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Messaggi del 11/07/2015

Il Conte di Carmagnola

Post n°1830 pubblicato il 11 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Conte di Carmagnola
di Alessandro Manzoni

Coro Atto Secondo

S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessillo;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;
l'un dell'altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra
dove nacque far salva, o morir?
- D'una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d'essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall'altre ha divisa,
e ricinta con l'alpe e col mar.
- Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è?
- Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz'ira ognun d'essi è venuto;
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché.
- Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
dall'ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar?
- Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de' morti,
e la pieta dell'arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de' monili far pompa e de' cinti,
che alle donne diserte de' vinti
il marito o l'amante rapì.
- Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d'uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
mal si regge, già cede una schiera;
già nel volgo che vincer dispera,
della vita rinasce l'amor.
Come il grano lanciato dal pieno
ventilabro nell'aria si spande;
tale intorno per l'ampio terreno
si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
ai fuggenti s'affaccian sul calle;
ma si senton più presso alle spalle
anelare il temuto destrier.
Cadon trepidi a pié de' nemici,
gettan l'arme, si danno prigioni:
il clamor delle turbe vittrici
copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
prende un foglio, il ripone, s'avvia,
sferza, sprona, divora la via;
ogni villa si desta al rumor.
Perché tutti sul pesto cammino
dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,
e sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
s orna il tempio, e risona del canto;
già s'innalzan dai cori omicidi
grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell'alpi frattanto
lo straniero gli sguardi rivolve;
vede i forti che mordon la polve,
e li conta con gioia crudel.
Affrettatevi, empite le schiere,
sospendete i trionfi ed i giochi,
ritornate alle vostre bandiere:
lo straniero discende; egli è qui.
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
e voglioso a quei campi v'attende
dove il vostro fratello perì.
Tu che angusta a' tuoi figli parevi,
tu che in pace nutrirli non sai,
fatal terra, gli estrani ricevi:
tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai,
a tue mense insultando s'asside;
degli stolti le spoglie divide;
toglie il brando di mano a' tuoi re.
Stolto anch'esso! Beata fu mai
gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
torna in pianto dell'empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
non l'abbatte l'eterna vendetta;
ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
ma lo coglie all'estremo sospir.
Tutti fatti a sembianza d'un Solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!

Alessandro Manzoni
Il Conte di Carmagnola
Coro Atto Secondo

 
 
 

Angelo Poliziano

Angelo Ambrogini, chiamato Poliziano dal nome latino di Montepulciano, una terra posta tra la Valdichiana e la Valdorcia,ove egli nacque nel luglio del 1454, venne giovinetto a Firenze e udì allo Studio le lezioni del Ficino e dell’Argiropulo. Amico di Lorenzo de’ Medici, maestro al figlio di questo, Piero, fu nel 1480 chiamato a insegnare lettere greche e latine nello Studio. Senza avere gli ordini sacri, godette di cospicue prebende e fu canonico della metropolitana: la morte, che lo colse nel 1494, lo privò della dignità cardinalizia, alla quale indubbiamente sarebbe stato chiamato. Amico di Luigi Pulci, di Pico della Mirandola, onorato da re e da principi, ebbe fiere polemiche con letterati del tempo, col Merula, col Lascaris, col Sannazzaro. Amò Ippolita Leoncina da Prato e Alessandra Scala.

Opere minori: oltre alla traduzione in esametri latini del libro secondo (il primo l'aveva tradotto il Marsuppini), terzo, quarto, quinto dell’Iliade; ad altre versioni latine da Mosco, da Callimaco; oltre alle illustrazioni al codice fiorentino delle Pandette; a varie Epistolae; al Commentarium coniurationis pactianae, alle Silvae in esametri, costituite delle prelezioni tenute allo Studio; a una Miscellanea di studi di critica e di filologia; ad epigrammi, a carmi in greco e in latino, elegantissimi nella forma; oltre a ballate, canzoni, rispetti, strambotti popolari, il Poliziano compose in volgare, nel 1471, la Fabula d’Orfeo, rappresentata nel luglio di quell’anno a Mantova, per festeggiare la presenza del duca Galeazzo Sforza. (Orfeo scende all’lnferno per liberare Euridice, ferita da un serpe, mentre fuggiva l’amante Aristeo; ottenutala dal favore di Plutone, la perde nuovamente, per non aver ottemperato alla legge prescrittagli: - opera notevole perché essa segna il tramutamento della rappresentazione da sacra in profana e il nuovo indirizzo classico del dramma: l’annunciazione della favola è fatta, non da un angelo, ma da Mercurio: l’argomento è tolto, non più dalle sacre scritture, ma dalla mitologia pagana: - elegante la forma, armoniosa l’ottava, che è il metro prevalente, belli i lamenti e le preghiere d’Orfeo, la confessione che del suo amore fa Aristeo ad Euridice, il coro delle Baccanti). -- Antonio Tebaldeo rimaneggiò, sembra, per la corte ferrarese la favola del Poliziano e ne trasse un Orfeo più ampio, partito in cinque atti, a imitazione più vera delle tragedie classiche.

Opera maggiore: le Stanze, composte nel 1476, per celebrare la giostra del 28 gennaio 1475, alla quale aveva partecipato Giuliano de’ Medici nel nome e con l’impresa dell'amata, Simonetta Cattaneo, moglie di Marco Vespucci. Il poemetto, rimasto incompiuto, forse per la morte di Giuliano, colpito dal pugnale di Bernardo Bandini, consta di un primo libro di 125 ottave e di un secondo di 46. L’argomento è in breve riassunto: Julio (Giuliano), interamente occupato a seguir le fiere fuggitive in caccia, disprezza l’amore e compiange quelli che ne sono vittima. Cupido medita una vendetta sicura: mentre l’ardito Julio caccia, nel folto della selva, l’astuto dio forma col lieve aere una cerva candida, snella e leggiadra.Julio, appena la vede, la insegue, ed essa, giunta in un prato, si tramuta in una bellissima ninfa, Simonetta, che svela il nome e l’essere suo e si allontana, mentre il sole tramonta. Il giovine è colpito profondamente da quella fulgida apparizione e non sente più i piaceri della caccia. Cupido corre dalla madre Venere, e al racconto del trionfo conseguito intreccia le lodi della casa de’ Medici. Venere esulta e vuole che Julio combatta per amore: col mezzo di Pasitea manda un sogno al giovinetto, che ne risveglia l’ ardore delle battaglie, ma gli significa insieme la morte non lontana della bella Simonetta; e qui il poema s’interrompe. -- La descrizione della caccia, del palazzo di Venere, quella della figura di Simonetta dal crine inanellato, dalla fronte umilmente superba, attorno alla quale ride tutta la foresta, sono tra gli episodii più notevoli del poema, che fiorisce tutto di reminiscenze classiche, attinte a Claudiano, a Vergilio, a Orazio, a Ovidio, al Petrarca, temperate e fuse insieme con arte squisita. Facili, armoniose, pittoresche le strofe e modellate tutte su quella, che è così nota e così popolare: Zefiro già, di bei fioretti adorno, Avea de’ monti tolto ogni pruina, Avea fatto al suo nido già ritorno La stanca rondinella peregrina: Risonava la selva intorno intorno Soavemente all’ ora mattutina: E la ingegnosa pecchia al primo albore Gira predando or uno or altro fiore. Del Poliziano così scrive il Carducci «Scrittore greco e latino a quattordici anni, traduttore d’Omero a quindici, padre della filologia, revisore del testo delle Pandette, poeta di mitologia viva e di classicismo elegante e fervido nelle Stanze e nell’Orfeo, e insieme improvvisator fiorentino, egli, accoppiando la dottrina alla popolarità, la riflessione alla spontaneità, è il tipo, se non più grande, certo più universale e più vero del miglior quattrocento. E, non ostante alcune macchie della sua vita e alcune brutture de’ suoi carmi latini, anche il più gentile. Il Pontano è troppo materialmente sensuale e stanca: il Poliziano ama con sentimento di greco la natura bella e serena, e ne rispecchia la imagine nella quiete dell’idillio, che egli insegnò o lasciò in retaggio, con l’armonia dell'ottava, all’ Ariosto e al Tasso».

Cfr. le Stanze, l’Orfeo e le Rime di A. P., con un'ampia introduzione, a cura del Carducci, Firenze, Barbera, 1863; l‘ediz. popolare delle Opere volgari del P. a cura del Casini, Firenze, Sansoni, 1885; l’ediz. delle Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite e ined. di A. P. a cura del Del Lungo, Firenze, Barbera, 1867; Del Lungo, Uno scolare dello Studio fiorentino: L’ Orfeo nella Nuova Antol., 1869 e 1881; lo stesso, La patria e gli antenati di A. P. nell’Arch. stor. ital., XI, 9 e sg. e nel volume Florentia, ediz. Barbera, 1897; Mazzoni, Il Poliziano e l’ Umanesimo, nelle conferenze sulla Vita ital. nel rinascim. cit., Milano, Treves, i896, 3‘ edizione.

Tratto da: Prof. Vittorio Turri del R. Liceo T. Tasso di Roma. Dizionario Storico Manuale della Letteratura Italiana (1000-1900) Compilato ad uso delle Persone colte e delle Scuole. 4^ Edizione - 4° Migliaio con un’Appendice bibliografica. Ditta G. B. Paravia e Comp. (Figli di I. Vigliardi-Paravia) Torino-Roma-Milano-Firenze-Napoli, pagina 285.

 
 
 
 
 

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