dell’Io. La vera tortura comincia laddove si perde quel lusso di essere molti in un corpo soltanto e si resta ancorati ad un unico nome, ad un unico sé, scomparsa di tutti i tuoi sosia interiori, di molte occasioni di vita, del sogno. La vera tortura è sentirsi bambini in un unico corpo di adulto, spiegare le ali e restare ancorati alla terra, vedersi negato all’esterno quel volo interiore, restare soltanto quel poco o quel molto – non fa differenza – che si è. La vera tortura è il profumo dei campi in agosto, il sapore del latte bevuto, ricordo di giorni felici, attesa di giorni migliori. Tortura è memoria ed anticipazione dell’ unicità reiterata.

Poi l’alba, la prima di un numero incerto, fu grido: « Wstavac! In piedi! Wstavac! ».

Di nuovo impilate per cinque, pressate, incastrate le une nel corpo delle altre a marciare dal blocco alla piazza d’appello (due ore di appello) immobili, erette. Mezz’ora di attesa del nulla, tre ore di vaglio dei corpi: chi sana, chi anziana, chi affetta da morbo; icone graffiate da pioggia incessante di sguardi maligni, valanghe di mani importune, violente slavine di offese.

Infine la porta del lager-bordello. La sala d’aspetto, imbrunita dalle ante socchiuse, sapeva d’incenso stantio come antica cappella pagana adibita a rifugio dei primi cristiani, e di poi sconsacrata per sempre.

Per quanto può essere eterno un per sempre? Due giorni? Due anni? Un minuto?

Col tempo, a lenire la celebrazione infeconda del rito carnale, ben presto soggiunse la fuga interiore, il ritorno a un passato di poco migliore, ma alquanto diverso, così che l’untuoso calore di corpi ubriachi, grondanti sudore e paura, potesse mutarsi in un raggio lontano di sole, seppure sottile ed astratto. Accadde per tanto che, una sera di marzo, sotto al peso di un feldmaresciallo ansimante, la calda stagione scavò la sua breccia anzitempo, sciogliendo quei nodi che inchiodano l’anima al corpo. Lei prese il cammino a ritroso nel tempo. Per non più tornare. Ed ancora una volta si vide bambina in un mondo perduto.

In quel mondo l’estate era un nodo di canto d’uccelli. Smagriti di fame – le pance rigonfie d’inverno e gorilka¹ – solcavano i campi a contarne i germogli: i padri e le madri con sandali in pioppo, le bimbe con calli su pelli graffiate da steli ed ortica. Sedevano, a sera sugli usci, ingobbite e tarchiate figure. Parlavano piano, di cose segrete: raccolti mancati, adultéri, speranze. Col crescere d’intimità si narrava – pur sempre dubbiosi – di nausee, di ascite, di strie verdeggianti sul ventre: di pianto e di fame. Le donne (appartate con donne) ed i maschi (appartati con maschi), sfilate di edentuli spettri, torcevano zitti le labbra e azzannavano l’aria, gli odori, i profumi, le spore. Nerissima pece, la terra era regno dei piccoli, inutili bimbi. Carponi e depressi, due gravide lune di occhi su stelo di corpo emaciato, strisciavano in cerca di vermi, facevano guerra coi corvi. Lottavano nudi ma quella – la pelle – era veste preziosa, era l’unica veste.

 
 
 
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