Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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« L'equilibrioVincent »

L'adolescenza

Post n°29 pubblicato il 04 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Lo scorgi quel puntino luminoso, quel vermicello levitante che ora, proprio ora, si avvicina all’orizzonte della luna vista dalla Terra? Guarda bene! A destra del Cane minore, ad ore dieci del tuo campo visivo, accanto a quel sottile impasto di galassie che puoi intendere soltanto con la coda del tuo occhio. Non fissarlo! Guarda un punto indefinito e lo vedrai. Inclina il collo, un poco indietro ancora. Lo vedi, ora? Ebbene, quello sono io. Non so come ci sia finito, ma sono qui da sempre.

La luce sulla Terra è fluorescente questa notte. Come bava di lumaca su di un faggio intinto in porpora fenicia, scintilla di natura. Galleggio in una tuta riscaldata dal mio stesso fiato, da millenni non mi nutro. Spesso dormo. La luna emette brevi lampi attorcigliati, fulminei come lingue di serpente, sinuosi come plasma, ed io mi immagino altre vite che non ho.

Accade a volte di incrociare altri natanti, anch’essi fluttuanti dentro al nulla, diretti in seno al nulla. I nostri sguardi si miscelano in  pupille dilatate, a simulare una parvenza di saluto che, nell’arco di secondi, si trasforma in un addio. Non so chi siano, ma sono molti e sono qui da sempre. Talora hanno una tuta colorata, talaltra gli occhi azzurri o verdi o grigi. Gli zigomi, le labbra, il naso restano celati da una cuffia scura che si annulla dentro al buio dello sferico scafandro. Un tempo mi chiedevo: « Di dove giungono? Chi sono? Dove vanno? ». Soltanto poi capii che si trattava di me stesso, di un me stesso duplicato, di perfetta clonazione. Ed io ero loro, e loro me. E insieme noi eravamo uno soltanto. Ed era qui da sempre.

Ho visto ogni passaggio di cometa. Ho rasentato per un tempo indefinito il giallo acceso di Mercurio. Adesso giungo in questo angolo di cosmo e vi intravedo. Avete fame? Avete freddo? Avete sonno?

Qui nel cielo tutto è immerso in un ronzio soffuso e dolce che non si interrompe mai: un lieve attrito di sussurro generato dal ruotare dei pianeti puntella questo vuoto dentro a un vuoto, paradosso colmo di serenità. Non v’è punto cardinale, non v’è tempo, ed ogni spazio è relativo e clonazione di altro spazio relativo ad altro spazio. Dovunque io mi volga il panorama resta uguale, immobile e perfetto. Per secoli, millenni, ho navigato in uno splendido barlume di coscienza sopraffatta da un’ipnosi zuccherina, un sonno a tratti lieve, a tratti fondo. Pensiero alcuno mi ha trafitto prima ch’io giungessi qua, in vista della vostra sfera azzurra. Neppure Alcione, Asterope, Taigete hanno interrotto quella vegetale assenza, spezzato quella ragnatela che mi avviluppava come vischio in una rete di pulsioni a mala pena percepite. Non so che cosa sia accaduto dopo. Avvicinando il blu dei mari, l’ocra delle terre, ho scorto una distesa cristallina e bianca. Da lì mi è giunto un canto, prepotente e disperato: « Luna, lassù,/amico fraterno, lassù,/tu mi dai un poco di calore,/le finestre si illuminano./Luna lassù, tu sei la mia sola sorgente di luce,/io sto cercando di asciugare i miei vestiti,/è improbabile, è impossibile, non ce la farò... »

Allora qualche cosa di tremendo e sconosciuto è entrato in me. Il suono delle stelle s’è chetato e, nel profondo, ho udito un gemito e un singhiozzo prolungati. Un brivido mi ha scosso e ho percepito il freddo e un corpo e, con orrore, l’ ho scoperto essere mio. Io non ho avuto freddo mai. Io non avevo un corpo. Cos’è questo formicolio ? Perché non riesco nuovamente a prender sonno ? Perché non torna notte ancora ? Da sempre fu la notte la mia culla. Ma ora questa luce prepotente illumina distese pianeggianti, spezzate solamente dall’ergersi di gelide montagne, maestosi cumuli di neve. Brusio di voci invade il cielo, raschiare aritmico di pale, cadenzare di campane, latrati di canili, matasse di linguaggi in sottofondo. In questo anfratto di universo, la spirale che da mane giunge a sera e che da sera va al mattino si frammenta a generare il tempo. E il tempo è doloroso. La luce di per sé è dolore acuto. La notte era uno stato della mente e come tale apparteneva a differente dimensione. In essa le paure e i desideri non avevano motivo di incarnarsi: l'energia si disperdeva a disgregare la materia e la materia non desiderava un corpo. Da quella dimensione era precluso il cosiddetto invecchiamento, ovvero l'interscambio tra la massa e l’energia affinché ogni cosa, dentro e fuori della tuta, non potesse mai incontrarsi. Quello che mi sta accadendo ora è un cataclisma. Feroce spacco tra la luce e il buio, tra me stesso e un altro me. Battaglia sanguinosa di trincea, eucaristia senza officiante, estenuante, spaventosa lotta contro belve incattivite dalla prigionia dei sensi. A volte è  un demone ad avere l'ultima parola, perciò la vista del pianeta mi regala una leggera, nuova ruga a devastare un angolo di bocca, un margine di palpebra, pochi millimetri di tendine di cuore; a volte invece un angelo si impadronisce di quell’ultima sentenza, regalando un volto fresco, una leggera sensazione di antigravità, molecola di ossigeno da spendere in aggiunto battito cardiaco. In ambo i casi è una frustata. Impercettibile e crudele punizione stabilita da impietoso tribunale in cui noi tutti, accusatori ed imputati in ugual modo, decidiamo se vivere, quanto vivere ed il come ed il perché. Tra un martirio ed un osanna, una crocifissione ed un trionfo, lasciamo vittime sul campo, eroi dell'indomani: sfaldate cellule smarrite tra lenzuola, disertori fucilati con l’accusa di alto tradimento, neuroni spesi in nome della percezione. Capire d’esser corpo: carezza e benda profumata su ferita infetta, suicidio programmato, imposta disciplina a mala pena diluita lungo l’arco di una vita breve ed insensata. E poi:  disfatta, febbre, cancro, solitudine, paura. Fame, sete e cecità.

È questo, dunque, che provate voi laggiù? Che bizzarria di esperimento l’auto-percezione! A quale pro? Sospesi su una sfera di pietruzze ed acqua, condannati al turbine continuo della rotazione, all’agonia costante della gravità, dovete inoltre sopportare una lucidità interiore che vi strappa da voi stessi e vi proietta in una misera autopsia fautrice di dolore. Schiavi di leggi imperscrutabili, fischiate come canne al vento imprigionate nella melma ed assistete allo spezzarsi – ad una ad una – delle vostre verità. Il canto che ne esce sale al cielo ed urta cupamente ogni parete, rimandato e tramandato ad inquinare i sogni naviganti ed incoscienti come me. Coscienza: eccovi il nome del dolore! Coscienza di che cosa? Vedere un orizzonte senza fine è pari al non vedere alcuna fine, alcun principio. Vedere e non poter toccare, udire e non comprendere, ma solo interpretare; cibarsi, ma col garbo del debilitato in agonia. È questo il vivere laggiù? Vorrei fuggire, ma qualcosa mi trascina verso il basso. La sfera si fa piana: la Terra si avvicina. Massa, raggio alla seconda, costante gravitazionale. Mi percepisco greve, il corpo pesa, sto sudando. Non sento più il ronzio dell’Universo: la Terra ha rotazione difettosa? Siete in continua veglia? Come fate? Questo caldo!... ma la causa non è il caldo. Se soltanto fosse il caldo forse riuscirei a calmarlo respirando a bocca aperta, dissetandomi coi fiumi di sudore che m’imperlano la fronte e, giunti all’apice del naso, si riversano in cascate fragorose sul torace. E dal torace al suolo. Perché mai prima di ora il suolo è stato così avido, magnetico, goloso del mio corpo. La forza d’attrazione delle masse si fa orgia, il pianeta mi richiama, mi brama di cannibale ossessione, emana possessione, aspira al furto. Perché di furto qua si tratta, non di rapimento. L’oggetto delle brame è questa pelle, è questo cuore, questi reni, questa carne. Niente richiede l’anima, nessuno sa che farsene di quella. S’aggira fatua e pretenziosa approfittandosi dei vuoti tra elettroni e nuclei, lascivo parassita, prostituta che ti insinua la divinità, muta la rotta dell’imbarcazione ed abbandona il ponte al primo impatto con lo scoglio della materialità. Non ho mai perso così tanto la mia carne prima d’ora, quando ancora non sapevo fosse mia. Adesso che la percepisco, sento il tempo depredarla pezzo a pezzo: il senso dell’incarnazione è l’equilibrio della massa universale che ha da essere costante perché tutto non si spenga all’improvviso. Che io divenga uomo è ormai obbligato, il peso opprime, il mondo chiama. Ma quale uomo? Chi sarò? Le vostre grida percepite qui dall’esosfera sono vaghe, inutili scommesse. Ognuno si proclama « Io ». Dovrò incarnarmi in « Io »? Se io sono Io, se anche tu sei Io, se tutti siamo Io, chi sarò io? Se l’Io sarà tutto ciò che avrò del mondo, se tutti lo possiedono, che cosa sarà unicamente mio? Se inferno sono gli altri, ed io sono l’inferno tuo, e noi siamo l’inferno altrui, suicidio ed omicidio, o meglio non incarnazione, sono il paradiso? Dal canto mio, che tutto sia insensato e abbia una fine passi, ma che alla fine debba corrispondere un inizio è sconveniente crudeltà. Così tu sei mia crudeltà, così per te lo sono io. La troposfera è colma di motteggi di condivisione, tolleranza, amore. L’amore è soluzione artificiale a guerra naturale: si dolgano le madri, impugnino i forconi i padri. L’amore è una bugia della paura. Gli atomi si urtano l’un l’altro in un saccheggio di elettroni al fine di occupare spazio con il minimo dispendio di risorse: il fine ultimo non è la convivenza ma la soppressione del non-self, l’appropriazione di quell’ Io che non può essere disperso, condiviso. Ed ogni atomo sarebbe ben felice di annientare gli altri e finalmente essere il Tutto senza più, mai più dover mutare di traiettoria o di energia. Ciò che si biasima, la guerra, è in fondo ciò che tiene vivi: miriadi di anticorpi divorano invasori a preservare integrità e sopravvivenza: il mondo nasce da uno spacco, non da un bacio.

Lo spacco avviene ora: aumenta la temperatura, la tuta prende fuoco, una vertigine che sale dalla pancia e gonfia gli occhi è traduzione del precipitare. La ionosfera è il vostro mondo che si espande, è il mio universo che soccombe: il vostro zenit è il mio nadir. Accelerato in modo esponenziale, inarrestabile meteora, sono microbo fagocitato, anello di benzene derubato d’atomo di idrogeno; da ciclico, protetto e stabile, mi apro con dolore al mutamento, esposto alla battaglia quotidiana della materialità terrestre: crollo. Chi sarò? Cosa sarò? La geografia laggiù si fa pastello, mescolanza di colori con la coda, scie confuse d’incredulità, spavento, aspettative. Il mare schiuma, un bimbo nudo abbraccia un cucciolo di lupo, una ragazza s’addormenta sulle scale, un uomo calvo si ubriaca. Il cielo tuona, una signora piange sola in una stanza, un treno sfreccia accanto ad una mezzaluna. La pioggia scroscia su tettoie di lamiera, inonda i campi, inventa fiumi che trascinano detriti, volti, nomi, cellule sfaldate e tutto torna al mare e questo sale al cielo e il cielo si fa pioggia e torna al mare. E il mare schiuma. Chi sarò? Cosa sarò? Rigagnolo di acqua infiltra, un masso viene eroso alla radice, si distacca, rotola ingoiato dal crepaccio, si frantuma partorendo un microsisma che fa breccia per la falda circostante: nuovo liquido si insinua, erode, spezza. La terra urla, ha fame di materia. Per esistere si deve divorare, digerire, vomitare, plasmarti, ingurgitarti, rigettarti. Il tutto un anello senza capo, senza coda, ciclo di voracità feroce in cui tu sei soltanto corpo e il corpo solo cibo per la macchina di un tempo immoto, giogo ridondante d’un’evoluzione a guisa di spirale.

Stratosfera: sempre più vicino. Madreperlacee nubi iridescenti aprono fauci con fanoni di vapore, deglutiscono la mia caduta in una peristalsi di correnti che sospingono più giù, verso la troposfera, stomaco di succhi corrosivi in cui ci si dimena per non essere dissolti. Ma la carne si dissolve. Da bolide a meteora, da meteora a meteorite, mi consumo. La velocità si è espande, il tempo si ritrae sempre di più, ne resta poco, sempre meno. Il vostro è un canto gregoriano, acuto ed angosciante dice « Vieni! Cresci! Vieni! » sillaba « Scendi! Vivi! Scendi! ». « Com’è accaduto che mi permettessi di sottrarmi così a lungo alla follia della gravitazione? » voi pensate « Sfiorare chiome di comete, carezzare eso-galassie, riposarmi in nebulose, a chi serviva? » biasimate « Chi sei tu per non nuotare in questo impasto di materia e percezione, faticare, insudiciarti in questa lotta senza senso?».

A diecimila metri dal terreno l’attrito si fa scoppio, ottunde la coscienza. Mentre l’uomo si addormenta l’animale si risveglia, si ribella. Non riesce a sopportare quell’idea: l’essere Io senza l’unicità. Salivazione, rabbia, morso: brandelli dilaniati, dispersione. Mi frantumo. Da bolide a meteora, da meteora a meteorite. Infine solo polvere stellare, dispersa per i continenti come spora in primavera, trasportata dalle onde ad incarnarsi in molti corpi, in molti  Io. Volteggio a piuma, mi deposito dovunque. Chi sono? Chi sarò? Sarò chiunque.

 

  Y. Stratos ®

 
 
 
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