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Un mondo nuovo

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Messaggi del 29/05/2018

Luglio 1947

Post n°2650 pubblicato il 29 Maggio 2018 da namy0000
 

È luglio 1947. Gino Bartali sta correndo il Tour de France con risultati non entusiasmanti. Riceve una telefonata dall’Italia, dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e da Luigi Gedda, presidente dell’Azione cattolica: Palmiro Togliatti è stato ferito in un attentato. L’Italia è sull’orlo della guerra civile, De Gasperi chiede aiuto a Bartali perché, attraverso un’impresa epica, si possano calmare gli animi infiammati dalla violenza. Impresa che pare impossibile visto il ritardo in classifica, ma che Bartali si sente onorato di compiere. Tre tappe di montagna e la maglia gialla è sua. Impresa ai limiti dell’impossibile, trionfo che ha le basi nell’impegno oltre ogni limite. All’arrivo a Parigi, in trionfo, la stampa francese scrive una frase significativa: ‹‹Gino Bartali sei immortale›› (Un ricordo raccontato dopo molti anni da Bartali).

 
 
 

Ci ha causato dei problemi

L’euro secondo Carlo CottarelliCi ha causato dei problemi perché non ci siamo saputi adeguare, scrive nel suo ultimo libro, ma uscire è un'opzione che non vale la pena affrontare

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo libro di Carlo CottarelliI sette peccati capitali dell’economia italiana, uscito per Feltrinelli lo scorso gennaio. Cottarelli – economista ed ex commissario alla revisione della spesa pubblica – ha ricevuto dal presidente della Repubblica l’incarico di formare un governo “neutrale”, dopo la rinuncia di Giuseppe Conte dovuta all’opposizione di Mattarella alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia. Mattarella domenica sera ha detto che Savona è «visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’euro».

Cottarelli ha detto più volte di essere contrario all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’euro. Teoricamente, spiega Cottarelli, abbandonare l’euro potrebbe risolvere i problemi di crescita, competitività e debito pubblico, ma solo a certe condizioni che è molto complicato che si verifichino in Italia e che potrebbero essere molto dolorose per tutti. Per quanto riguarda la competitività e la crescita, Cottarelli spiega che se abbandonassimo l’euro e introducessimo la nuova lira ci sarebbero due principali problemi: la lira si svaluterebbe immediatamente e la svalutazione farebbe aumentare il prezzo dei prodotti importati. È vero che in linea teorica questo restituirebbe competitività ai prodotti italiani (gli esportatori riceverebbero più nuove lire per quello che esportano), ma tutto questo funzionerebbe a un’unica condizione: che i salari rimangano fermi. Se aumentassero per adeguarsi all’aumento dei prezzi dei beni importati, come probabile, allora gli esportatori non avrebbero più alcun margine. Vista poi la fragile situazione italiana e l’alto tasso di disoccupazione, i salari non aumenterebbero e sarebbero tagliati in termini reali (cioè i nostri soldi varrebbero meno).

Il secondo problema ha a che fare con i debiti contratti in euro. Con la svalutazione della lira, il debito avrebbe più peso rispetto a prima: Cottarelli fa l’esempio di un ipotetico prestito di 100 mila euro contratto da qualcuno che ha un reddito di 50 mila euro l’anno. Il debito sarebbe pari a due anni di stipendio. Con l’introduzione della nuova lira, lo stipendio verrebbe convertito in 50 mila nuove lire, la lira si svaluterebbe e servirebbero 1,25 lire per comprare un euro. Di conseguenza, per restituire 100 mila euro servirebbero 125 mila nuove lire, cioè due anni e mezzo di stipendio. Insomma, non ne varrebbe la pena. La domanda di Cottarelli è dunque: «Possiamo risolvere i nostri problemi di crescita, competitività e debito pubblico senza uscire dall’euro?». Di seguito la risposta, tratta dal libro.

È sempre utile, quando si tratta di valutare un’opzione di politica economica, tentare di capire come si comportano altri paesi nelle stesse condizioni. Altri paesi del Sud Europa hanno sofferto problemi di adattamento all’euro simili a quelli dell’Italia. Cosa stanno facendo? Riescono a recuperare competitività rispetto ai paesi nordici? Fino al periodo più recente, la Francia non ci stava riuscendo: i costi del lavoro per unità di prodotto hanno continuato ad aumentare, seppur leggermente. Con l’elezione di Emmanuel Macron sono state lanciate diverse riforme, e vedremo che risultato avranno. Chi invece sta recuperando competitività sono Spagna e Portogallo, dove i costi di produzione sono in discesa dal 2009. Li sta aiutando nella rincorsa alla Germania il fatto che in questo paese i costi del lavoro ora stanno aumentando: in Germania la disoccupazione è al 4 per cento, il livello più basso dal 1980, e i salari stanno crescendo più della produttività. Il Portogallo ha così ormai riassorbito il divario, in termini di aumento dei costi di produzione, che si era creato tra il 2000 e il 2008; la Spagna ci è vicino. Se ci stanno riuscendo loro non potremmo riuscirci anche noi?

L’aumento dei costi del lavoro in Germania è una buona notizia anche per noi. Negli ultimi anni il costo del lavoro in Germania è aumentato un po’ più che da noi, ma il divario creatosi nella scorsa decade è ancora elevato: stiamo recuperando ma troppo lentamente. E, nel frattempo, stiamo ora perdendo competitività rispetto a Spagna e Portogallo, dove, appunto, i costi stanno scendendo, il che non è una buona notizia, per esempio per il settore del turismo.

Occorre quindi fare di più per recuperare competitività. Ora, il costo del lavoro per unità di prodotto è il rapporto tra due fattori: il livello dei salari nominali e il livello della produttività. Può quindi scendere se si riducono i salari in euro, oppure se, a parità di salari, aumenta la produttività, cioè il prodotto per ora lavorata. Tagliare i salari è però una cosa poco piacevole, soprattutto per chi li riceve. Inoltre, porta a meno consumi, il che riduce la domanda aggregata, seppure questo sarebbe compensato da un aumento delle esportazioni. La seconda opzione (aumentare la produttività) è chiaramente preferibile. Ma, più in generale, è meglio cercare di riformare l’economia italiana in modo che non solo i costi del lavoro, ma tutti i costi che un’impresa deve affrontare siano ridotti, facilitando quindi un recupero di competitività.

E qui ci ricolleghiamo ai temi (ai peccati) discussi nelle pagine precedenti. Se la pubblica amministrazione diventa più efficiente e i costi della burocrazia si riducono, le imprese se ne avvantaggiano: spendere tempo a compilare moduli o attendere mesi per un’autorizzazione comporta un costo, compreso per le imprese che esportano. Occorre quindi rendere la pubblica amministrazione più efficiente per ridurre i costi delle imprese, attraverso un massiccio abbattimento della burocrazia. La recente riforma Madia è stata vincolata da troppi paletti perché possa avere risultati davvero significativi sull’efficienza della pubblica amministrazione.

Se la giustizia civile è lenta, l’incertezza del diritto costituisce un costo per le imprese che operano sul nostro territorio e un deterrente all’investimento. E, se non si investe, la produttività non cresce o si riduce. Occorre rendere la giustizia più veloce. I risultati raggiunti finora sono ancora insufficienti.

L’investimento in Italia si riduce anche se la corruzione scoraggia le imprese più efficienti dall’investire in Italia (perché “chi poi vince gli appalti è chi paga più tangenti”). E ancora, se l’evasione fiscale consente alle imprese meno efficienti di sopravvivere, le imprese più efficienti e che pagano le tasse preferiranno investire all’estero. Se il Sud Italia riesce finalmente a diventare un luogo dove conviene investire, la produttività del Sud, e quella dell’intero paese, aumenta. Anche in queste aree non ci sono segni di un chiaro miglioramento negli ultimi anni.

Occorre inoltre una decisa azione per aumentare la concorrenza. Non ne ho parlato molto in questo libro (non ho spazio a sufficienza!), ma è un tema essenziale. Un’economia di mercato funziona bene se c’è abbastanza concorrenza, se cioè sono le imprese migliori a emergere. Ci sono voluti più di due anni per approvare il provvedimento sulla concorrenza presentato dal Governo Renzi e che doveva essere il primo di una serie di leggi annuali su questo tema. Ed è uscito annacquato dal parlamento. Non è un buon segno. La concorrenza è una condizione necessaria per un aumento dell’efficienza, della produttività e della competitività.

Un altro tema fondamentale è quello della tassazione: il peso della tassazione sul lavoro e sulle imprese italiane è più elevato che in Germania, e se vogliamo recuperare competitività bisogna ridurlo. Ma per ridurlo in modo credibile occorre risparmiare sulla spesa pubblica. Negli ultimi anni, la pressione fiscale, a partire dall’operazione degli 80 euro sul costo del lavoro, si è alleggerita, ma ciò a scapito di un ritardo nel processo di risanamento dei conti pubblici che è invece essenziale per la sostenibilità del nostro debito pubblico, e quindi per la credibilità della riduzione delle stesse tasse. Questo è evidente dall’osservazione dell’andamento del cosiddetto “avanzo primario” delle pubbliche amministrazioni: l’avanzo primario, la differenza tra entrate dello stato e spesa al netto degli interessi, è l’insieme delle risorse che servono per pagare gli interessi e, potenzialmente, ridurre il debito pubblico. Secondo il Documento di economia e finanza formulato nella primavera del 2014, l’avanzo primario avrebbe dovuto raggiungere nel 2017 il 4,6 per cento del Pil. Tra il 2013 e il 2017, il rapporto tra debito e Pil avrebbe dovuto ridursi di 7 punti percentuali e mezzo. Alla fine, invece, nonostante la correzione imposta dalla Commissione europea nel corso del 2017, l’avanzo primario ora è stimato all’1,7 per cento e tra il 2013 e il 2017 il debito è previsto essere aumentato di un punto percentuale e mezzo di Pil. Il minor avanzo primario è per il 40 per cento dovuto all’effetto automatico della più moderata crescita del Pil rispetto a quanto previsto nel 2014 (se il Pil cresce meno le entrate dello stato crescono meno); ma per il restante 60 per cento è dovuto alla riduzione delle aliquote di tassazione decise senza un’adeguata riduzione della spesa, che è anzi aumentata al netto degli interessi. Ma tagli di tassazione a scapito della solidità dei conti hanno effetto limitato sulle decisioni di spesa e investimento del settore privato perché sono considerati come temporanei, e l’effetto sulla crescita è stato di conseguenza modesto. La legge di bilancio per il 2018 non cambia molto. Nonostante la previsione di una continua crescita a un tasso soddisfacente (l’1 e mezzo per cento), l’avanzo primario aumenta solo in modo modesto salendo al 2 per cento: avremmo dovuto essere al 5 per cento sempre secondo i piani dell’aprile del 2014.

Tutto sommato, credo che sia di gran lunga preferibile cercare di tornare alla crescita riformando l’economia italiana, piuttosto che scegliere il salto nel buio rappresentato da un’uscita dall’euro. Ma per intraprendere una strada alternativa occorre muoversi per tempo e negli ultimi anni non lo abbiamo fatto.

Il rischio, nell’attendere, è che uno shock di qualunque natura possa causare una caduta del Pil. Questo scatenerebbe probabilmente un nuovo attacco speculativo contro l’Italia. Se il Pil scendesse, il rapporto tra debito pubblico e Pil riprenderebbe a crescere e aumenterebbe la sfiducia nella possibilità del paese di rimettersi su un sentiero di crescita e di sostenere il nostro debito pubblico. Cosa accadrebbe a quel punto è difficile dirlo. Potremmo essere costretti dagli attacchi speculativi sui mercati finanziari a uscire dall’euro. O potremmo essere costretti a chiamare la Troika. Come ho detto, non sarebbe piacevole.

 
 
 

E se fosse davvero

Post n°2648 pubblicato il 29 Maggio 2018 da namy0000
 

·      GIANLUCA BRIGUGLIA BLOG 

·      LUNEDÌ 28 MAGGIO 2018

E se fosse davvero un complotto?

Devo dire la verità: dopo anni e anni di evocazioni di tesi complottarde, di poteri occulti, di paesi cattivi e avidi che tramano contro paesi buoni e ingenui, mi sono detto “E se fosse davvero un complotto?”. Sì, è un complotto.

In fondo fare affondare l’Italia conviene a tutti. Oggettivamente il nostro paese è un enorme problema dell’Unione Europea. Abbiamo un debito pubblico gigantesco, il 133% di quello che produciamo. Pensiamoci un attimo: se uno fosse obbligato con la pistola alla tempia a scommettere tutto quello che ha sul destino dell’Italia tra dieci anni, scommetterebbe sul fallimento dell’Italia o sul suo risanamento? Tu che leggi, scommetteresti la tua casa e i tuoi risparmi sul fatto che fra 10 anni l’Italia riuscirà a pagare gli stipendi, gli ospedali, i servizi, l’esercito? Scommetteresti sul fatto che non sarà superato a breve quel livello di interessi che serve per farsi prestare i soldi e superato il quale non si riesce più a restituire?

Eppure, potresti dire, tu che ancora non sei iniziato alla comprensione dei complotti, che negli ultimi anni c’è stato un piccolo spiraglio, non nel mettere a posto la situazione, cosa che nessuno vuole fare, compreso te che leggi e io che scrivo perché siamo troppo comodi, ma nel cercare di gestirla, di ritardare quel crack che nel 2011 sembrava a pochi mesi di distanza.

Certo, ma è proprio questo uno dei problemi. È qui che si manifesta la necessità del complotto.

L’Unione Europea sa che finché rimaniamo nell’euro e nell’Unione per noi è più difficile fallire e che se ci andiamo vicino abbiamo dei paracadute: abbiamo voce in capitolo, possiamo dialogare con la Banca Centrale (che ogni mese ci aiuta prestandoci soldi, contro il parere furioso dei tedeschi), possiamo rifiutarci di far passare il bilancio, possiamo influire su tutte le politiche (se solo ci concentrassimo su cose concrete e credibili), possiamo addirittura imporre, come abbiamo fatto, di prevedere dei fondi speciali per salvare stati in difficoltà.

E l’UE sa anche che è difficile che facciamo fallimento in tempi troppo brevi (che sarebbe ottima ragione per mandarci a quel paese), perché la nostra economia è piuttosto grande e ci dà margini di assorbimento di queste crisi e però sa anche che non ci risolleveremo mai, che il nostro fallimento sarà a lungo a bassa intensità.

Invece di aspettare il fallimento naturale, il corso delle cose, non sarebbe più utile per i paesi dell’Unione che non hanno minimamente il nostro problema se ce ne andassimo, se sparissimo dai tavoli, ci riprendessimo la nostra cara Lira con Giuseppe Verdi e chi s’è visto s’è visto?

Del resto, riflettiamo, se noi usciamo la Francia e soprattutto la Germania con i suoi paesi satelliti potrebbero approfittarne, potrebbero farsi la loro Europa a tutta velocità e sbarazzarsi finalmente della cugina latina e magari anche di altri.

Tu dirai, ma solo perché non hai capito il complotto, ma noi con la nostra Lira vendiamo più pomodori. Può darsi, ma se usciamo e svalutiamo, poniamo, del 20-30% la nostra moneta (e non decidiamo mica noi se è il 30% o il 50%, lo decide sempre il mercato), poi quello che viene da fuori penisola, compresi semilavorati, materie prime e tutto quello che c’è in un’economia ormai integrata, con che cosa lo compriamo? I debiti che abbiamo con che moneta li paghiamo, con una stabile o una che non si sa? I mutui di casa come li gestiamo?

E siamo poi sicuri che alla Germania e alla Francia non convenga avere un paese vicino come l’Italia con una moneta debole per poter comprare le nostre industrie migliori? Non i prodotti, le industrie. I francesi sono da sempre in agguato per comprarci il possibile. Sarebbero contenti di avere anche lo sconto e di integrare alla propria economia quel di più di creatività e di capacità che, diciamocelo, spesso abbiamo dimostrato.

No, no, l’Italia non può rimanere in Europa e non può rimanere nell’euro. Solo che non possono sbatterci fuori così, senza motivi.

E non sono i soli che sarebbero contenti. Pensiamo a Putin e ai cinesi. Il primo vuole da sempre sgretolare l’Unione Europea e non è che lui abbia problemi di moneta. Semplicemente non vuole avere un vicino forte alle sue porte. Se noi uscissimo sarebbe felicissimo di aiutarci, magari facendoci uno sconto sull’energia e secondo me Gazprom ci comprerebbe anche qualche squadra di calcio, perché no? Magari in cambio potrebbe cogestire, di qui a vent’anni, anche qualche porto italiano. Non sono sicurissimo che altri affari potremmo farne, con un paese che ha un potenziale industriale relativo. I cinesi poi non vedono l’ora di metter piede in Italia. Quello che lascia la Francia loro lo prendono senza problemi. Per non parlare dell’enorme piacere che avrebbe uno come Trump di parlare con noi faccia a faccia, ma senza tedeschi e francesi, senza 250 milioni di persone dietro a spalleggiarci.

Tutti sarebbero poi felicissimi di risolvere definitivamente il problemone dell’immigrazione. Come? Be’, se l’Italia esce dall’UE si chiudono anche le frontiere, no? I migranti continuerebbero ad arrivare in Italia e si fermerebbero lì, e non potremmo certo fare battaglie europee per risolvere il problema. Già l’Austria e la Francia ora chiudono le frontiere, figuriamoci quando non staremo più agli stessi tavoli.

E poi, diciamocelo, a quel punto i neri ci servirebbero davvero, per essere competitivi con gli altri europei, certo sarà dura per i caporali scegliere tra neri e bianchi. Però una volta svincolati dall’Europa non avremmo più questi freni sul lavoro, sui diritti, sui salari, saremmo finalmente sovrani.

Diciamocela tutta: solo un cieco non vede che stanno complottando questo contro l’Italia. Ma come fare per realizzarlo e senza che i suoi mandanti, Francia, Germania, Russia, Cina, America, possano essere scoperti? Lo fanno fare agli italiani!

Basta che si trovi una maggioranza per fare un governo che chieda di non pagare i debiti, cioè che dica (perché questo è): “Non prestateci più soldi, perché noi non ve li restituiamo”. Già basterebbe questo ad accelerare il processo, perché qualcuno che ce li presta lo troviamo, ma per prestarceli vuole un po’ di interessi in più, altrimenti, dice, li presto alla Germania che mi dà meno ma me li dà (quella roba lì dello spread).

Però attenzione, anche così l’Italia potrebbe cavarsela, allora forse è meglio che questo fantomatico governo a un certo punto dica chiaro e tondo che si deve uscire dall’euro. Non dev’essere la Germania a chiederlo, devono proprio essere gli italiani, convinti di fare un dispetto ai tedeschi e ai francesi.

Anzi, ci scommetto, tedeschi e francesi si mostreranno molto comprensivi e chiederanno con forza al Fondo Monetario Internazionale di aiutarci e di prestarci soldi per poter trovare ogni anno i 400 miliardi di euro (non oso pensare a quanto siano in lire pentastellate) che ci servono per non chiudere baracca. Il Fondo Monetario le presterà con gioia, come fa sempre, solo che detterà le sue regole e le sue riforme e ci centellinerà il prestito in cambio forse della privatizzazione degli ospedali, del licenziamento di maestri e professori (che poi sono già troppi), magari della gestione del patrimonio storico (che male ci sarebbe, in fondo, se il Louvre gestisse anche il Colosseo e gli Uffizi?), e naturalmente del taglio delle pensioni e dell’aumento delle tasse.

E a quel punto all’Italia rimarrebbe il sovranismo, non certo la sovranità.

Se il complotto per distruggere l’Italia c’è, per consegnarla ai poteri forti della finanza mondiale e all’influenza di potenze straniere di tutte le taglie non saprei immaginare niente di meglio che un governo Lega-5 Stelle con la linea politica emersa nei giorni scorsi.

Disclaimer e aggiunta per lettori troppo aggressivi e troppo letterali: ovviamente non credo che ci sia un complotto (anche se…), questo post è stato scritto prima della crisi istituzionale scoppiata ieri e soprattutto prima dell’idea folle di mettere in stato d’accusa del presidente, che ha rivelato il bonapartismo dei 5 Stelle (vedremo la Lega). Il post era un gioco ad imitare i complottisti, ma è evidente che il tempo degli scherzi è finito e che in gioco, complotti o non complotti, c’è il destino del paese.

 
 
 

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