Creato da Il_casellante il 24/01/2008
storie in transito
 

 

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE (parte seconda)

Post n°45 pubblicato il 02 Maggio 2008 da Il_casellante
 
Tag: Giulia
Foto di Il_casellante

La differenza tra me e Giulia è che il mio ordine è di natura spaziale: io dispongo, abbino e combino gli oggetti intorno a me, nel loro giusto posto; l’ordine di Giulia, invece, risiede in un sentimento esatto del tempo. Giulia colloca i discorsi nei momenti che più le sembrano opportuni. Siamo al punto di collisione: mentre io risistemo i vestiti dentro l’armadio,  Giulia mi osserva, seduta sul letto a gambe incrociate. Mastica il nocciolo di una nespola che ha mangiato un’ora fa. Non ha digerito la riproduzione di Magritte che ho appesa in sala, affianco al suo poster di Degas.  Sento distintamente la mandibola di Giulia che scricchiola. Quando il conflitto è serio, Giulia vuol discutere d’amore. Sui nodi cruciali della nostra relazione, quali siano per lei, Giulia impone il voto di fiducia. Se l’amo, devo rimuovere il quadro sacrilego. Disturba. Durante le sedute di meditazione, quando Giulia si accomoda come un fiore di loto sbocciato sul tappeto, e resta in silenzio per ore, fissando, contro la parete, le ballerine che danzano, i miei omini con la bombetta, affacciandosi sulla scena da un angolino remoto del suo campo visivo, le impediscono di entrare in sintonia coi battiti del cuore. Ammette che gli omini sono belli. Nulla esclude che l’inconscio sia fatto proprio così: omini senza volto che piovigginano dal cielo. Tuttavia io confondo una seduta di meditazione con un appuntamento dallo psicanalitica. Invece di abbandonarmi alla contemplazione, fisso un punto sul poster e cerco di pervenire ad uno stato di ipnosi, che – Giulia mi spiega – è ben diverso dalla commozione. Davanti a un quadro di Magritte, la meditazione non riesce. Dunque il quadro va rimosso. Potrei appenderlo nello studiolo. Giulia dice: meglio in bagno. Che già sarebbe una grande concessione, perché, a voler fare come Giulia pensa, Magritte andrebbe rimosso definitivamente. Quanto a me, se mi spetta un’obiezione, confesso che il mio senso estetico non è sufficientemente sviluppato.  Anche Degas mi piace. Anzi, mi basta. Se Giulia non sopporta altri pittori in casa, accetto di schiodare  la mia riproduzione di Magritte, purché Giulia me lo chieda. Invece Giulia mi domanda  se l’amo. Sorrido. Mi avvicino a lei mugolando. Le mordo un orecchio. Punzecchio la sua femminilità dov’è languida e, insieme, appuntita. Giulia accetta qualche coccola, poi però mi respinge. Esige una risposta esplicita.

-         Ti adoro.

-         Davvero?

-         Come l’aria che respiro.

-         E a casa?

-         Sarebbe?

-         Stanno tutti bene?

-         Chi?

-         Mi saluti tanto la sua signora. Cos’è ‘ti adoro’?  Perché non provi a dirmi: ‘distinti saluti’, ‘anticipandole i sensi della mia gratitudine’, ‘sinceramente suo, Alberto Finetti’? Una formula di convenienza. ‘Ti adoro’ non è ‘ti amo’.  

-         Per carità, non ricominciamo con le acrobazie mentali. Mi vengono le vertigini.

-         Allora non mi ami.

-         Allora ti amo. Va bene? Ti amo. Ti a, mo. Ti amo ti, a, mo. E’ una farfalla che sbatte le ali.

-         Seriamente non riesci a dirmelo?

-         Seriamente.

-         Dimmelo.

-         Giulia, io ti…

-         No, aspetta. Adesso non ci crederei. Mi hai fatto venire in mente Umberto Tozzi. Dentro la mia testa c’è Umberto Tozzi! Oddio, che orrore!

Giulia non vuole più chiacchiere. Giulia non vuole più coccole. Giulia non vuole più una dichiarazione d’amore. Io non voglio litigare. Smaltiremo il malumore restando entrambi in silenzio. Io appenderò gli abiti alle grucce, e  Giulia mi osserverà muta, masticando un nocciolo di nespola. Ho imparato dalla convivenza che il dialogo prevede, a volte, la reciproca capacità di tacere. Aspettiamo che il rancore tra noi si attenui, perché questo rancore non è nostro. Io e Giulia, come tutti, vorremo dall’amore  una consolazione che non può darci. Che sia pieno quando la vita sembra vuota; vuoto quando, nella mente e nel cuore, si affollano gli omini con la bombetta. Vorremmo un amore alternativo. Però io e Giulia sappiamo che amarsi non è meglio di vivere. Come l’amore, la vita a volte premedita imprese storiche, e trae coerenza da estreme passioni; più spesso, tuttavia, si limita ad accadere. Non dedico a Giulia tenere filastrocche. Non compongo poesie per lei, non canto serenate, non scrivo bigliettini profumati. Io, però, sento accadere l’amore tra noi. Di questo non so parlare. Se le dicessi che l’amo, davvero mentirei. Più appropriatamente dovrei dirle che io la ‘sto’ amando. Proprio come una farfalla che sbatte le ali, svolazzando tra nubi bianche, nel cielo azzurro   dentro la mia bombetta.    

 
 
 

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE (parte prima)

Post n°44 pubblicato il 02 Maggio 2008 da Il_casellante
 
Tag: Giulia
Foto di Il_casellante

 

Arriva il bel tempo. Nei campi rosseggiano i papaveri. Presto torneranno le rondini. Il polline delle graminacee mi tormenta. Ecco i segnali della buona stagione. Giunge l’ora felice di riempire le tasche dei cappotti con fiori di lavanda e caramelle di formalina. Camminerò a piedi nudi dentro i miei sandali. Accorcerò le maniche.   

Ieri sera ho invertito il guardaroba. D’inverno sistemo nei cassetti superiori  le canottiere  di  lana, mentre ripongo le T-shirt di cotone negli scomparti bassi, più disagevoli per il mio cronico mal di schiena.  D’estate inverto le posizioni: sopra la roba leggera, sotto la pesante, che tanto non s’usa. Inverto anche gli armadi, le cassapanche e i comodini. Creo spazi adeguati al nuovo equipaggiamento. Via le giacche grigie, via le scarpe massicce, via i maglioni intrecciati.  Col bel tempo sono preferibili tessuti freschi e colori vivaci. Non è una semplice questione di praticità. Una forma, seppur blanda, di adattamento all’ambiente richiede di collocare le risorse secondo un principio d’ordine: vicino, nell’armadio ai piedi del letto, quelle di più immediata utilità; lontano, nelle scatole sopra l’armadio (qualcosa anche in mansarda, qualcos’altro in cantina) la roba meno attuale e gli arnesi che adesso non servono. Occorrono adeguate capacità geometriche e un equilibrato senso estetico. Piegare le camice in base ad uno schema omologato di angoli e linee; impilarle secondo una coerente gradazione di colore, procedendo dai toni scuri ai toni chiari; distinguere righe e quadretti; arrotolare le cravatte in senso antiorario; eliminare il superfluo: l’ordine ha bisogno di essenzialità. Ogni cosa al suo giusto posto. Non è proprio una questione di razionalità. Le persone ordinate, con qualche eccesso patologico di natura compulsiva, ambiscono piuttosto all’armonia. Come i quadri di Magritte.

-         Sarebbe?

-         A te piacciono le ballerine di Degas, a me gli omini con la bombetta.

-         Ntz. Troppo razionali.

-         Piovono dal cielo. Hanno il cielo dentro la faccia, oppure una mela invece della testa, o niente: né faccia né testa. Ti sembra razionale?

-         Il surrealismo è profondamente razionale. Iper razionale. Tu sei surrealista.

-         Tu, invece, che sei? Impressionista? Impressionabile? Ti commuovi davanti alle ballerine di Degas. Brava. Animo sensibile. A me, però, piacciono di più gli omini. Va bene, sarò surrealista. E’ un reato?

-         Ntz.

-         Allora siamo d’accordo.

-         Ntz.

-         Non siamo d’accordo?

-         I tuoi omini sono evocativi. Le mie ballerine, commoventi. L’evocazione è uno spasmo della mente. La commozione è una vibrazione del cuore.

-         La commozione del cuore! Che vibra. Bello. Me l’annoto.

-         Tu da quanto tempo non piangi?

-         Non può piacermi Magritte? Devo piangere per forza? Guardare un poster di Degas, e piangere?  Non piango. Io preferisco Magritte. Mi emoziono per Magritte. Vale lo stesso, anche se non piango.

-         Da quanto?

-         Si, più o meno… No. La questione adesso è… Qual è la questione?

-         Io non ti ho mai visto piangere.

-         Al funerale di mio padre piangevo.

-         Io non c’ero.

-         Pazienza. Avrò pianto senza di te. Posso piangere senza di te?

-         Piangi senza di me. Vuoi che esca? Ti lascio solo?

-         Perché?

-         Per piangere.

-         Perché?

-         Piangere fa bene.

-         Che discorsi!

-         Tuo padre è morto dieci anni fa. Allora non mi conoscevi.

-         Ho pianto senza conoscerti. Si può?

-         Adesso non più. Adesso mi conosci.

-         Infatti adesso sono felice e non piango.

-         Mai?

-        

-         Hai mai pianto da quando mi conosci?

-        

-         Ti sei commosso almeno una volta?

-         ...

-         Sei davvero così felice?

-        

-         Mi ami?

 
 
 

IL SANGUE DEI MAIALI NON E' ROSA

Post n°43 pubblicato il 28 Aprile 2008 da Il_casellante
 
Foto di Il_casellante

Riunione del comitato, in pizzeria da N. P., io e Giulia,  Roberto e Veronica, Giulio e Marta, Cesare con una sconosciuta. L’idea di convocare le donne è un’innovazione di Roberto. Sul tema  del maiale, Veronica pretendeva assolutamente di presenziare. Roberto non sa dirle di no. Tuttavia, per attenuare gli effetti della sua presenza, ha esteso l’invito anche alle fidanzate altrui, compresa la recentissima nuova compagna di Cesare. Il maiale, dopo la morte del nonno di Roberto, è stato affidato ad un contadino della zona, che adesso comunica perentoriamente di averlo nutrito a sufficienza. Il porco è grasso abbastanza. Roberto potrebbe portarlo al macello e farne prosciutti e salsicce, come sa e come vuole, oppure il contadino si offre di comprare la bestia ancora viva e pensare lui a tutto il resto. Per onorare la presenza delle donne, discutiamo il caso bevendo acqua minerale, leggermente frizzante.

-         Vendere si potrebbe. Ma il contadino è furbacchiotto. Il prezzo devi stabilirlo tu. Informati. Quanto vale un maiale vivo e quanto un maiale morto. Sottrai i costi di macellazione, lavorazione e conservazione della carne, togli circa il dieci per cento, e valuta se ti conviene.

-         Se lo vendi al contadino, scanno io te, come un maiale.

-         I contadini non sono criminali.

-         I maiali neppure. Se vendi il suino, lo condanni a morte.

-         Non drammatizziamo. Ammazzare i maiali non è peccato.

-         Come li ammazzano?

-         Li sgozzano?

-         Gli sparano un colpo in mezzo agli occhi?

-         Lo ammazzano come il maiale da cui deriva la salsiccia con cui avete ordinato la pizza. Uguale.

-         Mio Dio mi pento e mi dolgo.

-         Allora, vendiamo?

-         Ti ammazzo!

-         Si o no?

-         Si.

-         Vi sgozzo e vi sparo! Tutti e due.

-         No?

A Marta il quesito non è chiaro. Chiede se dobbiamo votare per la  vita o per la morte del maiale, oppure stabilire, meno drammaticamente, chi se lo mangerà: noi, quanti siam qui: Io, Marta, Roberto e gli altri amici, oppure il contadino. Perché, nel primo caso, Marta  voterebbe per la vita. Nel secondo, per il prosciutto. Vuoi mettere il gusto? Segue un breve litigio tra Marta e Veronica, per chi delle due può proclamarsi autentica paladina degli animali, stando che l’una accoglie in casa i gatti randagi e l’altra è vegetariana. Giulia interviene a redimere il dubbio: possiamo – ma propriamente è Roberto che deve -  scegliere tra tre opzioni: vendere al contadino per cavarci d’impiccio, portare il maiale al macello e spartirci il cadavere,  oppure trovare il modo, esattamente Giulia non sa, ma forse, come dire, il maiale, si potrebbe, per esempio, adottarlo.

- Sarebbe?

- Cioè?

- Un maiale, fondamentalmente, mangia e caca. Un animale che mangia e caca sta bene.

- Per cui?

- Cioè?

- I gatti mangiano e cacano uguale, finché muoiono di vecchiaia. Basta riempirgli la ciotola e pulirgli  la lettiera.

- Non guardare me. Cambiare la sabbiolina al gatto, già sai, mi ripugna.

- E per la ciotola? Che mangiano i maiali?

- Tutto. Sono onnivori integralisti.

- Possiamo nutrirlo con gli avanzi di cucina.

- Il mio gatto detesta gli avanzi di cucina: accetta solo scatolette Royal. Si vendono le scatolette per i  maiali?

- Si vendono i mangimi.

- Mio Dio, non starete pensando davvero di…

- E’ solo un’ipotesi.

- Allora, se è solo un’ipotesi, il maiale lo vendo a te e Veronica, che ve lo mettete in salotto e lo ammaestrate a  non calpestare i tappeti.

- Tuo nonno allevava i maiali in salotto?

- Mio nonno era un contadino.

- Appunto.

- Cioè?

- Il maiale ha già la sua stalla.

- Col bagno?

- Ti pare?

- Senza bagno?

- Finiscila.

- Veramente: la cacca dove la fa? In mezzo ai campi?

- La farà dentro il recinto. Penso. Non so. Che discorsi sono?

- Discorsi per sapere se dobbiamo cambiargli la sabbiolina anche al maiale.

- Vabbè, può darsi pure; ma che sforzo sarà mai? Se ce la faceva nonno Benito a ottant’anni, tutto da solo, non possiamo farcela noi, che siamo una squadra di giovani amici?

- Commovente.

- Comunque Benito è morto e io voto per vendere.

- Io invece mi prenoto per  le costolette.  Tenetevi pure tutte e quattro le cosce per i vostri prosciutti, ma a me datemi le costolette per la  grigliata.

- Ven, de, re.

- Spar, ti, zio, ne.

- Marta, che dici?

- Non so. Vendere. No. Spartizione. Mi astengo.

- Nessuno vota per Giulia e Veronica?

- Sarebbe?

- Giulia, tu come voti?

- Voto per adottare il maiale. Forse, non so, potremmo fare i turni: per comprare il mangime, pulire la stalla, e così.

- Ok. Chi vota per l’adozione? Tu come voti? Alberto? Giulio? Veronica?

- Ve l’ho detto: io vi impicco.

- Marta hai deciso?

- No, davvero, mi astengo.

- Due voti per spartire, due per vendere, due per adottare, un astenuto. Chi manca? Anna, manchi tu.

Relegata in un angolo, la nuova compagna di Cesare si morde le labbra intimidita. Avrebbe un sorriso tenero, sotto strati di cipria e un rossetto invadente. Si scusa, balbettando, di non aver capito. Beve frettolosamente un bicchiere d’acqua. Manca lei per far che cosa? Cesare le suggerisce in un orecchio di sostenere la proposta del  contadino; poi gli spiegherà. Subito Veronica insorge e denuncia brogli. Conveniamo unanimemente, Anna e Cesare compresi, di soprassedere. Votazione nulla, fumata nera. Nessuna opzione prevale. Tutto rinviato a giovedì prossimo: spitz in Piazza Ariostea alle sette e un quarto. Nel frattempo Roberto si informerà presso un macellaio, Cesare istruirà Anna, Marta tirerà a sorte, Giulia e Veronica organizzeranno ripicche e sabotaggi, Giulio non so. Io, per parte mia,  dichiaro aperto il televoto.     

 
 
 

FONDI DI CAFFE'

Post n°42 pubblicato il 24 Aprile 2008 da Il_casellante
 
Foto di Il_casellante

L’ingegnere Fausto Gresini non dorme tranquillo. Dietro le lenti massicce, le sue pupille  sprofondano nelle  occhiaie. Rimesta un residuo di zucchero in fondo alla tazzina del caffè, roteando il cucchiaino come la pala paziente di un’impastatrice meccanica, che gira dentro la sua testa. Soprattutto di notte. L’ingegnere si arrotola nelle lenzuola senza trovare la posizione di quiete, ragionando pensieri ininterrotti. La faccia smunta con cui giunge la mattina in azienda tradisce il suo travaglio notturno. Presto l’ingegner Gresini compirà cinquant’anni. In ufficio abbiamo già raccolto le quote per il regalo: cinquanta euro pro capite bastano a comprargli, in dodici, una penna Montblanc. Cosa si regala ad un  dirigente aziendale che varca la soglia del mezzo secolo?  La Montblanc è perfetta. Tutti gli regalerebbero una Montblanc; tutti, probabilmente, gliela regaleranno: anche i nostri colleghi della Logistica. I regali scontati sono un segno inequivocabile del ruolo che ciascuno riveste nel complicato groviglio delle relazioni umane. Aiutano molto a semplificare. Un peluche, per esempio, esprime una richiesta di affetto in forma infantile, attraverso il gioco e  le coccole. Ad un dirigente non si regalano orsacchiotti di pezza. Una relazione professionale si esprime ad un livello più distaccato. La scatola di cioccolatini, però, è troppo misera. Nella boutique del cacao, in via San Romano, se ne vendono  di costosissime. Comunque l’idea resta povera in sé. I cioccolatini si regalano a chi poco ci interessa. Ad un dirigente, invece, bisogna far percepire che, nel suo ruolo, lui è una persona importante. Non serve lambiccarsi alla ricerca di  idee originali. Una classica Montblanc, con la stellina bianca sul tappo. Sobria, costosa, e stereotipata. Altamente rassicurante. Se i dipendenti  vi regalano la Montblanc, sedete certamente su una poltrona comoda, probabilmente fumate il sigaro, qualche volta giocate a golf. L’ingegnere Fausto Gresini. Che problemi ha? Dorme pochissimo. Lo incrocio stamattina all’ingresso. Mentre saliamo in ascensore, muti come due uomini soli, io mi osservo i piedi e l’ingegnere si manipola il viso, voltato verso lo specchio. Sulle guance e sotto il mento, massaggia tra le dita lembi flosci di pelle. Quindi sgrana le palpebre  e si avvicina al vetro, premendoci contro il naso. Osserva da vicino le venuzze  viola che serpeggiano dentro i suoi occhi. Sbadiglia molte volte. Poi una piccola scossa ci fa sussultare.  L’ascensore si ferma al terzo  piano. Le porte si aprono con simmetria elegante. Alle otto e quaranta del ventitrè aprile, davanti a noi si spalanca il corridoio grigio. Aspetto che l’ingegnere esca dall’ascensore per primo. E’ buona maniera concedere la precedenza agli anziani. Aspetta anche l’ingegnere. Forse non si è accorto che siamo al capolinea. Per avvertirlo dico: “Eccoci qua”,  sorrido, mi gratto un orecchio, fingo di tossire. Infine decido di uscire io per primo. Proprio allora l’ingegnere schiaccia il pulsante del piano terra, le porte si richiudono, e noi torniamo giù.

-         Stiamo scendendo?

-         Andiamo al bar.

-         Io avrei già timbrato.

-         Io  ho assolutamente bisogno di un caffè.

-         Problemi?

-         No.

Un’estemporanea pausa al bar, durante l’orario di servizio. Bene per l’ingegnere, bene per me che l’accompagno. Siamo entrambi stipendiati dall’azienda. Guadagniamo il necessario per sentirci al riparo. Soprattutto l’ingegnere non deve  contare gli spiccioli. Arriva tranquillamente a fine mese. Con una moglie più giovane di dieci anni, e due bambini capricciosi, ne ha a sufficienza per pagare a lei una domestica filippina, e ai figli  un weekend all’anno a Euro Disney. Non abbiamo molto da dirci, io e l’ingegnere. Sappiamo di appartenere alla stessa razza, su gradini diversi. Siamo persone che osservano molto e parlano malvolentieri. Non c’è diffidenza tra noi, ma l’inspiegabile consapevolezza di essere estranei al sistema nella stessa misura in cui siamo disinteressati l’uno all’altro. L’assenza di affetto tra noi è il valore più prezioso della nostra relazione: il solo spazio in cui, forse, entrambi ci sentiamo autenticamente liberi di non amare il prossimo nostro per partito preso. Sarebbero discorsi formali e superflui. Di cosa potremmo parlare, io e l’ingegnere, appoggiando il gomito al bancone del bar?  Potremmo discutere di affari, politica, donne e fantacalcio. Potremmo persino  trovare, nella forma del discorso, una modalità specifica di relazione: un dirigente che socializza con un subalterno, due colleghi che analizzano casi, amici, magari, che imparano a conoscersi meglio. Ma l’assenza di comunicazione tra noi è, appunto, il segno che tutto questo non ci interessa. Sappiamo di essere membri dello stesso organismo come due alberi coesistono nella foresta, collegati dal medesimo equilibrio ecologico, eppure chiaramente separati, ciascuno con le proprie radici, il proprio tronco, e i rami che non si intrecciano. Tifare per squadre o partiti opposti, nutrire del mondo opinioni divergenti, oppure condividere la medesima forma di attrazione sessuale per le donne esotiche, il grado di opposizione o complementarietà tra me e l’ingegnere non basterebbe a fare, di noi,  due compari, se anche avessimo il tempo di restare fermi, qui al bar, a raccontarci storie per il resto della vita.  Il presupposto implicito del nostro dialogo muto è che noi non dobbiamo per forza volerci bene.

Cosa angustia le notti dell’ingegnere posso intuirlo da ciò che in azienda si dice d’una sua relazione troppo intima con la cameriera. Federico Valente, dacché gli hanno negato la promozione, diffonde voci maliziose sui dirigenti: chi sarebbe corrotto, chi deviato, chi un sadico pericoloso. Per esempio Federico è certo  che l’ingegnere sia un pervertito perchè ha preso in casa una sguattera filippina, tenera tenera, e adesso, con sua moglie, giocano in tre, alla paziente l’infermiera e il dottore. Ovviamente ginecologo. Rimuovendo dalla notizia l’eccesso di perversione che la fantasia indispettita di Federico vi riversa, resta il fatto che l’ingegnere arriva in azienda ogni giorno più pallido e fiacco, smarrito nell’abisso oscuro delle sue occhiaie. Non dorme. Problemi concreti, se anche ne avesse, non gli ruberebbero il sonno. L’ingegnere sa come gestire le situazioni concrete.   E’ persona assai ponderata, quando i pesi sono esprimibili attraversò unità di misura alfanumeriche. Per esempio i prospetti aziendali che l’ingegnere redice periodicamente sono documenti programmatici sempre chiari e stringati. Anche quando tutte le congiunture economiche e gli indici di borsa lasciano presagire nubi sparse e piovazzi, l’ingegnere sa come muoversi. Obiettivo A1: ridurre il numero dei concessionari. Obiettivo A2: istituire, in ogni area di mercato, uno o, al massimo, due distributori autorizzati, ai quali delegare il controllo locale della rete di vendita. B1: corso psico-motivazionale obbligatorio per tutti i dipendenti; B2: qualche licenziamento. Sono sicuro che l’ingegnere saprebbe gestire altrettanto bene un’amante. Le relazioni extraconiugali richiedono ottime capacità organizzative, che all’ingegnere non mancano. Se poi la moglie fosse addirittura partecipe e consenziente, ancor più ragioni ci sarebbero, per l’ingegnere, di dormir tranquillo. Ciò che davvero gli strappa il sonno di dosso deve essere un incidente non catalogabile secondo l’analisi logica del project cycle management: un fattore di rischio non indicizzabile. Annalisa pensa che l’ingegnere sia malato. E’ stato da un medico. Sembra. Pare. Si dice. Forse. Una malattia grave. Invece Arnaldo crede alla storia di Federico: l’ingegnere dorme poco perché ama molto. Beato lui. Io l’ho incrociato stamattina in ascensore. Aveva una faccia sfinita. Non da uomo maschio che si diverte. Però egualmente m’è parso di riconoscere, nel suo stanco sembiante, un sottofondo di buona salute: quel grado di complessiva tonicità dell’organismo che distingue una persona insonne  da un moribondo. Del resto la malattia è, a suo modo, un evento prevedibile e governabile. Anche la più grave. Io e l’ingegnere siamo creature mortali e, all’evenienza, sapremo vivere fino in fondo, senza concedere alla vita speranze illusorie, né alla morte il tributo anticipato della rassegnazione. Appaiati davanti al bancone di un bar, mentre beviamo in silenzio un caffè, ciò che solo può avere adesso la forza di sorprenderci, fino a minacciare la nostra tranquillità, dev’essere un segreto inconfessabile, che l’ingegnere non vuol raccontarmi e io non voglio sapere. Un segreto che non esiste. In fondo a una tazzina di ceramica, dentro un residuo di zucchero che l’ingegnere rimesta col cucchiaino, il difetto di una vita regolare e tranquilla, ben pianificata, è che, dopo cinquant’anni, gira e rigira, diventa irreale. Nessun dirigente d’azienda, quotato e garantito, con una moglie ancora soda, due figli paffuti, e forse un’amante esotica tenera tenera, seduto nella sua comoda poltrona, fumando il sigaro mentre lucida le mazze da golf, prevede mai il rischio impazzire.        

 
 
 

PSICOSPRITZ

Post n°41 pubblicato il 14 Aprile 2008 da Il_casellante
 
Tag: Giulio
Foto di Il_casellante

Tre spritz, per cominciare: due coll’Aperol e uno col Campari. Stasera Giulio beve per dimenticare, e, siccome è già sbronzo, non ricorda più cosa. Come Fra Cristoforo nel palazzaccio di don Rodrigo, solleva l’indice al cielo, nell’incipit di un discorso importante, ma non sa più quale. Tanto vale allora, trovandosi col dito all’insù,  che faccia segno al cameriere di riempire di nuovo i bicchieri.  Stasera offre lui. Per festeggiare. Ma non è il suo compleanno. Giulio brinda al sole radioso dell’avvenire. Gloria in cielo, e pace in terra.

-         Che stavo dicendo?

-         Boh

-         Dicevo qualcosa… Non importa. Beviamo.

-         Per dimenticare?

-         Alla salute dei nostri giorni felici! Su i calici! In alto i cuori!

-         Compi gli anni?

-         Quam minimum credula postero.

-         Al ritorno guido io.

-         No.

-         Quanti sono questi?

-         Non sono nato oggi, amico. Questo è il punto.

-         Tre dita. Le vedi? Pollice indice e medio. Vedi il medio?

-         In medio stat virtus.

-         Allora torno a piedi.

Troppo latino, per i miei gusti. Stasera non mi diverto. Avrei preferito restarmene a casa. Invece mi sono lasciato trascinare dall’abitudine: il solito aperitivo tra a amici, in piazza Ariostea. Come alla messa o alle riunioni aziendali, partecipo per senso del dovere. In fondo sono una persona ben integrata, e me la cavo con un sorriso. Sorrido a Giulio. Sono certo ch’è troppo ubriaco per capire. Siamo qua, io, lui, Cesare e Roberto, alle diciannove e quindici del dieci aprile duemileotto,  nel punto esatto in cui saremmo stati altre mille volte. Anzi, a me sembra che siamo qui da sempre: la tranquilla normalità della vita che si ripete fino ad affermarsi, nel pensiero e nel cuore, come la sola vita possibile.  Giulio ha ragione. Non siamo nati oggi. Abbiamo già  consumato il tempo della nostra giovinezza. Coi mezzi che ci hanno concessi l’ingegno e la sorte, abbiamo esplorato il mondo. Giulio ha persino cercato la felicità in Brasile, l’anno che andammo in gita al carnevale di Rio, e lui decise di restare là, tra le tette sode di una ballerina. Storie andate. Binari morti. Adesso giunge l’età di scegliere da che parte stare: selezionare un punto nel quale collocarsi stabilmente, e invecchiare come i vini nella botte: se il mosto è buono, acquistano pieno valore; se fermentano male, inacidiscono. La giovinezza è una stagione avventurosa in cui tutto si tenta per esperimento: giorni rischiosi per grande scoperte. Per esempio l’amore. A sedici anni è un esperimento meraviglioso e pericolosissimo. Anche la vecchiaia, tuttavia, - se dire ‘vecchiaia’ a trentasei anni sembra troppo, dirò ‘la non-giovinezza’ – è una stagione affascinante, e pure assai gravida di pericoli.  Arriva il nostro momento di produrre un modello standard. Ci serve un principio di equilibrio. Non è una semplice questione di sopravvivenza. Dobbiamo assumerci, a trentasei anni, una responsabilità educativa: tirare le somme del mondo che vorremmo lasciare in eredità ai nostri figli, secondo i valori in base ai quali li educheremo. Non è affascinante? Non è, anche questa, un’avventura? Oggi la compagna di Giulio ha fatto il test. Positivo. Giulio l’ha messa incinta. Forse stasera vuole davvero dimenticare. Oppure brinda per festeggiare la sua prossima paternità. Peccato che sia troppo ubriaco per capire. Tra  un paio di giri sarò ubriaco anch’io, sarà ubriaco Roberto, sarà ubriaco Cesare. Mentre fugge la nostra età invidiosa, più o meno alle diciannove e quindici del dieci aprile duemilaotto, nessuno di noi capirà.    

 
 
 

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