Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Ottobre 2017

Lo scarabocchio di Dio

Post n°2398 pubblicato il 30 Ottobre 2017 da namy0000
 

Il "suo" ’68, di don Oreste Benzi, fu incendiario nei fatti.

«Quanti giovani vecchi ho visto nella mia vita», diceva dell’altro ’68, quello delle ideologie senza fatti, «incendiari al liceo, ma poi al primo salario, entrati nelle stanze del comando, tutti pompieri. Il loro dorso diventava flessibile, dove si poteva fare carriera. Perché? Perché la loro rivoluzione era contro, non per».

 

Il dorso don Oreste non lo ha mai piegato davanti ai potenti, soltanto per chinarsi a raccogliere il povero, il barbone, la prostituta, il drogato. Contro tutte le guerre, ha combattuto accanto ai primi obiettori di coscienza per la nonviolenza e con uguale spirito al fianco di migliaia di bambini destinati all’aborto: La t’è nde bin, «ti è andata bene!» diceva quando ne incontrava uno in braccio alla madre. «L’uomo non è il suo errore», ha rivelato ai carcerati, convincendoli che ricominciare si può sempre, e «nessuna donna nasce prostituta», ha detto liberandone settemila. E poi anziani soli, malati, zingari, stranieri, sbandati, drogati, disperati... 

Le intuizioni più geniali di don Oreste Benzi furono la famiglia come terapia contro ogni sconfitta, e il metodo della condivisione diretta: «Date una famiglia a chi non ce l’ha» e «Non c’è chi salva o chi è salvato, ma ci si salva insieme», disse ai suoi, e così centinaia di giovani sposi accanto ai propri figli oggi accolgono bambini disabili, anziani abbandonati, quelli che nessuno vuole. Il senso è che non basta mandare aiuti, occorre «mettere la propria spalla sotto la croce altrui» e camminare insieme, vivere con i "piccoli" 24 ore al giorno, portarli a casa, renderli famiglia. Sembra impossibile, è vero, ma loro, a migliaia, lo rendono possibile tutti i giorni.

La notte del 25 settembre del 2007 don Oreste uscì dalla sua casa e bussò alla Capanna di Betlemme, la sua struttura per senzatetto: «Eccomi, sono un barbone». Vivrà con loro fino alla notte tra i Santi e i Morti, quando all’improvviso, dopo una festosa cena al ristorante dove misteriosamente aveva voluto invitare gli amici più cari (fatto mai avvenuto prima), chiuse gli occhi. «Domani siamo in marcia», rivelò all’amico Oscar Baffoni durante quella cena, con un mezzo sorriso, una battuta che avrebbe compreso ore dopo.

«Don Oreste non è ancora stato proclamato santo – ha detto avviando la causa il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi – ma è vissuto da santo pur senza mai ritenersi tale. Al cardinale Caffarra che gli aveva espresso il mio stesso pensiero, don Oreste rispose: no, eminenza, io sono solo uno scarabocchio di Dio». Della "Papa Giovanni XXIII" diceva «è come il calabrone: un insetto così tozzo e con le ali così piccole che per gli scienziati non avrebbe mai potuto volare. Eppure vola». E così realizza l’irrealizzabile. «Siamo una comunità scalcagnata ma con un cuore che pulsa», amava ripetere, e il cuore ha continuato a pulsare nelle giornate di migliaia di volontari in 40 Paesi del mondo.

"Andate giù tra gli ultimi. E poi ancora più giù..."

 

«Quando vi chiedono dov’è il vostro domicilio, voi rispondete: il nostro domicilio è tra i più bisognosi... e tra i più bisognosi siate tra i più bisognosi ancora, là in fondo», raccomandava ai suoi.

La sua causa di beatificazione, iniziata tre anni fa, è già giunta alla chiusura del processo diocesano. (Lucia Bellaspiga, Avvenire, sabato 28 ottobre 2017). 

 
 
 

Non c'è motivo

Post n°2397 pubblicato il 27 Ottobre 2017 da namy0000
 

“Non c’è motivo per cui la vera laicità dovrebbe temere il fatto religioso. In fondo siamo tutti laici, cioè uomini capaci di intendere e di volere senza il bisogno di fare riferimento alla fede in Dio. Non tutti i laici sono credenti, tutti i credenti, però, sono e restano laici, almeno che non appartengono al clero. Il rispetto per le diverse posizioni sta alla base di ogni credenza laica o religiosa che sia. Non solo, ma il vero laico senza religione così come il vero laico religioso faranno attenzione entrambi a non offendere, calpestare, umiliare le sensibilità altrui…  I cristiani non hanno paura di confrontarsi con la ragione, al contrario ritengono che rappresenti il terreno comune sul quale incontrarsi, rispettarsi, amarsi. Credere in Dio è atto di ragione prima e di fede dopo… Quando i bambini che vanno a scuola la mattina, chiederanno chi è quel signore, (papa Giovanni Paolo II) e perché è presente nel loro villaggio, le mamme dovranno raccontare la storia di un bambino come loro, nato in Polonia alla fine della prima guerra mondiale e morto a Roma nei primi anni del terzo millennio. Un uomo che con la Francia, a prima vista, non dovrebbe avere in comune niente se non fosse diventato prete, poi vescovo, poi cardinale e infine papa della Chiesa cattolica. Quel monumento gli è stato edificato non per motivi strettamente religiosi, ma squisitamente umani. Quel papa, infatti, non si preoccupò solo della sua Chiesa ma dell’umanità intera, la sua storia non è separabile dalla croce che un tempo sovrastava il monumento. Papa Wojtyla senza quella croce non si capisce, non si spiega, non può essere compreso, non esiste. La mamma dirà al suo bambino che le prime parole del cardinale diventato papa furono: « Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo… Non abbiate paura». Il Papa invitava tutti, credenti e non credenti, a non temere di accostarsi all’uomo di Nazareth, perché la sua vita, i suoi discorsi, i suoi insegnamenti, le sue parabole hanno sempre avuto a cuore il vero bene dell’ essere umano in quanto singolo e dell’ intera umanità. Quel papa invitava ad abbattere le micidiali barriere tra ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne. Era un uomo bello, atletico, intelligente, colto, filosofo, poeta, ma col passare del tempo rimase inchiodato su una sedia a rotelle da una malattia che gli portò via anche la parola. Papa Giovanni Paolo II non se ne vergognò, non si nascose, non venne meno ai suoi impegni, ma si mostrò al mondo fragile, piegato su se stesso, biascicando le parole che un tempo rimbombavano come tuoni. Lo fece anche e soprattutto per gridare al mondo che i malati, i vecchi, gli esseri più fragili e indifesi vanno aiutati, curati, compresi; messi al centro della famiglia, della Chiesa, della società. Se nel redigere il progetto del monumento a papa Wojtyla, l’architetto non avesse previsto la croce sovrastante nessuno ci avrebbe fatto caso. Le mamme di Ploermel in Bretagna ai loro bambini avrebbero raccontato la storia del papa polacco senza difficoltà. Oggi che la croce deve essere abbattuta è difficile soffocare un moto di dolore e di imbarazzo. La nazione che fu la “primogenita della Chiesa” si vergogna forse di cose di cui dovrebbe vantarsi? Crede che quel legno incrociato la renda meno laica, più razionale, più capace di comprensione e di fratellanza? Eppure senza quella croce non esisterebbe san Giovanni Paolo II. E prima di lui i francesi Giovanna d’ Arco, Vincenzo de Paoli, Bernadette Soubirous, san Luigi re di Francia. I santi non sono mai solo uomini di fede, non appartengono solo alla Chiesa. Non dividono, uniscono. Quando si è trattato di amare e di servire non sono andati troppo per il sottile, non hanno badato alle differenze. Quando c’era da aiutare gli uomini, si sono piegati su di loro senza chiedersi se fossero laici o credenti, buoni o cattivi, giovani o vecchi. I santi non si lasciano incatenare da niente e da nessuno. Seguono un itineraio sconosciuto ai comuni mortali e tante volte a se stessi, in preda a una febbre che li obbliga ad amare gli uomini come il Signore che adorano chiede loro, cioè fino al martirio, cruento o incruento che sia. Quei santi senza l’Uomo della croce scompaiono come neve al sole. Se si vuole parlare di loro non si può non parlare di Lui, del Cristo crocifisso. E se si vuole raffigurarli in qualche modo, pur facendo attenzione, di certo da qualche parte spuntano i due pali sui quali fu tormentato e morì il crocifisso. “ Non abbiate paura” di quella croce. Essa ci obbliga ad amare, ci vieta di odiare. E l’ odio, lo sappiamo tutti, è il vero, spaventoso nemico della nostra bella umanità. (Maurizio Patriciello, Avvenire,  giovedì 26 ottobre 2017)

 
 
 

Scelta di vivere in campagna

Post n°2396 pubblicato il 27 Ottobre 2017 da namy0000
 

Un giovane 17enne che vuol fare il pastore è già di per sé una notizia ma che addirittura voglia continuare a fare anche dopo il furto delle poche pecore che aveva è un qualcosa che ha dell'eccezione. I fatti raccontano che Elia Taberlet, 17enne di Posada (Nu), lo scorso fine settembre ha visto il suo piccolo gregge sparire dall'ovile ad opera di ladri senza scrupoli: si trattava di pochi animali donati da parenti e amici che sostenevano la sua passione per il mondo della pastorizia.
Per Elia, che fin dall'età di 14 anni sognava la vita in campagna, il colpo è stato duro. Attraverso però il passaparola del mondo agro-pastorale sardo ben presto si mette in moto quella che è una delle tradizioni più nobili del mondo delle campagne isolane: “Sa paradura”, ovvero il dono di un animale a chi ha subito un danno per furto, calamità o moria, al fine di ricostituire il gregge scomparso. Così nei giorni scorsi, grazie anche attraverso l'opera di Gigi Sanna, del gruppo musicale Istentales, una ottantina di animali sono stati raccolti da tutta l'isola e consegnati ad un visibilmente commosso Elia, che stentava a credere a quanto vedeva. Anche attraverso i social network sono giunti attestati di solidarietà ma anche gesti concreti di chi ha donato del denaro per comprare una pecora o un agnello al giovane di Posada. “Per me – ha detto il ragazzo – quanto è accaduto è la testimonianza che la mia scelta di vivere in campagna era ed è l'unica possibile. La solidarietà tra i pastori è grande”. (
Roberto Comparetti, Avvenire, giovedì 26 ottobre 2017).

 
 
 

Guerra civile mondiale

Post n°2395 pubblicato il 26 Ottobre 2017 da namy0000
 

2017, TEMPI 26 ott. - La guerra civile mondiale

Crociate pro o contro i vaccini, separatismi, scontri sulla memoria, lotte tra poveri. Guardavamo in tv i conflitti degli altri. Non ci aspettavamo che il loro rumore l’avremo ascoltato dalle finestre.
«La tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato mondiale e, anzi, in una certa misura lo ha già realizzato». Ma lo Stato mondiale descritto con queste parole da Ernst Jünger è meno un soggetto politico inverato che un paradigma vettoriale, è l’approdo prefigurato e possibile d’una spinta potenziale che mentre inconsciamente tende all’ideale regolativo dell’ecumene universale – spazio animato da comunità libere dall’organizzazione – disintegra intanto le forme organizzate del vecchio mondo.  L’ipotesi che la guerra civile mondiale dentro cui l’epoca presente è immersa costituisca la dolorosa gestazione d’una metamorfosi delle categorie del politico tardo moderne conferirebbe almeno un senso finalistico, un telos, all’apparente caos che scuote ogni latitudine del mondo, ormai penetrando anche l’occidente europeo e americano scosso da fenomeni sussultori che hanno ridotto in macerie la narrazione unitaria che lo aveva tenuto in forma negli ultimi sessant’anni. Crociate scientiste o antivax, conflitti permanenti sulle memorie storiche, secessionismi che moltiplicandosi punteggiano l’Europa di focolai divisivi sono fenomeni che mostrandosi in aumento esponenziale dichiarano il vecchio Stato nazionale delegittimato dalle sue narrazioni autoritative. Il pluriverso valoriale, formula con cui il mainstream intellettuale s’è intrattenuto all’ombra di parole d’ordine come meticciato e contaminazione, diffondendo la neolingua volta a rieducare gli spiriti in ritardo rispetto al nuovo eone globalitario, rivela così finalmente il suo senso compiuto di anticamera della guerra civile permanente su scala planetaria.

Dalla Siria alla casa popolare
Sono guerre civili la siriana, l’ucraina, la libica così come quelle che squarciano con poche eccezioni il continente africano; guerre civili perché intranazionali ma soprattutto perché a essere coinvolti sono i civili, come vittime inermi e come combattenti attivi. Quali europei, eravamo abituati a osservare in tv le guerre civili degli altri – anche quando eravamo noi a indurle nella pretesa d’esportare democrazia. Deprecandole dal divano di casa non ci aspettavamo che il loro rumore l’avremo ascoltato dalle nostre finestre. Intanto sono le guerre di strada tra poveri per una casa popolare, domani saranno le guerre razziali e più diffusamente la guerra di tutti contro tutti.

Il caso spagnolo come i processi dissolutori territoriali determinati dalla spinta centrifuga della globalizzazione e da quella reattiva del neo-isolazionismo regionalistico sono spie rivelatrici di come sia prossima a inverarsi la grande intuizione di Carl Schmitt formulata in Teoria del partigiano. Il nuovo ordine mondiale che vi è prefigurato è appunto il tramonto degli stati sovrani e la fine del loro reciproco riconoscimento. Come conseguenza prima di questo processo, la guerra non è più né circoscritta né regolamentata dai vecchi codici territoriali; diventa guerra ideologica e guerra civile e dunque guerra totale.

La cancellazioni di confini e frontiere rilancia per paradosso i vecchi nazionalismi e ottiene l’obiettivo rovesciato del pacifico meticciato globale: genera la radicalizzazione della contrapposizione amico-nemico e ne estende il campo di applicazione ovunque. Si è nemici anche per essere pro o contro una vaccinazione, una squadra di calcio e si può dichiarare nemico del genere vivente un cuoco facendo irruzione nel suo ristorante al grido di “assassino” per aver brasato carne in televisione.

Nessun parametro razionale
Naturalmente si può essere contemporaneamente nemici su un fronte e amici sull’altro, perché il collasso della meta-narrazione unitaria riguarda anche l’unità della propria psiche. Un gigantesco collasso cognitivo schiude l’era della post-intelligenza aprendo la breccia all’“ostilità assoluta” tra gruppi e individui su scala planetaria. Il terrorista tradizionale, che fosse l’eversore europeo dei decenni scorsi o anche il jihadista attuale, è ancora un elemento che ha un rapporto dialettico con l’epoca della ragione; il partigiano della guerra civile permanente planetaria invece non risponderà più a parametri razionali: la sua aggressività moltiplicata dallo sradicamento muoverà sempre più da eruzioni pulsionali suscettibili di diventare virali nel disordine globale che le amplifica e le asseconda.

La guerra civile mondiale squarcia dall’interno ogni identità e annulla ogni differenza tra dentro e fuori, tra intimo ed estraneo. In tal modo, come ha notato Giorgio Agamben, «il legame politico si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il vincolo familiare si estranea in fazione». Ogni nazione, ogni popolo si dissolve in moltitudine – concetto che non a caso ha impugnato e brandito Toni Negri nei suoi ultimi saggi per rilanciare il propellente eversivo su scala generale –, massa disponibile a ogni influenza e a ogni conflitto. L’abdicazione del politico a pensare con le sue categorie, la rinuncia al principio della decisione, il cedimento al determinismo della tecnica hanno costituito l’acceleratore verso una determinazione globalista e non differenziata dell’universalismo, così da prefigurare un’unità del mondo parossistica rispetto all’ideale regolativo dell’ecumene universale.

Una prospettiva e una speranza
La rettificazione, l’atto resistenziale del katechon schmittiano rispetto al gigantesco deragliamento storico in corso è la teoria dei grandi spazi: «Per quanto piccola si sia fatta la terra, il mondo sarà sempre troppo grande per sottomettersi all’unico Signore del mondo». Il pluriverso dei grandi spazi condivisi tra popoli e culture omogenee determinerebbe un pluriverso ordinato fornendo un nuovo nomos della terra in grado di ridare al mondo una forma più originaria, dove limiti e confini riemergererebbero dalle profondità della storia oltre l’angustia dei vecchi nazionalismi e la follia allucinatoria di un’umanità indifferenziata oscillante tra robotizzazione e scatenamento istintuale.

 

Resta indeterminato se questa idea troverà pensieri capaci di ospitarla e volontà in grado di esprimerla. E tuttavia le idee sono entità viventi, generano campi di forza, tengono aperta una prospettiva e una speranza. Vale ricordarsene mentre s’allungano le ombre della notte e si è tentati dalla disperazione. «Per quanto lo sguardo scruti al di qua e al di là delle catastrofi, verso il futuro, e per quanto si sforzi di immaginare le vie che vi conducono, sempre nei loro vortici domina il presente», ha scritto una volta Jünger, tuttavia ricordando come il fuoco che rovinò i palazzi di Ilio rischiarò la via sulla quale Enea avrebbe fondato un nuovo regno. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

 
 
 

Com'era

Post n°2394 pubblicato il 26 Ottobre 2017 da namy0000
 

·      GIACOMO PAPI BLOG 

·      MERCOLEDÌ 25 OTTOBRE 2017

Com’era Severino Cesari

È morto Severino Cesari, il più grande editor italiano degli ultimi cinquant’anni, probabilmente. Era malato da tanto tempo, ma ha continuato fino all’ultimo giorno a scrivere, trasformando la malattia nella sua ultima vita. La sua notorietà maggiore è legata all’invenzione e alla direzione di Stile libero, la collana di Einaudi fondata nel 1996 insieme a Paolo Repetti, che aveva conosciuto alla casa editrice Theoria all’inizio degli anni Novanta, quando Cesari dirigeva le pagine culturali del Manifesto. È stato l’editor grazie a cui hanno preso forma alcuni dei libri degli ultimi vent’anni: l’antologia Gioventù cannibaleDei bambini non si sa niente di Simona Vinci, Almost blue di Lucarelli, Q di Luther Blissett, Io non ho paura di Ammaniti, Romanzo criminale di De Cataldo. Severino Cesari è stato tra i primi ad aver intuito la grande trasformazione che avveniva nella cultura italiana alla fine del Novecento, a comprendere il cedimento delle distinzioni tra basso e alto, pop e accademia, e a praticare questa intuizione con cura quotidiana, senza alcun compiacimento intellettuale, ma con identica curiosità, attenzione e rispetto, sia verso l’alto che verso il basso.

In pochi sapevano quanti anni avesse Severino Cesari, ogni tanto si giocava a indovinare, qualcuno sosteneva che fosse abbastanza giovane, altri che fosse vecchissimo, addirittura eterno, perché prima del cancro aveva i capelli lisci nerissimi e neppure il cancro gli aveva levato quel suo modo di muoversi e guardare che faceva venire in mente un prete umbro, un contadino etrusco, un sacerdote atzeco. Era misterioso, perché era moderno e antico. Nel suo corpo e nel modo di muoverlo si sentiva qualcosa di permanente, come un fondo duro e gentile, di terra. Tutti sapevano, invece, che era nato a Città di Castello. Anche il modo in cui parlava era strano: quando lo faceva in pubblico era pieno di incisi ed entusiasmi, accennava a cose che non sviluppava, avviluppava subordinate e coordinate fino a confondere il filo di tutti e a lasciare nell’aria soltanto l’emozione con cui aveva parlato; quando doveva dire qualcosa di pratico o essere duro, invece, era secco – soggetto, verbo e complemento, se il complemento era proprio necessario, altrimenti il verbo bastava; quando scriveva sms – lo ha fatto fino all’ultimo – mandava testi fluviali, editatissimi, affettuosi che ti costringevano a scrollare molte schermate per arrivare alla fine; ma era quando editava un testo che il suo stile si rivelava…..

Se rimanevi con Severino Cesari abbastanza a lungo, ogni parola sembrava circondata da nuvole di silenzio (ed è per questo che Paolo Sorrentino, nella Grande Bellezza, gli chiese di recitare nel ruolo del poeta muto Sebastiano Paf: «Perché non parla mai?» «Perché lui ascolta»).

Però era il suo corpo, il modo in cui stava nel mondo, la cosa che più colpiva di lui. Soprattutto le mani, che sembravano condurre una vita indipendente dal resto, specialmente quando toccavano un libro. Aveva le dita un po’ piatte, gentili, ma con le unghie non grandi e dei peli. Chi ha avuto il privilegio di vederlo toccare un manoscritto che aveva amato ed editato, per l’ultima volta, prima che partisse in stampa, sa che posava il blocco sul tavolo di vetro della sala riunioni della casa editrice, dopo averlo perfettamente ordinato in modo che neppure l’angolo di una pagina uscisse a disturbarne la verginità. Per un istante tirava indietro la schiena e guardava la carta, dimenticandosi di te, subito dopo alzava le mani e faceva un’altra piccola pausa, prima di incominciare a toccarlo, ad aprirlo, a separare i capitoli, mettendoli in fila uno di fianco all’altro da destra a sinistra, per poi fermarsi di nuovo a sfiorare le varie pile con gesti veloci, e appena era abbastanza, ricominciava, finiva di disporle, dopodiché si gelava, fermava le mani per respirare con le narici, guardava, e un attimo dopo le sue dita ricominciavano a volare sopra le pagine sfiorandole, apriva i capitoli, un attimo, e li richiudeva, li spostava, per sentire il ritmo del racconto per l’ultima volta prima di lasciarlo andare via, per sentire la scrittura e la narrazione che si trasformavano in peso, in spazio, in massa, in cosa.

Dopo, anche se non diventava un bestseller, diceva: «È un libro bellissimo». E se gli domandavi di un personaggio, poteva risponderti: «È l’aiutante magico di Propp», ma forse era lui.

 

Quando non ha più potuto toccare la carta, Severino Cesari ha cominciato a raccontare su Facebook la sua malattia. La chiamava «la Cura». Ha raccontato i tramonti romani, i fiori che sul terrazzo continuano a sbocciare, il vento, le passeggiate faticose, gli aghi nelle vene così distrutte che non si bucavano più, uno a uno i dottori e gli infermieri che aveva conosciuto a «Quantico», l’ospedale che  lo ha curato, le macchine, le mille medicine, Manuela, suo figlio, il fratello, raccogliendo intorno a sé sempre più ascolto e sempre più affetto. Se stava un po’ meglio rispondeva agli sms senza arrendersi alla loro brevità, ma continuando a usarli per raccontare qualcosa, come se fossero lettere.

 
 
 

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