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OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

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I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

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I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

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Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

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XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

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Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

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Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

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Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

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Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
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Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

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Messaggi del 05/09/2015

Sur repiano de le scale

Post n°1984 pubblicato il 05 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

I.

Sur repiano (1) de le scale

Voi propio, brutta strega, sete stata;
Voi propio, già, ch'avete messo male
Tra la mi' fija e 'r fijo de Nunziata
Ch'aveva da sposà pe' carnevale.

Sì, sete stata voi che set'annata
A dì a lui che mi fija (2) ciavéva un tale,
E che insinénta (3) l'avete trovata
Co' lui 'na sera a sede pe' le scale.

Già, nun è vero gnente... ma si puro? (4)
Che ciavéte da dì si (5) stanno a sede?
Che ve ne preme si stanno a lo scuro?

Che ve ne prem'a voi, sora cazzaccia,
De quer che famo (6) noi? Ma già se (7) vede
Quer che ve fa parlà: tutt'invidiaccia!

Note: 1. Ripiano, pianerottolo. - 2. Mia figlia. - 3. Insino, perfino. - 4. Ma se pure fosse vero? - 5. Se. - 6. Facciamo. - 7. Si.

Luigi Ferretti
Centoventi sonetti in dialetto romanesco, Firenze, G. Barbèra, Editore, 1879, pag. 49

 
 
 

Psichiatria

Post n°1983 pubblicato il 05 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

Il test della vasca da bagno.

Durante una visita ad un reparto psichiatrico, un visitatore domandò al capo sala come facessero a stabilire se un paziente dovesse essere ricoverato.

"Vede", rispose il capo sala, "riempiamo una vasca da bagno e quindi forniamo al paziente un cucchiaino da caffé, una tazza da tè ed un secchio e gli chiediamo di svuotarla ..."

"Ahhh capisco ..." disse il visitatore. "Una persona normale userebbe il secchio perchè è più grande ..."

"No", intervenne il Direttore, "Una persona normale toglierebbe il tappo! Preferisce un letto vicino alla finestra?"

 
 
 

Salomone Fiorentino

DI CORILLA OLIMPICA ALL’AUTORE
IN OCCASIONE D’AVER PARLATO SECO LA PRIMA VOLTA

Fu propizia la sorte al desir mio,
Che pur mi diè di rimirarti alfine,
E ne’ tuoi carmi ravvisar che un Dio
Grazie t’ ispira ignote e pellegrine.

Dotto è il tuo stile, e limpido qual rio
Che fa specchio alle rose porporine,
Qualor sul fresco margine natio
Aprono il seno all’ aure mattutine.

Oh qual dolce sorpresa all’alma mia
Il rimirarti in volto il cuor sincero,
Pien d'onestade e affabil cortesia!

Or se attonita in te fisso il pensiero;
Che fora mai, se per la stessa via
Meco venissi a rintracciare il vero?

Corilla Olimpica (Maria Maddalena Morelli Fernandez)
Tratto da: Poesie di Salomone Fiorentino, Nuova edizione con aggiunte, Tomo I, Firenze Presso Leonardo Ciardetti, 1823, pag. 16



A CORILLA OLIMPICA
L’ AUTORE IN RISPOSTA ALL'ANTECEDENTE SONETTO

Arcane, impenetrabili, profonde
Son le vie di chi die’ l'essere al niente,
E a sua giustizia, a sua bontà risponde
Quanto oprò, quanto vuol, quanto acconsente.

Ei di tutto il creato è vita e mente;
Il muove; e il come e lo perchè nasconde:
Or che fia l’ avvenir, se anche il presente
Ogni terreno immaginar confonde?

Donna, il cui nome illustre altisonante
Fece echeggiar la Dea dai vanni audaci
Fin dall’Indiche spiagge al mar d'Atlante;

Segui tra i carmi pur gli estri vivaci:
Ma il vel che cela tante sorti e tante
Vedi che in fronte ha scritto: Adora e taci.

Salomone Fiorentino
Tratto da: Poesie di Salomone Fiorentino, Nuova edizione con aggiunte, Tomo I, Firenze Presso Leonardo Ciardetti, 1823, pag. 17

 
 
 

Galileo Galilei, 2 sonetti

Post n°1981 pubblicato il 05 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

L'enimma, o sonetto enigmatico

Ad Antonio Malatesti

Mostro son'io più strano e più diforme
Che l'Arpía, la Sirena o la Chimera;
Nè in terra, in aria, in acqua è alcuna fiera,
Ch'abbia di membra così varie forme;

Parte a parte non ho che sia conforme,
Più che s'una sia bianca e l'altra nera;
Spesso di cacciator dietro ho una schiera,
Che de' miei piè van rintracciando l'orme.

Nelle tenebre oscure è il mio soggiorno,
Che se dall'ombre al chiaro lume passo,
Tosto l'alma da me sen fugge, come

Sen fugge il sogno all'apparir del giorno,
E le mie membra disunite lasso,
E l'esser perdo con la vita, e il nome.

Galileo Galilei



Or che tuffato il sol nell'onde ispane

Or che tuffato il sol nell'onde ispane
Ha i fiammeggianti suoi biondi capelli,
Per via Mozza, raccolte in be'drappelli,
Sbuca gran moltitudin di puttane.

Chiuse son già tutte l'arti di lane,
E setaiuoli calon gli sportelli,
A stuol da'campanil fuggon gli uccelli
Storditi dal rumor delle campane.

E al ponte tutta la cittadinanza
S'aduna, ove mezz'ora si sollazza,
Chè questa è di Firenze antica usanza;

E l'ora si avvicina della mazza,
Però ti lascio : a Dio, dolce speranza,
Chè'mi conviene andare insino in piazza.

Galileo Galilei
(Cod. Pai. v, 6).

 
 
 

Galileo Galilei

Galileo Galilei
Sommo in Lettere in Scienze
Italico Monumento perenne
di Sapienza, Gloria, Sventura.

V' hanno dei nomi nella storia d' Italia i quali non possono essere rammentati senza sentirsi compresi da un fremito di nobile orgoglio, senza provare un sentimento di angoscia profonda nell' evocarli dal sepolcro, ove riposano grandi quanto la eternità che li accolse. Nel novero di questi è un primo tra i primi quel Grande che vide
«Sotto l' etereo padiglion rotarsi
Più mondi, e il sole irradiarli immoto,
Onde all' Anglo, che tanta ala vi stese.
Sgombrò primo le vie del firmamento.»
E noi non possiamo scrivere il nome di Galileo senza lamentare che la mediocrità del nostro sapere sia indegna ministra a celebrare cotanto Italiano. Ma buon per noi che parlando de' più famosi, basta il memorare taluni fatti, perchè nella mente dell' universale si appresenti e si svolga intera la tela della splendida vita loro. E noi parliamo di tale che non appartiene alla gloria d' Italia, ma sì veramente alla storia della possanza dell' umano intelletto. Galileo Galilei nacque in Pisa il 15 febbraio del 1564 da Vincenzo nobile fiorentino e da Giulia Aramannato da Pescia. Si direbbe che Iddio veggendo spegnersi con Michelangelo una delle più nobili espressioni della propria immagine, la volesse ridonar rediviva alla terra concedendole Galileo Galilei. Destinato dapprima dal padre agli studli medici, li percorreva con onore nella Pisana Università, ma sentendosi tratto alle matematiche, ed alla filosofia, e datosi esclusivamente allo studio di queste, lasciò il giovane intravedere quello sguardo indagatore, il quale doveva schiudere al mondo nuova luce di verità, e penetrare oltre le sfere i segreti del cielo. Eletto professore nell' Università di Pisa correndo l' anno 1689 lesse principii di nuova filosofia in onta delle molte ingiurie che dai pedanti troppo seguaci di Aristotile e dai peripatetici gli venivano fatte. Ma quel gigante mal sofferendo l' assordante ronzio di que' scolastici, volenteroso accettò la cattedra che il Senato di Venezia con assidue istanze offerivagli nell' Università di Padova. Nell' estimazione universa, nelle onorificenze dei Veneti reggitori, e più ancora nella tranquillità della città d' Antenore, ben presto il magno Pisano filosofo spiegò ardito le vele nel vasto pelago della scienza. Il telescopio che valse ad aprirgli le vie del firmamento, il termometro, la bilancietta idrostatica furono le prime scoperte, perchè quantunque la fabbricazione di quegli strumenti fosse stata in parte tentata in Olanda, non avevano essi giammai toccato quella cima di perfezione a cui solamente sotto le mani del celeberrimo nostro Italiano pervennero.
Cedendo alle vive sollecitudini del granduca di Toscana Ferdinando II ritornò Galileo ricco di novella sapienza a risalire in Pisa l'anno 1610 l'antica sua cattedra. Ma le sue teorie del movimento della terra e dell' immobilità del sole suscitavano ben presto contro lui quella guerra fratesca che tanto turbar doveva la sua vita. Tale guerra dell'ignoranza contro il sapiente filosofo allora ostinatamente incompreso, nata e ristretta da prima in cento scritti distillati al filtro velenoso dei conventi e delle sale cardinalizie, si volgeva ben presto a più seria minaccia. - Chiamato Galileo a Roma affinchè abiurasse le eretiche dottrine intorno al sistema del Copernio (che così correva lo stile della Cancelleria Vaticana), vi si rendeva nel 1630, come in una sua lettera lamenta Fra Paolo Sarpi. Siedeva allora sulla cattedra dì San Pietro il pontefice Urbano VIII, il quale, sebbene fosse amico del Galileo, divenne facile strumento delle tenebrose persecuzioni dei Frati inquisitori di San Domenico. Il nuovo sistema dell' astronomo Pisano dallo insano sentenziar di que' Frati fu notato d' eresia, perchè contrario, dicevano, al dettato delle sacre scritture, e l' autore condannato a prigionia ove all' abiura delle sacrileghe dottrine non si arrendesse.
Non piegandosi la convinzione del filosofo, venivagli dato n reclusorio il giardino della Trinità de' Monti; poscia, per favore del papa, il palazzo del Piccolomini vescovo di Siena, e finalmente, per intercessione del Duca, la Villa di Arcetri. - Così il Santo Uffizio tentava render muta quella voce, rinserrandola nella cerchia tormentosa de' suoi indefiniti terrori. Come già tra il chiuso di cittadine mura, così tra le solitudini di que' ridenti colli, Egli continuava con medilati studii ad aprire alla Scienza pratica ed alla astratta Filosofia novelle strade. Dettando nuovi principii di Meccanica, di Fisica, di Astronomia, definì con giustezza il moto equabile, ardì affermare contro Aristotile l' eguale velocità della caduta de' corpi nel vuoto non regolata da peso, diede la famosa legge  dell'accelerazione de' gravi e della discesa di essi nei piani inclinati, osservò le oscillazioni sempre uguali del pendolo applicandole alla misura delle altezze, all'orologio ed alla medicina per giudicare del polso. La via lattea e la nebulosa insegnò altro non essere che gruppi ed ammassi di stelle sino allora non conosciute, conobbe i satelliti di Giove che chiamò stelle Medicee, e calcolò i periodi de' loro moti e ne distese le tavole. Né il Sole restò a' suoi sguardi immacolato, che prima ancora del Gesuita Scheiner notò le prominenze opache del nucleo infuocato. Ragionò delle meteore, dell'aurora boreale, immaginò le cause dei venti e del flusso e riflusso del mare: insomma volando percorse colla perspicacia dell' occhio scrutatore e dell' intelletto suo maraviglioso tutto il creato. Il perchè parve quasi che Natura ingelosita di quell' audacissimo sguardo lo circondasse con letale velo di cecità, la quale solamente gli fu stenebrata quando, l'ottavo dì del 1643, piacque a Dio di chiamarlo a sé per mostrargli aperto il lume di Eternità. Firenze, dove, morì, e l'Italia e l'Universo dove immensa era già sparsa la fama del Galileo, mandaron forti rammarichi e per gl'Inquisitoriali tormenti e per la morte di Galileo Galilei, tolto alla filosofia naturale e speculativa, e tolto alle lettere nelle quali die prova di quell'intelletto che cercava e rinveniva nell' Universo armonico.
Precipua fede fanno di codesta verità que' Sonetti, quel Capitolo in biasimo della toga, e quei versi suoi tutti, dove la lucentezza di stile e l' ordine dell' idee sì mirabilmente risplendono.
Poche sono le nazioni, che ponno menar vanto di pari nomi, che si fanno per altezza di glorie quasi Faro a tutte genti per tutti i secoli. E veramente a santo diritto può Italia levar altamente il capo superba, quando nel famoso Sacrario di Santa Croce in Firenze, mostra d' accanto alle tombe di Machiavelli e di Michelangelo, quel Sepolcro dove le ceneri riposano di questo Divino,
«che primo infranse
L' idolo antico, e con periglio trasse
Alla nativa libertà la mente.»


SONETTO I.

Paragona la crudeltà della donna a quella di Nerone.

Mentre spiegava al secolo vetusto
Segni del furor suo crudeli ed empj,
Tra gl' incendi, e le stragi, e i duri scempj,
Seco dicea l' Imperadore ingiusto:

Il Regno mio d' alte ruine onusto,
Le gran moli destrutte, e gli arsi Tempj
Portin la mia grandezza in fieri esempj
Dall' agghiacciato Polo al lido adusto.

Tal quest' altera, che sua mente cruda
Cinge d' impenetrabile diaspro,
E nel mio pianto accresce sua durezza,

Armata di furor, di pietà ignuda,
Spesso mi dice in suon crudele ed aspro :
Splenda nel fuoco tuo la mia bellezza.

SONETTO II.

Mentre ridea nel tremulo e vivace
Lume degli occhi leggiadretti Amore,
Picciola in noi movea dallo splendore
Fiamma, qual uscir suol di lenta face.

Or che il pianto l' ingombra, di verace
Foco sent' io venir l' incendio al core :
di strania virtude alto valore,
Dalle lagrime trar fiamma vorace!

Tal arde il Sol mentre i possenti rai
Frange per entro una fredda acqua pura.
Che tra l' esca risplenda, e il chiaro lume.

Oh cagion prima de' miei dolci guai,
Luci, cui rimirar fu mia ventura.
Questo è vostro, e del Sol proprio costume.

SONETTO III.

Scorgi i tormenti miei, se gli occhi volti,
Nella ruvida fronte a i sassi impressi,
Leggi il tuo nome, e miei martiri scolti
Nella scorza de' faggi e de' cipressi.

Mostran l' aure tremanti i sospir tolti
Dall' infiammato sen; gli augelli stessi
Narran pure il mio mal, se tu gli ascolti;
Eco il conferma, e tu noi credi, Alessi?

Gusta quell'acque già si dolci e chiare,
Se nuovo testimonio al mio mal chiedi,
Com' or son fatte dal mio pianto amare.

E se dubiti ancor, mira in lor fiso,
E quel che neghi al gusto, agli occhi credi,
Leggendo il mio dolor nel tuo bel viso.

Galileo Galilei
Tratto da:
I Poeti Italiani Selections from the Italian Poets forming an historical view of the development of Italian Poetry from the earliest times to the present. With Biographical notices by Charles Arrivabene Deputy Professor of the Italian Language and Literature in the London University College. London: P. Rolandi - Dulau & C, 1855, pag. 249 e seguenti

 
 
 

De claris mulieribus 26

CAPITOLO XXVI.
Procri, moglie di Cefalo.

Procri di Pandione, re d’Atene, moglie di Cefalo, figliuolo del re Ealo, come fu odiosa alle oneste donne per avarizia, così è piaciuta agli uomini, poichè per lei è manifesto il vizio dell’altre donne. Amandosi quella col suo marito, insieme vivendo di pietoso e nuovo amore, avvenne per isciagura di quegli, che di Cefalo s’innamorò una donna chiamata Aurora, la quale era di singolare bellezza; lo quale lungamente quella donna tentò indarno, essendo quello sommamente preso dall’amore di Procri, sua moglie, di che quella sdegnata disse: Cefalo, tu ti pentirai d’avere amato sì caldamente Procri tua, e troverai, se se ne sarà fatto pruova, che ella amerà più i danari che te. La qual cosa udendo il giovane, cupido di tentarla, mostrò di volere andare in un lungo viaggio, e partissi; e piegando la via, tornò nella patria; e per messi tentava la fermezza della moglie con doni, i quali comechè fussero grandi, nel primo assalto non la puoterono muovere. Ma perseverando, ed aggiugnendo gioje, piegò si l’animo di quella la quale già vacillava, che promise dare albergo allo desiderato piacere dello amante se gli desse i promessi doni. Allora Cefalo ismarrito per lo dolore si manifestò, poichè conobbe per lo inganno lo debole amore di Procri. La quale vergognata, e percossa dalla coscienza del fallo, subito si fuggì per le selve, e diessi a vivere in solitudine. Il giovane impziente all’amore di quella, di propria volontà perdonando a quella, coi prieghi la ritornò a sua grazia, repugnando quella; ma niente montò, perchè la forza del perdonare non è sufficiente contro ai morsi della coscienza. Procri si moveva in diverse mutazioni d’animo, e toccata d’amore pensò che suo marito contro lei, quello, per lusinghe dell’altr’amante facesse, la qualcosa quella aveva mercatato con lui con monete; cominciò nascosamente seguire quella, cacciando egli per le montagne, per gli gioghi e per le nascose valli. La qual cosa durando, avvenne, che stando Procri nascosamente in un’erbosa valle, tra le canne del padule, movendosi, lo marito, credendo che fusse una fiera, ferilla con una saetta. Non so che io dica piuttosto, o se l’oro è la più possente cosa che sia in terra, o se è più stolta cosa cercare quello che l’uomo non vuole trovare. Dalle quali due cose approvando ciascuna la stolta donna, trovò a sè perpetuale infamia, e la morte, la quale non cercava mai. Acciocchè io non taccia lo smemorato amore dell’oro, per lo quale si muovono quasi tutti gli stolti, domando quegli che sono presi di sì ostinata gelosia; mi dichino che utilità o che onore egli sentono, che gloria o che onore acquistano? A mio parere, questa è dispregiata infermità della mente, la quale ha principio dalla pusillanimità di quello che la soffre, poichè noi non la vediamo se non in quegli, i quali si estimano di sì piccola virtù, che lievemente concederebbero che ciascuno gli fusse da mettere innanzi.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Giovanni Guidiccioni 3

XXI
Di M. Giovanni Guidiccione

22

Anima eletta, il cui leggiadro velo
Diè lume e forza al mio debile ingegno,
Mentre a gli strali di pensier fu segno
Che così casti ancor per tema celo,

Scendi pietosa a consolar del cielo
Le mie notti dolenti, ch’è ben degno,
Poiché sì amara libertà disdegno
E ’l cor già sente de l’eterno gielo.

Solei, pur viva, in sogno col bel volto
E con la voce angelica gradita
Partir da me le più noiose cure.

Deh perché, poi che morte ha ’l nodo sciolto
Che strinse lo mio cor con la tua vita,
Non fai tu chiare le mie notti oscure?


23

Come da dense nubi esce talora
Lucido lampo e via ratto sparisce,
Così l’alma gentil, per cui languisce
Amor, s’uscìo del suo bel corpo fora.

Seguilla il mio pensiero, e la vede ora
Che con l’eterno suo Fattor s’unisce,
E mia casta intenzion pregia e gradisce,
E co’ suoi detti la mia fede onora.

Io rimasi qua giù ministro fido
A por ne l’urna il suo cenere santo
E far de gli almi onor publico grido.

Or le mie parti con pietà fornite,
Sazio del viver mio, non già del pianto,
Aspetto ch’ella a sé mi chiami e ’nvite.


24

Poi che qui fusti la mia luce prima
A dimostrarmi aperto e nudo il vero,
E festi ardente il tepido pensiero
Ch’un’ombra pur di ben non vide imprima,

Or che Dio in cerchio de’ beati stima
E premia i merti del tuo cor sincero,
Apri a l’alma i secreti di quel vero
Regno, e l’aita ivi a salire in cima;

Che salirà, sol che tu dica a lui:
"Signor, quest’alma a i desir casti intenta
Fu per mio studio giù nel mondo cieco;

Io de’ suoi bei pensier ministra fui,
Ed io ti prego umil che le consenta
Ch’eterno goda di tua vista meco".


25

Deh vieni omai, ben nata, a darmi luce
De le cose del ciel ch’aperte vedi,
Or che sì presso a Dio sì cara siedi
E sì vagheggi la sua eterna luce.

Dimmi in che guisa quel supremo Duce
Le corone dispensi e le mercedi,
Conta i tuoi gaudi ed al mio duol concedi
Requie ed oblio, poi ch’a morir m’induce:

Acciò che l’alma a cui già vita desti
Senta del vero bene e si consoli,
Afflitta, udendo il tuo dir dolce e pio.

Tutta in se stessa poi, spezzando questi
Ritegni umani, a te sì lievi e voli,
Finita la sua guardia e ’l pianto mio.


26

A quel che fe’ nel cor l’alta ferita,
Soavissimo stral, chieggio perdono
Se de gli occhi ond’uscìo più non ragiono,
E se d’altra beltà l’alma è invaghita.

Poi che lor luce e mia speme infinita
Morte empia spense, e ’l suo più caro dono
Chi ce ’l diè si ritolse, in abbandono
Diedi al dolor la mia angosciosa vita,

Le cui spine pungean l’anima tanto
Che non scerneva il suo sereno stato
E chiudeva a se stessa il camin santo.

Die’ loco a nuova fiamma, onde lentato
Il duol acerbo e scosso il mortal manto
Vengo ove sei talor lieto e beato.


27

Saglio con l’ali de’ pensier ardenti,
Che ’l nuovo foco mio forma ed accende,
Là ’ve ’l cener del tuo, ch’altrove splende,
Anzi il vivo dolor gli avea già spenti.

Saglio a’ cerchi del ciel puri e lucenti,
Ove i suoi premi il tuo bel viver prende;
Quivi ti veggio e quivi i desir rende
La tua divinità queti e contenti.

Ben dèi tu a lei, che spesso a te m’envia
Scevro dal duolo e da le cure vili,
Render grazie dal ciel, non pur salute;

E dirle che quaggiù guida mi sia,
Mentre che cerchi tu coi preghi umili
Impetrar dal tuo Sir la mia salute.


28

Com’esce fuor sua dolce umil favella
Tra le rose vermiglie e tra i sospiri,
Che fan, come aura suol che lieve spiri,
La fiamma del mio cor più viva e bella,

Amor ne’ miei pensier così favella:
"Accendi, fedel mio, tutti i desiri
Nelle sue ardenti note, e co’ martiri
Cangia la cara libertà novella.

Non odi tu più che d’umana mente
I detti che pietà lieta raccoglie
Per vestirne virtù che nuda giace?

Non vedi tu il suo cor che non consente
Al tuo morir, ma ne’ sospir che scioglie
Viene a temprar l’ardor che ti disface?".


29

O voi, che sotto l’amorose insegne
Combattendo vincete i pensier bassi,
Mirate questa mia, nanzi a cui fassi
Natura intenta a l’opre eccelse e degne;

Mirate come Amor inspiri e regne
In sembianza del Re che ’n cielo stassi,
Come recrei con un sol guardo i lassi
E ’l camin destro di salute insegne.
 
Sì direte poi meco, aprendo l’ali
Verso le stelle: "O felice ora, in cui
Nascemmo per veder cosa sì bella!".

Ma perché non ars’io, perché non fui
Pria neve a sì bel sol, segno agli strali?
Beato è chi la mira o le favella!


30

La bella e pura luce che ’n voi splende,
Quasi imagin di Dio, nel sen mi desta
Fermo pensier di sprezzar ciò che ’n questa
Vita più piace a chi men vede e ’ntende.

E sì soavemente alluma e ’ncende
L’alma, cui più non è cura molesta,
Ch’ella corre al bel lume ardita e presta
Senza cui il viver suo teme e riprende.

Né mi sovien di quel beato punto
Ch’ondeggiar vidi i bei crin d’oro al sole
E raddoppiar di nuova luce il giorno,

Ch’io non lodi lo stral ch’al cor m’è giunto
E ch’io non preghi Amor che, come suole,
Non gli incresca di far meco soggiorno.


31

Io giuro, Amor, per la tua face eterna
E per le chiome onde gli strali indori,
Ch’a pruova ho visto le viole e i fiori
Nascer sotto il bel piè quando più verna;

Ho visto il riso che i mortali eterna
Trar delle man d’avara morte i cori,
E colmar d’un piacer che mostra fuori
La purissima lor dolcezza interna;

Visto ho faville uscir de’ duo bei lumi
Che poggiando su al ciel si fanno stelle
Per infonderne poi senno e valore.

Arno, puoi ben portar tra gli altri fiumi
Superbo il corno, e le tue ninfe belle
Riverenti venir a farle onore.


32

Dicemi il cor, s’avien che dal felice
Albergo del bel petto a me ritorni:
"O graditi e per me tranquilli giorni,
Ove lungi da te viver mi lice:

Godo de’ suoi pensier, de la beatrice
Vista degli occhi e de’ bei crini adorni.
E se non ch’ella: -Omai che più soggiorni?
Vattene in pace al tuo signor, mi dice,

Che langue e duolsi di sua vita in forse -,
Io trarrei nel suo dolce paradiso
Beati i dì, non che sereni e lieti".

"Dille", rispond’io alor, "se mi soccorse
Col proprio cor quand’io rimasi anciso,
Ch’è ben ragion che senza te m’acqueti".


33

Visibilmente ne’ begli occhi veggio,
Ne gli occhi bei dov’Amor vive e regna
Sì che Cipri gentil dispreggia e sdegna,
Starsi il mio cor come in suo proprio seggio.

Ivi del bel s’appaga, e ben m’aveggio
Che tornar meco ad abitar non degna,
Ma in disparte da lui viver m’insegna,
E quel ch’oprar per lo mio scampo deggio.

Io, che gradisco i suoi lunghi riposi,
E spero i miei, li prego indugio e vivo,
Né so dir come, in securtà d’Amore.

Sollo io; ma in seno ho i miei desir nascosi
E le dolci speranze e ’l piacer vivo:
Felice è ben chi nasce a tanto onore!

Giovanni Guidiccioni
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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