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Esodo di massa

Post n°2311 pubblicato il 19 Agosto 2017 da namy0000
 

1947-1948. Esodo di massa dei palestinesi durante la creazione di Israele. Alcuni affogarono, altri furono uccisi, altri ancora trovarono rifugio in luoghi che non scoprirò mai, dice Nathalie Handal, palestinese (Internazionale n. 1215 del 28 luglio 2017). ‹‹Appartengo a una famiglia profondamente radicata a Betlemme, con legami in tutti i sette harat (quartieri) della città vecchia… La famiglia di mia madre viene da Harat al Tarajmeh, il quartiere dei traduttori. Si dice che sia stato fondato nel dodicesimo secolo, prevalentemente da italiani che avevano sposato donne di Betlemme, e lavoravano come interpreti per il clero francescano e i pellegrini. Come risultato dell’occupazione israeliana, nella città vecchia la maggioranza di queste famiglie non esiste più. Alla fine dell’ottocento, un ramo della famiglia di mia madre si trasferì da Betlemme a Jaffa, e si dedicò alla coltivazione e all’esportazione di arance. Nel 1948 quasi tutti i miei parenti che si trovavano a Jaffa fuggirono via mare in Libano e in Egitto. Alcuni continuarono alla volta di Siria, Giordania, Italia, Francia e altri paesi. Sono cresciuta con parenti disseminati in tutto il mondo nella shatat, la diaspora, con frammenti delle loro storie e con la presenza incalzante di quanti non riuscivamo a rintracciare. Io bruciavo dal desiderio di conoscere i dettagli delle rotte dell’esilio: cosa pensavano mentre erano sulle barche, cosa portavano con sé, cosa facevano quando arrivavano a destinazione, dove vivevano, che ne era stato di loro?››. (…) ‹‹Sa››, aggiunse, ‹‹quando le famiglie si trasferivano da una città all’altra il loro cognome cambiava in base alla città da cui venivano, Haifawi da Haifa, Nabulsi da Nablus. Era difficile sapere quale fosse il cognome di prima››. È così che da sempre mi arrivano le informazioni: pezzi che devono essere riassemblati. La ricerca coinvolge persone che hanno paura di parlare perché sono state torturate o che non sono in grado di parlare perché le loro ferite sono troppo atroci. (…) Mentre attraversavamo Ajami, cercai di immaginare come doveva essere stata la maestosa città multiculturale di Jaffa. Fare una passeggiata lungo gli ampi viali alla volta del sontuoso cinema Alhambra oppure al porto, percorrendo i vicoli tortuosi della città vecchia tra case con una magnifica vista sul mare, sedersi negli ampi terrazzi delle ville mediterranee con giardini lussureggianti o nelle sale da concerto e nei caffè. I miei pensieri vagarono fino ai primi anni cinquanta, quando Jaffa, che era stata la più grande città della Palestina, diventò la municipalità di Tel Aviv-Yafo, e i palestinesi diventarono una minoranza costretta a vivere in quartieri trasandati, pattugliati e circondati dal filo spinato. Ci fermammo in una farmacia di un verde iconico, il cui proprietario conosceva le storie di tutte le famiglie di Jaffa. E un po’ più avanti, sulla destra, c’era via Dar Talamas, che oggi si chiama Shaarei Nikanor. Mi fermai davanti al numero 9, la casa del conte Talamas (mio zio) che era stata trasformata in otto appartamenti per israeliani. Guardai tutti i nomi accanto ai citofoni e mi chiesi cosa avevano fatto questi inquilini o quelli prima di loro con tutti gli averi della mia famiglia: mobili, quadri, album, lettere. Come riuscivano a dormire nelle case di chi era stato costretto ad andare in esilio ad Alessandria, Beirut, Trieste, Venezia, Marsiglia, Londra, Parigi, Santiago?

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