Creato da FenomenidiEmersione il 05/01/2013
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  I sette dormienti - Stratos Yolanthe

 

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La sete

Post n°18 pubblicato il 24 Luglio 2013 da FenomenidiEmersione
 
Foto di FenomenidiEmersione

Il locale è nascosto. È possibile scorgerne l’uscio soltanto col passaparola. L’insegna, purpurea ma fioca, fa aggetto in un piccolo metro di asfalto celato da un angolo tetro incavato all’interno di un angolo oscuro, a sua volta incassato tra finte sporgenze dipinte di nebbia che creano una nicchia, profonda ma angusta. L’ingresso presenta tre porte: la prima ha il colore del buio ed è fatta di puro carbonio, la seconda è barriera traslucida d’aria compressa sparata in brutali correnti, la terza è d’avorio africano splendente. Un piccolo atrio scavato nel plexiglas accoglie cappotti e cappelli e si apre a estuario in cunicoli stretti, foderati di cuoio conciato ed immerso in tintura castana. I cunicoli sfociano, ognuno ad altezza diversa, in un vacuo salone rotondo e biconcavo al centro. Non v’è che un bancone di marmo. La ragazza sta dietro il bancone: vermiglie le labbra, vermiglie le unghie, vermigli i capelli. Mesce bibite dense e sorride. Avventori scomposti si accalcano attorno a un cilindro di acciaio che termina in una stenosi beante: da questa, la bibita densa è sputata in un grosso catino di rame da cui la ragazza, con piccole ciotole in peltro, attinge del liquido spesso e carminio. È la sola ragazza là dentro. Circondata da visi assetati ed urlanti, si muove con tenera grazia e dispensa bevande ad ognuno, con gesto meccanico, ma ben misurato, dimostra interesse per tutti. In realtà lei non vede nessuno, due lenti a contatto rossastre rivestono l’iride e sporgono sulla pupilla a restringerne il campo visivo. È così da contratto – lei dice – non deve vedere nessuno, non può ricordare nessuno, è assunta per mescere e dimenticare. D’altronde, a sua volta nessuno ricorda il suo viso. Ciò che attrae è quel colore vermiglio di smalto, rossetto e vernice, nessuno si cura di cosa si celi al di sotto, l’infrarosso è invisibile ai sensi e la sete è l’urgenza assoluta. La folla maschile è pigiata, i corpi si strusciano l’uno sull’altro, sudati e violenti. Una radio avvitata al soffitto trasmette una nenia sinistra; una sorta di prece, volgare e insistente, dissemina l’aria di germi invasivi, motteggi stanati da un mantra ancestrale: « Il sangue è l’essenza – bevetene tutti – prendetene tutti – tingete di rosso la vita ». La ragazza non sembra capirne una sola parola. Capire non è necessario, lei stessa non parla, si limita a mescere il solo prodotto richiesto e sorride. A nessuno interessa che cosa lei pensi, da dove provenga e chi sia. Ha un’età tra i venti anni e gli ottanta, le mani serrate in due piccoli guanti di diafana pelle, alle orecchie due ciondoli a forma di goccia pendente. Caviglie sottili solcate da lacci di cuoio, sospese su tacchi elevati, si muovono leste nel nugolo irsuto di maschi, schivando a fatica le pozze di sangue raccoltesi a terra. « È soltanto un lavoro » ripete a se stessa « soltanto un lavoro ». Inoltre il gestore – uno scricciolo d’uomo peloso con collo di toro – sebbene sia affetto anche lui dalla cronica sete, le lascia una valida parte di incasso, provvede a saldarle sia vitto che alloggio, ne cura l’immagine pubblica. È vero che siede nel retro, protetto da un vetro oscurato, ed osserva ogni suo movimento e talora si infuria se qualche avventore domanda uno sconto, ma questa evenienza è infrequente: la sete giustifica l’esuberanza del prezzo. Giustifica tutto.

 Intanto all’esterno un’anonima folla maschile è in attesa di entrare. Protetti dal buio, individui di varie fattezze ed età, assetati e impazienti si schermano dietro a riviste ed occhiali da sole, camicie con baveri alzati, cappucci di felpe. Ciascuno è convinto del mantra, nessuno di loro ritiene che il fare del sangue bevanda sia insano, eppure si ignorano a turno, vorrebbero berlo lontano dagli occhi degli altri, in un rito privato. Non sanno da dove gli giunga la sete, non sanno il perché la si provi, a che serva placarla in quel modo. È un richiamo potente, una subdola, piccola spina invisibile ben conficcata che infiamma il pensiero a cadenza costante e costringe a una sorta di caccia animale furiosa. Il motivo si perde nel tempo, capirlo non ha più nessuna importanza, soltanto una cosa è essenziale: entrare, levarsi l’arsura, tornare nel buio. Lo sa la ragazza che il mondo là fuori è così? Lo sa, ma non conta, è soltanto un lavoro, la sete non è cosa sua. Finito il suo turno, si ritira in un piccolo monolocale in affitto, lontano da tutto, arredato con gusto di bimbo o di anziano sereno. Impaziente si leva le scarpe – massaggia la pelle laddove stringevano i lacci – si strucca. Levate le lenti a contatto, la luce le esplode negli occhi: il rifugio ha pareti con porte-finestra che danno a ponente, il tramonto è un intreccio di fiori, un riassunto di sogni dipinti che screziano il cuore di pace. A doccia ultimata, lei indossa un kimono di lino e, scostate le tende, si siede a caviglie incrociate di fronte a quel gioco policromo e immenso. Il tempo di un ammiccamento e un’ ipnosi profonda la assorbe: lo spazio si espande, gli oggetti si fanno distanti, l’eleganza del vuoto risana ferite nascoste in un angolo tetro celato da un angolo oscuro, silenzio di un cuore che urla. Le palpebre chiuse dilatano il campo visivo. I fotoni tratteggiano mondi squisiti, realtà parallele, fantastici angeli privi di sete, con ali sontuose e regali (e privi di sete), con occhi ricolmi di anima e idee (e privi di sete), con gesti di tenero airone orgoglioso (e privi di sete), fluttuanti su trame di delicatezza e attenzione ed amore e presenza, empatia, devozione di angelo privo di sete. E più su, dove prima il soffitto chiudeva la stanza, si aprono mondi più vasti dei primi: giardini di semplice essenza fuggiti dai corpi, solcati da stormi di anime senza una meta (la meta è dovunque, la meta è il principio, la meta è la fine), frinire di grilli e cicale in un mare dorato di grano ondeggiante in un luglio perenne. Ed ancora più su, superati i confini del cosmo, frantumate barriere del suono disgregano il verbo e troneggia il silenzio assoluto: la culla di luce ondulante è raggiunta, la sete è una cosa remota.

La notte ha ammansito la sera innalzando uno spicchio di luna. Il kimono si tinge di latte, le pieghe di stoffa si fanno sentieri ed i raggi vi slittano sopra stillando sui piedi raccolti, rimbalzano in volto ed il volto si specchia nel vetro che da sullo spicchio di luna. È un riflesso sfumato: una treccia incornicia due labbra distese, si flette sul collo, percorre una spalla e discende a pennacchio sul petto. Le guance – mari di Tranquillità separati dalle Alpi del naso – si incavano appena. La fronte – mare di Serenità – è una lacrima d’olio in quiete, lievemente chiazzata di antichi pensieri assopiti. Il grembo – mare di Fertilità – è protetto da piccole mani di giada, congiunte in un segno di pace insueta. Accanto, una bambola in abito bianco di sposa, adagiata nell’incavo di una parete, sorride alla stanza. I suoi occhi di plastica verde rammentano madri perdute, carezze sgusciate in imbuti profondi di tempo. Sulla schiena si scorge un occhiello annodato a una fune sottile: tirandone il capo, un dischetto riposto nel ventre di gomma si aziona e, sebbene le labbra scolpite nel gesso mantengano intonso il sorriso, la bambola erompe in un pianto angoscioso. Sopra a mensole brevi si allineano torme di oggetti, ricordi di tutta una vita: un berretto di lana di piccola taglia, un’ampolla di vetro con acqua di mare, un ovetto di Pasqua dipinto, un ricamo iniziato e lasciato a metà. Nel mentre, la ruota celeste volteggia, le ore trascorrono mute, accidiose. La notte pian piano si leva quell’abito scuro ed indossa il chiarore dell’alba: dapprima due guanti di nubi citrine, poi un tenue cappello di piume cremisi; distratta, si tinge le unghie di smalto, si spalma il rossetto, si china a legare dei lacci di cuoio su tacchi elevati ed indossa due lenti a contatto. Infine – alle orecchie due ciondoli a forma di goccia pendente – si avvia verso un metro di piccolo asfalto celato da un angolo tetro nel sorgere antico di un giorno qualunque. « È soltanto un lavoro » sorride quieta « soltanto un lavoro. »

 

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