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Autista di parole

Post n°2623 pubblicato il 02 Maggio 2018 da namy0000
 

“Pino Roveredo, autista di parole. Così ama definirsi. Premio Campiello per Mandami a dire (2005), oggi autore, sempre per Bompiani, di Mastica e sputa, assaggi di narrativa dove racconta 26 storie crude di vita reale, alcune autobiografia pura. La penna guida le parole che si scagliano come onde sugli scogli: ne escono il suo passato di alcolista e la “redenzione”, le storie spezzate di amici e persone incontrate con il suo impegno in organizzazioni umanitarie in aiuto dei disagiati. Un impegno che per lui è una sorta di terapia salvifica, l’ancora di una vita che è ‹‹un bacio e un morso›› o meglio, e cita una canzone di De André, ‹‹mastica e sputa››. ‹‹Gli ultimi sono quelli che sono stato io per vent’anni e a cui oggi do una mano con il mio lavoro di operatore di strada. Un lavoro molto egoista perché mi occupo degli altri per occuparmi di me stesso: mi sto salvando. Sono quelli che non riescono a tenere il passo, quelli che nessuno ha il tempo di aspettare: i detenuti e i loro famigliari, i malati, gli handicappati, i tossicodipendenti. Oggi basta una depressione per rimanere indietro. Eppure ogni tanto qualcuno vince, io ne sono un esempio. Pino Roveredo è uno che ha vissuto due o tre vite. A 13 anni già lavoravo grazie a un permesso speciale, viste le condizioni di estrema povertà della mia famiglia: garzone di bottega, aiuto benzinaio, idraulico e poi vent’anni in fabbrica. Il primo bicchiere lo feci da adolescente perché tutti lo facevano. L’alcolismo mi spinse nel baratro: lavori precari, licenziamenti, prestiti, ricoveri psichiatrici e l’esperienza devastante del carcere per piccoli reati. A 35 anni, con la nascita del mio terzo figlio, invertii la rotta. Da tanti anni ormai, oltre a scrivere, faccio l’operatore di strada: non ho un ufficio, vado dove i ragazzi inciampano. Quando vinsi il Campiello, per un anno abbandonai questo mestiere, per tornare a farlo quando mi accorsi che non avevo più niente da scrivere. Le periferie delle nostre città sono anima che deve essere raccontata. Figlio di sordomuti. Imparai a parlare prima che con la voce con la lingua dei segni, e questo mi è rimasto nella scrittura. Mia madre mi metteva le mani sulla gola per sentire le vibrazioni di un figlio che non poteva sentire con l’udito. Se mio padre voleva che diventassi qualcuno, mia madre mi voleva e basta. Le prime discriminazioni iniziarono a scuola, ma non mi hanno mai pesato. A causarmi la vera sofferenza fu l’istituto dei poveri, dove mi portarono per non farmi morire di fame. È lì che, per l’ottusità degli assistenti, si è formata la mia rabbia: non c’erano giochi, abbracci, sognavamo la mortadella con due “elle”, invece arrivava sempre quella senza sapore, con una “elle” soltanto. Oggi, che sono diventato garante regionale per i detenuti, ed è il primo caso di un ex carcerato che ci riesce, quando vado nelle carceri dico che se in quell’istituto ci avessero dedicato 5 minuti al mese di abbracci, molti di noi avrebbero scritto altre storie. L’affettività è un fiore che cresce, ma se lo cresci male, si piega o muore. I problemi nelle carceri sono che il 70% del popolo carcerario torna a delinquere. Questo significa che mancano progetti veri di rieducazione, e si alimenta la rabbia. E poi c’è una carenza spaventosa di personale. I detenuti con me si aprono perché mi considerano uno di loro. Anche quando vado nelle scuole ho successo, perché non spiego ma racconto storie vere. Per me la scrittura è vita. ho sempre scritto lettere: in carcere, a casa, ovunque. E se non fossi entrato nell’onore di una copertina lo farei tuttora. Ancora oggi i vecchi detenuti ricordano Pino “letterato”, nel senso basso del termine, perché ero quel ragazzino che scriveva lettere e le vendeva in cambio di pacchetti di sigarette. Quando ho cominciato la mia seconda vita, mi sono inventato il quaderno delle impunità, dove io e i miei figli ci raccontavamo: è durato 15 anni. Quando scrivo non sto seduto più di 5 minuti: mi alzo, parlo ad alta voce, rido, piango. I vicini che mi sentono alle tre del mattino sanno che sto partorendo qualcosa. Da triestino, scrivere è come il mare: libertà››” (FC n. 27 del 3 luglio 2016).

 
 
 

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