Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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L'equilibrio

Post n°25 pubblicato il 01 Agosto 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Ai piedi di un ghiacciaio di alta quota, sfregiata da un ruscello solitario con riverbero di luna, la notte si addolora. Sospinge nebbie eterne, le costringe ad umiliarsi, a degradarsi in piccole gocciole di rugiada che riveste una scalea. Dall’ultimo gradino si diparte una colonna, sormontata da una lacrima di marmo. In cima vi sta un uomo. La fronte è corrugata, le palpebre rigonfie. È il re del Pianto. Alle sue spalle una signora, immobile nel tempo – chissà da quanto ormai – indossa un paramento di satin, le dita ossute lo martoriano nervose, inappagate. È la regina del Singhiozzo. Un vento di ponente li separa, re e regina. È solo un rivolo, una bava, potrebbero spezzarlo con un bacio, eppure se ne restano distanti e taciturni. Il canto del torrente, bizzarro ed argentino, colma il vuoto di parole e crea illusioni di monologo incessante. Ma entrambi, i due regnanti, sono soli. Immensamente soli. Un tempo si inseguirono giocosi, tintinnarono corone nella foga dell’ardore. Un tempo dialogarono tenendosi per mano. Poi, fu in maggio o fu in novembre, una sottile galaverna scheletrì quel desiderio di parola. Da allora, cioè da sempre, il loro mondo è governato dalla nebbia. Accade che, di tanto in tanto, s’oda un grido di animale in lontananza, un ticchettio di fossile spezzato, fruscio di ali infreddolite, ma è un linguaggio primitivo, insufficiente. « Il cielo volge al bello » constata la regina « la nebbia si diraderà ». « Sarà come tu dici » osserva il re, flettendo dolcemente il capo. « Sarà. » annuisce la regina. Lo smalto delle unghie sbava il viola del satin come terriccio sul coperchio di una bara ed una volpe abbaia acuta nella bruma. « Davvero pensi si diraderà? » soggiunge. « Non ti dare pena » risponde il re, stizzito « che altro è il domani se non ieri da venire? ». « Già » sospira la regina « che altro mai. » Il re strascica i piedi come un bimbo pensieroso, un dubbio ormai si insinua, gli si legge chiaro in volto: « Forse lei non mi ama più? ». Ma nessuno può vederne il volto, nemmeno la regina lo ha mai visto, lui l’ ha sempre preceduta, lei lo ha sempre tallonato, non vi è stato mai un incontro che non fosse solo verbo, abbraccio stilizzato, amplesso sublimato. « Desideri danzare insieme a me? » domanda tutt’a un tratto la regina. Il re si scuote in un sussulto, apre la bocca tramortito, prontamente la richiude, la riapre: « Danzare è poco serio, significa patire un vuoto interno e non riuscire mai a colmarlo ».  « Già » sospira la regina « se così dici, altro non è ». Il re si flette un poco, sconsolato, la regina increspa l’abito delusa, torna il regno del silenzio. Neghittosa, la caligine riavvolge la speranza, fluidifica l’attesa di qualcosa che non c’è. La notte sa di acqua, tutto è acqua. Il letto del ruscello è ricamato di sottile intreccio d’aghi delle tuje, imprigionati nelle squame delle pigne che, incessanti, cadono dal folto della nebbia e partoriscono concentriche collane in superficie. Le onde si propagano leggere, come lingue di velluto si dipanano in carezze contro agli argini di ghiaccio. Sul fondo, tra i ciottoli smussati, due cellule ibernate si congiungono, si scambiano frammenti di esistenza, serpentelli di materia, sintetizzano una vita. « Se solo nostro figlio ritornasse! » singhiozza la regina. « Mia cara » piange il re « noi non abbiamo un figlio. Non lo abbiamo avuto mai. » « Eppure io ne sento la mancanza » insiste la regina « per cui, da qualche parte, in qualche tempo, esiste e non sa più come tornare. » Il re vorrebbe prenderle le mani, carezzarle dolcemente, ma il singhiozzo non precede il pianto e lui non può voltarsi, lei non può raggiungerlo. Inseparabili e divisi, non si incontrano che in altra dimensione generata dalle loro immateriali essenze, prodotto di reagenti in una nebbia burrascosa che confonde, obnubila, prosciuga. Idrogeno ed ossigeno si perdono nell’acqua, e l’acqua è un Esperanto, un artificio per intravedersi in terra di nessuno. Il verbo è acqua. « Ne sono certo, cara » osserva il re « non c’è alcun figlio, nessuno si è smarrito... » ma la regina grida indispettita « Desidero qualcosa che non c’è, vorresti dire? Allora, se non c’è, perché ne ho voglia? » Il re è inquieto. Qualcosa gli si spezza dentro: turbinio di sogni antichi si discioglie in un monologo sofferto, struggente apologia del pianto. « Amore mio » ricorda « i lupi della notte in cui ti ho udita, la prima intendo, erano a un passo. La bava ne rigava le vallate, lacrimate tra un rilievo di grafite e ghiaccio ed uno sputo si stagliava tra l’abete e l’avvenire. La notte in cui ti ho udita, intendo, era una notte senza giorno. O di più giorni ripetuti, clonazioni di apodittici coluri, occluse nari in universo di profumi. La notte che ti udii fu incanto, prima unghia d’embrione, fine lista della spesa, anfitrione divertente, luce spenta quando il sole torna e, caro, sfiora inverni di silenzio. Abbiamo bimbi? Tu sei bimba indaffarata, colma di sacralità decidua, soppesata, astrusa, dimezzata, astuta, antropomorfa, dolorosa di un’acidità pungente, assurda, scialba ed occludente, nord che viene sera e muta stella in Vega, tempo addietro, tempo avanti, assoluzione, mia contemplazione, addio. Se amare è naufragare in un anfratto di illusioni, io nuoterò con te ». Quell’ultimo pronome monosillabo si tuffa nel torrente ed entra in risonanza con il greto che, distolto dal suo sonno secolare, vibra: le cellule, congiunte da un sottile istmo di calcarea rena, si separano ed il loro viaggio a valle ha inizio. Discendendo, si deformano al contatto con la ghiaia, si espandono e ritraggono pulsando. Attraversano paesaggi che non possono vedere ma conoscono da sempre: rapprese cere d’api lungo colli di bottiglia che ricordano vulcani lacrimosi, gomitoli di lana ritagliata in stelle alpine, pastelli di pinete sdrucciolevoli. « La materia è desiderio » canticchia ora, sottovoce, la regina « il desiderio è vita ». Si impigliano nel grembo delle alghe, riposano, riprendono il cammino. I primi raggi di una stella incandescente si rifrangono nell’acqua, la riscaldano, compaiono i colori. Branchi di creature sagittate dardeggiano festanti, indaffarate, mentre il mondo sovrastante si tramuta in tundra e, questa, in ampio piano verdeggiante. Un piccolo, sommesso mulinello tra due pietre in una dolce insenatura trattiene le due cellule: il viaggio è terminato ed ora il sortilegio ha inizio.

 

                                                                   *

Ai margini di un bosco rigoglioso, solcato da un ruscello di pianura, il giorno è appena sorto. Immerse nel tepore mattutino, due anime si inseguono felici. Lei, ghirlanda di mughetto attorno al capo, è la Signora della Grazia. Lui, la chioma fluttuante, è il Signore del Sorriso. Entrambi nudi, ora si osservano incantati, ora si stringono le carni. L’amore li alimenta, l’acqua fresca del torrente li disseta. « Dente di cane / coda di coniglio / lingua di serpente / corri che ti piglio » canta lei, giocosa, mentre lo rincorre. Le trecce di tiepida luce si sciolgono morbide, i rami degli alberi offrono frutti maturi, dolcissimi. Il verbo qua è muto, ogni cosa è se stessa, al suo posto, del tutto incosciente di essere. Non v’è che il piacere d’un oggi che dura per sempre. Un pomo precipita in acqua, sprofonda sul greto sabbioso, rimbalza, risale e volteggia nel piccolo gorgo. L’epicarpo è poroso, le cellule vi restano adese. Appetibile, rosso di sole, la donna lo leva dall’acqua, lo addenta, ne offre al compagno, lo getta. Il torsolo, scheletro d’eucaristia, ora è immerso in terriccio fragrante e fecondo, i suoi semi germogliano. Piccoli rami violenti sprofondano al centro del globo terracqueo e s’intrecciano a rivoli caldi di ferro, di nichel, di fuoco. Venature beanti trasportano il magma ad un fusto che fende il tappeto di erba e risale nel cielo. Il mostro di legno, possente, si slancia a cercare la luce, emette ramifere digitazioni annaspanti, affamate di aria. Le frasche si chinano al peso di gemme e boccioli, compaiono fiori scarlatti, a decine, a migliaia, miliardi di fiori scarlatti che creano un’aurora terrestre. Poi, uno per uno, appassiscono, seccano, lasciano spoglio il gigante, ingobbito e smembrato come scheletro mai appartenuto a nessuno. Si ode abbaiare una volpe.  Ora la signora della Grazia è stremata, si accascia sull’erba, osserva pensosa le nubi. Il signore del Sorriso le si accomoda al fianco, le sfiora i capelli insicuro, ritira la mano e il suo sguardo si perde lontano. Tutto appare più lento, sbiadito, ovattato, circonfuso di un’aura irreale. Qualcosa si muove nel verde, ne scosta gli steli strisciando: è un sibilo aspro, una noce di vespe furiose. « Che cosa è accaduto? » domanda sgomenta la giovane donna « Che cosa è cambiato? ». Il re del Sorriso nemmeno si volge a guardarla, una lacrima occlude la gola, vorrebbe parlare ma suda, ha l’affanno. La noce di vespe furiose avvicina la donna, si annida nel grembo, vi penetra. Una patina grigia, profonda come acqua di stagno in autunno, discende nel cuore e rovista: ignote paure finiscono in circolo, percorrono ogni tessuto. Con gesto stizzito la donna si scuote di dosso qualcosa, poi cinge le braccia a difendersi il corpo. È nuda e fa freddo, una stilla di sangue le riga una coscia, serpeggia accidiosa, ricade sull’erba. La luce del sole è azzurrognola tela di ghiaccio che increspa la pelle e un sapore di vuoto perpetuo e angoscioso riecheggia, un metallico senso di colpa che morde alla cieca ha scalzato la gioia. Ora tutto è un’attesa infinita del tutto ed il nulla è un’attesa infinita del nulla. Il richiamo animale si smorza, la vergogna di essere privi di vesti travolge. Bisogna trovare rifugio nel bosco. Ma il bosco è caduto nell’ombra, una brina improvvisa ricopre ogni cosa, fissandola in gelido istante che dura in eterno, atarassico, afasico, spento. Bisogna combatterlo, il freddo. Inventare indumenti, trovare un riparo, una nicchia, una grotta, qualcosa di chiuso e di caldo. Raccogliere rami e fogliame, discioglierne il ghiaccio col fiato, plasmarli con mani e sudore: sudore! La muscolatura si tende, il carbonio è bruciato, la fabbrica della tristezza si apre in vapore, sbuffato da lunghe trachee derelitte, tradite da un sogno deluso, superbo e infelice. Dolore e lavoro. Lavoro e dolore. La notte di un giorno perenne è calata sul mondo.

 

                                                                    *

Ancora più a valle, oltre un’insenatura d’argilla, sfidando le leggi scoperte dall’uomo, il torrente si torce a spirale ed arrampica un monte vieppiù denudato del verde. La cima ha un berretto di nebbia stantia, fotogramma di acqua rappresa. Lassù, re e regina, governano, a turno, il singhiozzo ed il pianto del cosmo. Lo sguardo di lei si conficca a strapiombo in un lembo lontano di nulla, le labbra di lui sono piccole valve di ostrica morta da tempo. Là il tempo è un concetto storpiato, matrimonio perfetto tra il mai ed il per sempre. Eppure la donna è in attesa, il suo sposo è nervoso, apprensivo. Entrambi passeggiano senza avanzare di un metro. « È vicino, lo sento, è tornato! » risuona solenne il presagio. Graffiata da un lampo fugace – una sorta di globo che emana un alone vibrante, sonoro alveare che avanza – la foschia si dirada in cristalli di piccole gocce argentate, trafitte da un debole raggio di sole, che assume la forma di spada dall’elsa dorata. Un singulto terrestre, errabondo, discende dall’apice ai piedi del monte, creando dei piccoli vortici d’aria che crepano il ghiaccio e risvegliano spore sepolte nell’ humus. La coltre gelata comincia a squagliarsi, losanghe di tundra ibernata si affacciano al cielo, affiorano isole verdi in un mare di gelo disciolto che, docile, scorre giù a valle. Squagliandosi, il picco si smussa, si abbassa, si appiana, abbandona l’anello di nebbia sgusciandovi dentro, smagrito anulare sguarnito di fede in divorzio solenne. Sul volto del re prende forma una ruga stupita, insueta: è un sorriso. D’impulso vorrebbe voltarsi, guardare la sposa di sempre. Sgomento, ci prova, sorpreso ci riesce. E la vede. Fragranze di bacche essiccate pervadono l’abito della regina, ghirlande di pace le colmano gli occhi di piccole stelle brillanti, stupende: il singhiozzo è soltanto un ricordo. Lontano, nel cuore di un’alba soffusa, si sente abbaiare una volpe. Il disgelo è iniziato.

 

      Y. Stratos ®

 
 
 
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