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"A LA LANTERNE": UNA SUGGESTIONE PER L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA?

Post n°117 pubblicato il 02 Giugno 2021 da claudionegro50
 

Sta accadendo tutto nello stesso ristretto spazio di tempo: Palamara vuota il sacco; si spacciano tra uffici delle Procure e del CSM dossier coperti da segreto; la funivia provoca una strage e in due giorni il PM ha già incarcerato i colpevoli nel pubblico tripudio, salvo venire smentito dal GIP, nel pubblico avvilimento; un'elefantiaca quanto criticata sentenza di primo grado sull'ILVA colpisce ad alzo zero (perfino il povero Vendola, colpito da fuoco amico) e dispone la chiusura dello stabilimento, in un'apoteosi di giubilo e retorica, e nello sconforto di chi sperava in una Giustizia e non un'esecuzione sommaria; Brusca (collaboratore di giustizia, non "pentito" come giustamente lo definisce Ayala) sconta i suoi 25 anni di pena, determinati dalla legge sui collaboratori voluta da Falcone (cui non sfuggiva che combattere la mafia era diverso da "fare l'antimafia"), e le turbe si indignano e lanciano lai altissimi per l'ingiustizia intollerabile (tollerabile era quella contro Uggeri...).

In fisica una simile concentrazione di fatti potrebbe addirittura portare vicino alla massa critica, che innesca una distruttiva fissione nucleare. Sarebbe troppo bello: il sistema giudiziario non salterà per aria per fenomeni naturali ma quando qualcuno avrà la volontà e la forza politica di farlo.

Ma quel che mi interessa mettere a fuoco è piuttosto il retroterra culturale che fa sì che l'approccio "di popolo" alle vicende giudiziarie sia quello visto sopra. Il sistema giudiziario, già noto al pubblico per inefficienza, lentezza, cavillosità ora mostra anche il suo "dark side" che mette in piazza il fatto che l'ottenere "giustizia" dipenda esclusivamente dall'incocciare un magistrato onesto in un contesto in cui troppi protagonisti perseguono scopi propri, che nulla hanno a che fare con la giustizia.

Eppure la preoccupazione popolare non si appunta su questo aspetto, ma sulla possibilità che vi sia un gap tra attese e sentenze. Il sentimento generalmente rintracciabile non è la ricerca della giustizia, ma della condanna. Del resto la locuzione fare giustizia corrisponde a "Sentenza di condanna, pena, supplizio capitale" (Enciclopedia Treccani). Tanto per constatare quanto radicato sia, perfino a livello linguistico, questo atteggiamento. Che naturalmente porta con sé una ben precisa gamma di effetti collaterali: innanzitutto che il colpevole deve essere subito conosciuto, per vox populi o per vox Publici Magistri (PM); che contro di lui la piazza (anche se solo virtuale) pronunci la condanna; che qualunque ostacolo si frapponga tra la sentenza già emessa e la sua esecuzione, tipo il processo, venga riconosciuta per quella furbesca perdita di tempo che è (© Piercamillo Davigo); infine che la sentenza formale debba essere conforme a quella popolare, senza tanti cavilli..! E' facilissimo riscontrare questa sequenza in praticamente tutti gli eventi giudiziari che hanno avuto risonanza pubblica. Qualche volta sono parenti e amici delle vittime a illustrare la propria verità e a pretendere che la Magistratura si adegui. Più spesso è una pubblica opinione cui è stato consentito, al di là delle naturali propensioni in quel senso, di sentirsi legittimata nel doppio ruolo di vittima e di giudice. La vicenda di Mani Pulite, con la reciproca solidarietà e appoggio militante tra Procure e Girotondi, Popolo dei Fax e quant'altro, ha creato un corto circuito tra quella pubblica opinione e una Magistratura che, stante all'evidenza dei fatti, si riconosce nelle stesse convinzioni.

E' chiaro che l'assetto del sistema giudiziario definito dalla Costituzione più Bella del Mondo si presta egregiamente ad amplificare queste caratteristiche: a partire dalla non separazione tra le carriere della magistratura inquirente e di quella giudicante, dall'Organo di Autogoverno e al principio stesso dell'autogoverno, e infine alla definizione della Giustizia come un "potere" dello Stato, con pari potestà rispetto agli altri due ma col beneficio dell'irresponsabilità, ossia del dover rispondere solo a se stesso. Altro che potere dello Stato: un potere che si legittima da solo è sovraordinato allo Stato, come infatti si può riscontrare...

In questo quadro per le turbe ghiotte di sangue, a torto o a ragione (perché spesso i torti subiti sono di fantasia o non sono torti) "giustizia" è soltanto avere la vendetta cui son convinte di aver diritto. Questa non è né una prerogativa italiana né una novità nella Storia. Tuttavia non è normale che in una democrazia liberale, per la quale i principi di Giustizia e i Diritti Civili dovrebbero essere ovvi, le turbe siano tanto numerose, che il loro punto di vista sia sostenuto da nutrito gruppo di media e di intellettuali che in un paese "normale" dovrebbero fare parte di quelle detestabili elites che solitamente sono le più organiche al pensiero liberale, sensibili ai diritti e consapevoli del significato delle procedure legali. Meno ancora che sia ben radicato nella Magistratura stessa.

E' evidente che questa strana realtà produce un fenomeno abbastanza insolito nell'Occidente democratico: la Giustizia come prosecuzione della Politica con altri mezzi! Il che è evidentemente un pericolo mortale per un sistema democratico, tanto quanto l'influenza dell'Esercito per gli Stati Latino Americani. Ma in aggiunta a questi rischi come dire, di percorso, temo ancor di più una prospettiva in cui, nella prassi se non nella teoria, nelle Istituzioni, a causa di una Politica pavida e opportunista, e nell'amministrazione della Giustizia si affermi di fatto il principio popolare e giustizialista del Processo di Piazza.

Credo che la questione della Giustizia sia il più cupo e spaventoso indicatore della possibilità che il Paese finisca per uscire dal gruppo delle democrazie moderne, più ancora che per ragioni economiche, e sprofondi negli scantinati della civiltà.

 

 

 

 

 
 
 

IL SINDACATO VUOLE GIOCARE LA PARTITA DEL RECOVERY PLAN DI DRAGHI? MA DALLA PARTE DI DRAGHI O CONTRO?

Post n°116 pubblicato il 16 Maggio 2021 da claudionegro50
 

 

L'intervista di Landini al Corriere, al netto del tono generale garbato e dell'assenza di chiusure e minacce di conflitti, conferma (se possibile ancora più chiaramente di quanto potrebbero fare i toni comiziali) i dubbi circa il fatto che il Sindacato sia in sintonia col programma di riforme e innovazioni previsto dal PNRR. Non che, come già detto, si intravedano dichiarazioni di guerra, ma se si analizza l'intervista punto per punto si percepisce una distanza sostanziale rispetto agli obiettivi che il PNRR declina sulle materie che possono essere di competenza sindacale. Vediamoli.

Landini si mostra scettico (non del tutto a torto) circa gli incentivi per chi non licenzia e/o assume ex novo, e chiarisce che questa non può essere l'alternativa al blocco dei licenziamenti, che invece potrà essere dismesso solo a fronte della riforma degli ammortizzatori sociali. Che potrebbe comportare l'azzeramento dei contatori della CIG, e altri importanti interventi di sostegno al reddito. Non una proposta in materia di politiche attive: l'orizzonte si limita al mantenimento dello stato di occupato e di un reddito, per minimo che sia.

Del resto quando Fubini domanda perché non aprire all'apporto di ricollocazione delle Agenzie Private, la risposta è che occorre investire sui Centri Pubblici per l'Impiego perché "il ruolo pubblico è importante per il governo di questi processi". In sostanza ciò che pare interessare non è il merito delle politiche di ricollocazione, ma il fatto che siano gestite da mano pubblica. Aggiunge che il sistema di ammortizzatori sociali che dovrà prendere forma dovrà essere "universale" (non una parola sul finanziamento) e ridurre le forme di lavoro precario, che "sono troppe". Più che ad un nuovo sistema di sostegni al reddito pare guardare ad una sorta di "Testo Unico" del lavoro. Una tentazione palingenetica ostinatamente presente nella cultura sindacale.

Quando Fubini poi scende nel merito di alcune riforme, la distanza rispetto alle scelte operative del PNRR diventano più evidenti. Sulle semplificazioni c'è una disponibilità a "ragionarci" (quindi non c'è una condivisione dell'esigenza) ma con tutta una serie di paletti, tipo il no alla liberalizzazione dei subappalti: la preoccupazione è comprensibile, ma qui non vede altro che il "nulla cambi". Sulla questione chiave della riforma dalla PA, fatti i dovuti salamelecchi ai giovani e ai concorsi, precisa che prima occorre stabilizzare i precari di lungo periodo. A prescindere. E guai a metterli in contrapposizione ai giovani che un lavoro non l'hanno..! Nella scuola poi servono più insegnanti, non meno: inutile l'osservazione di Fubini che gli ricorda che gli studenti caleranno di 1 milione di unità. Siamo davanti ad un altro "a prescindere". Infine l'inevitabile domanda sulle rivendicazioni sindacali circa l'accesso al pensionamento. Alla domanda (che Fubini attribuisce alla Fornero) "chi paga?" la risposta è un'icona della deresponsabilizzazione retorica cui troppo spesso il Sindacato ricorre: "in questo paese ci sono 110 miliardi di evasione fiscale". Il che evidentemente autorizza e legittima ogni altro "buco".

Una posizione, in conclusione, attenta a preservare il sistema di tutele esistente, con nessuna attenzione a chi il lavoro non ce l'ha, a chi lo perde, a chi se lo inventa. Nessuna idea innovativa sul sistema contrattuale. Nessuna idea di riforma per la scuola, che non sia per gli insegnanti precari; diffidenza sulla PA, adesso che gli arretrati contrattuali sono stati pagati. Più spesa per le pensioni: qualcuno nei prossimi anni pagherà...

Io dubito che con queste idee il Sindacato possa davvero essere un soggetto attivo nella attuazione di una riforma epocale come il Recovery Plan. E comunque pone le condizioni oggettive perché nella comune consapevolezza esso assuma il ruolo, pur nobile e importante, della rappresentanza di interessi precisi quanto legittimi (lavoratori della scuola e della PA, pensionati), e non più una rappresentanza di carattere universale, come fu un tempo.

E speriamo almeno che non finisca per aggiungersi alle lobbies che a vario titolo si metteranno di traverso...

 

 
 
 

LA PENSIONE A DEL TURCO E FORMIGONI E I LINCIATORI DEL WEB

Post n°115 pubblicato il 15 Aprile 2021 da claudionegro50
 


So che farò incazzare una serie di miei amici, e magari qualcuno di loro dopo non vorrà più essermi tanto amico, ma intendo manifestare la mia profonda soddisfazione per la decisione della Commissione Contenzioso del Senato di annullare la revoca del vitalizio a Roberto Formigoni.

E questo non perché io sia un supporter di Formigoni, che peraltro stimo per averlo avuto come controparte sempre aperta alle nostre istanze nei miei tanti anni di militanza sindacale e autore di importanti riforme sulle quali ha sempre cercato il dialogo e il confronto con le Parti Sociali (direi "concertazione" ma lui non amava questo termine), ma perché con quella decisione è stata abrogata un'ingiustizia grave.

Ingiustizia innanzitutto sul piano strettamente legale, anche se capisco che alle turbe affamate di circenses e ai cittadini affamati di "giustizia" poco importi se la condanna sentenziata (perché, ovviamente, se non c'è condanna che giustizia è..?) sia stata decisa in modo legittimo e conforme alla Legge oppure no. Infatti la decadenza dal diritto al vitalizio scatta per condanne di mafia o terrorismo, oppure se il condannato è evaso o latitante; non in altri casi, e, guarda un po', questo a seguito di quanto disposto dalla Legge sul Reddito di Cittadinanza partorita dai samurai del giustizialismo: il M5S (la Storia sa essere beffarda..!). Non è questo il caso di Formigoni e qualche altro ex senatore, che perciò, nonostante la foga giustizialista di Grasso e della Boldrini (evidentemente convinta di dover equilibrare la politica dell'accoglienza a tutti con qualche calcio in culo alla casta originata dall'odiosa Prima Repubblica), verranno, secondo giustizia ripristinati nei loro diritti previdenziali.

Diritti previdenziali, appunto, perché questo è per me l'altro (e ancor più importante) motivo di soddisfazione: è opportuno ricordare, a monte del ragionamento che vorrei sviluppare, che la "Pensione" non è un risarcimento per aver lavorato, non è aiuto per chi è vecchio, non è assistenza pagata dallo Stato. E' un'Assicurazione che ciascuno si paga versando contributi durante la vita lavorativa. Lo Stato interviene soltanto a sostenere i casi gravi di chi non ha potuto versare abbastanza contributi nella sua vita (pensioni sociali, integrazioni al minimo). Poter avere la pensione per cui si son pagati i contributi è un diritto ovvio e garantito, un principio generale per cui, per esempio, le Polizze Vita non sono sequestrabili. Solo in fattispecie estreme, quali quelle previste dalla legge appena ricordata, si può perdere il diritto alla pensione maturata.

Ricordo tutto ciò perché sia chiaro che la scelta di privare Formigoni, Del Turco (sul quale poi tornerò) e altri della pensione (per la quale hanno naturalmente pagato i contributi dovuti) non è mai stato un atto di Giustizia, ma una rappresaglia, e la moltitudine che beata acclamava in realtà non voleva giustizia ma Vendetta. Perché la Vendetta è appagante, catartica, non richiede di individuare atti e responsabilità precise, soddisfa odii ideologici, si sposa perfettamente con luoghi comuni, permette di rilassarsi sulle comodità del sentito dire, deresponsabilizza. Esenta dalla fatica del verificare e del prendersi responsabilità. E'uno spettacolo che manda tutti a casa soddisfatti.

Ottaviano del Turco è stato condannato in un processo che fa impallidire per equità e consistenza delle prove quello di Galileo. Qualcuno dei giubilanti per la revoca della pensione lo conosce? Certo che no: gli basta la Condanna! Perché nella condanna di Del Turco si fa scontare alla Casta i privilegi di cui ha goduto. La paradossale e patologica identità di una Paese in cui l'evasione fiscale è vista come un'autodifesa dei cittadini, storicamente ostili allo Stato, scettici verso le istituzioni, che considerano il bene comune un fastidioso ingombro alle proprie personali esigenze, le leggi e le regole ostacoli da aggirare o da usare contro gli avversari. E che, in una dinamica ben nota alla psicologia sociale, identifica una figura aliena cui attribuire tutto ciò per rimuoverlo dalla coscienza collettiva tramite la punizione: appunto la "Casta".

Il che determina un approccio quasi onirico del "popolo indignato" ai problemi autentici del Paese, che vengono sublimati nella gogna dei "Potenti". In tutto ciò la percezione della realtà, il senso critico, la ricerca della verità viene buttato nel ben più facile e gratificante falò della Vendetta.

Una nota speciale per gli indignati che si richiamano alla tradizione e alla cultura della sinistra: la fascinazione per la "giustizia" che si sostituisce alla politica nel dar soddisfazione a progressisti e rivoluzionari tramite indagini e sentenze ha origini antiche ed ignobili, da Saint Just a Vishinskij, ma le gambe cortissime. Quando in qualche modo si accetta che la giustizia possa essere la prosecuzione della politica con altri mezzi, poi si può scoprire che i leader di questa corrente di pensiero dichiarano che i processi sono solo una perdita di tempo, se il PM a seguito delle sue indagini ha accertato la colpevolezza dell'indagato, oppure che si accompagnano con complottisti teorici della cospirazione giudaica internazionale.

Qualcuno pensava evidentemente che vedere scorrere il sangue di Del Turco valesse il prezzo di gettare nel cassonetto il diritto, le libertà, la democrazia: spero vivamente che a questi "assetati di giustizia", in buona o cattiva fede che siano, l'alterna onnipotenza delle umane sorti non consenta mai di guidare il Paese!

 

 
 
 

ALLA RICERCA DEL RIFORMISMO DI LETTA

Post n°114 pubblicato il 27 Marzo 2021 da claudionegro50
 


Il trionfo di Enrico Letta nel PD comincia a degradarsi in una processione tra i vicoli? Molti di quelli (quorum ego) che hanno condiviso la sua nomina come evento di svolta radicale, perfino palingenetico, nella vita del PD, trasaliscono quando sentono che, dopo l'incontro con Giuseppi (che pensavamo dovuto per ragioni di ovvia diplomazia e tattica), l'Enrico lo ha battezzato "l'incontro tra due ex che si sono buttati in una nuova affascinante avventura".

Rispetto al Letta primigenio, che si faceva garante dell'adesione del PD alla mission del governo Draghi, via via si manifesta qualcosa di più (o di diverso?). Naturalmente Letta ha il problema di governare un partito ridotto a pezzetti, privo di autoconsapevolezza e confuso sulla propria identità. E'ovvio che offra una sponda a tutti i pezzetti del Partito, indicando la prospettiva di una riunificazione attorno ad una prospettiva politica condivisa.

Fin qua l'ovvio. Ma Letta ha anche il problema di definire i confini politici e ideologici del PD. Ebbene, forse Enrico ha in mente, legittimamente, qualcosa di diverso da quello che i suoi primi sostenitori (quorum ego) pensavano quando festeggiavano il ritorno del PD da un'esperienza di Fronte Popolare dei Poveri alla casa del riformismo europeo e liberale.

Letta sta evidentemente preparando un Partito che non si libera della sua sinistra, ma che unifica tutte le sue tendenze per farne "la sinistra" dello schieramento politico; tutto sommato è nella tradizione storica delle socialdemocrazie europee, dove però la sinistra era a rimorchio dei riformisti. Da osservatore esterno è facile notare che agli entusiasmi euroriformisti dei primi giorni sono sopravvenute aperture ai malpancisti (specie protetta nel PD) inaspettate e non richieste, come il voto a 16 anni, ius soli, puzza sotto il naso per il condono. Delle riforme è diventata labile la traccia: non che sia necessario rievocarle tutti i giorni, ma qualcuno continua a pensare che siano queste e non altre le ragion d'essere del PD.

Comunque: immaginiamo un PD monolitico, che sviluppa, anche in vista di una elezione a carattere maggioritario una sua politica di alleanze. Quali alleanze? Finora Enrico ci ha indicato con una certa enfasi la Corte dei Miracoli di cui Giuseppi sta per incoronarsi sovrano. Siccome tra le molte cose condivisibili che ha pronunciato Enrico c'è la preferenza per un sistema elettorale di tipo maggioritario, è naturale che si ponga il problema di una politica di alleanze, e il M5S inevitabilmente, almeno nel medio-breve periodo ne farà parte. Meno naturale pare l'approccio vagamente distratto e forse un pochino annoiato con cui si rapporta, almeno per quanto appare in questi giorni, con la "destra" della sua coalizione elettorale. Forse Letta pensa che naturaliter i Calenda, Cottarelli, Bentivogli, Bonino, Renzi (chissà: i toscani tendono a portare rancore...) siano dalla sua parte. Il che dal punto di vista della cultura, dell'analisi della realtà, del "che fare" è molto probabilmente vero, ma non è sufficiente a dare per scontato che l'area riformista fuori dal PD debba sentirsi rappresentata da Letta e quindi disponibile a fargli da intendenza. Tanto più se Enrico tende a mettere tra parentesi Draghi e enfatizzare il futuro con Conte.

Cito due cose che a me, lettiano antemarcia, provocano molti dubbi.

Nel suo discorso d'investitura Enrico ha citato tutto il pantheon del cattolicesimo sociale, nessun altro. Chi è consapevole dello scorrere della Storia può cogliere e magari anche apprezzare l'orgogliosa rivendicazione della affermazione dell'eredità del Partito Popolare su quella togliattian-berlingueriana. Ma oggi il riformismo non è più neanche quello di Turati e Olof Palme. Fermo restando il diritto di ciascuno alla propria eredità culturale, dal Segretario del PD ("Non un nuovo segretario, ma un nuovo Partito!") mi attenderei l'indicazione di un riformismo liberal democratico, pragmatico e pluralista. Poi ognuno potrebbe trovarci dentro i propri padri nobili. Magari pochi la pensano come me, ma avevamo desiderato di non morire democristiani!

Un mezzo passo falso, ma potenzialmente ricco di successivi problemi, è quello della dichiarazione che "non siamo il Partito delle ZTL". Giusto: siamo bensì il Partito di..?

Appunto: acquisito che al Nord gli operai e i piccoli imprenditori, commercianti, ecc. votano la Lega, che al Sud i bisognosi di assistenza votano la Meloni, l'elettorato "certo" del PD è costituito essenzialmente dai pubblici dipendenti e dai pensionati. C'è però un qualcosa in più, che fa sì che per esempio nella Lombardia governata da quasi trent'anni dal centro destra le città maggiori (Brescia, Bergamo, Varese, la stessa Milano) votino a sinistra. Non si tratterà, oibò, del famigerato fattore ZTL? Credo di sì, ma ZTL non allude a una cerchia di upper class: ZTL (che poi risiedono dappertutto, preferibilmente vicino ai loro simili) sono coloro, in gran parte giovani, che vogliono poter accedere ad opportunità più che a protezioni, che cercano innovazione e non la subordinano alla sicurezza, che son disposti a mettersi in gioco, che chiedono di essere messi in condizione di intraprendere sulla propria professionalità o sui propri progetti. Sono coloro che forniscono servizi alle imprese, sono il ceto medio professionale che fornisce know how e soluzioni al sistema sia privato che pubblico. Tutta gente che fattura il proprio lavoro e, legittimamente, non gradisce di essere qualificata di rentier o di evasore fiscale by appointment.

Non è la classe operaia? Ahimè, ciò che ne resta è del tutto disinteressata al ruolo palingenetico che le Scritture la attribuivano, e si divide, anche in base all'età, tra la difesa ad oltranza delle tutele (in primis la pensione) e la voglia di partecipare ai processi di innovazione e crescere in professionalità e retribuzione. Io credo che a questo pezzo di classe operaia il PD dovrebbe parlare con proposte ed opere, e non dovrebbe avere bisogno del Sindacato per fare da interprete.

E gli "ultimi"? Moltissimi dicono di interessarsene, a colpi di assistenza. Che nell'immediato è inevitabile, ma alla lunga diventa un una rendita e un business elettorale. Il che del resto è un lascito delle politiche democristian-consociative della Prima Repubblica, forse l'unico sopravvissuto e abbracciato con entusiasmo dai parvenues. Sarebbe opportuno dire che per il PD il problema degli ultimi si risolve con l'istruzione, la formazione, le politiche per l'occupazione, e che l'assistenza ha senso se è mirata, non se è un diritto al reddito generalizzato.

Dice: ma questo che vai tratteggiando è una politica liberaldemocratica; poco a che fare con l'orizzonte culturale di un Partito che sembra ammiccare (forse al di là delle intenzioni soggettive) alla creazione di un soggetto politico finora mitico: il Compromesso Storico Realizzato. Non esageriamo col liberal democratico, ma un poco è vero: contavo che, al netto delle indiscutibili esigenze tattiche, il compagno Letta portasse nel PD il riformismo laico, empirico, liberale nelle istituzioni e socialdemocratico (in mancanza di una definizione più attuale) nella società. Diamo tempo (un po'...) a Letta: magari torna a focalizzare la propria politica sulle riforme e non su Conte.

Altrimenti? Prenderemo atto che il riformismo liberal democratico in Italia non si chiama Letta ma Draghi..?

 

 

 
 
 

COSA RISPONDE IL SINDACATO A DRAGHI?

Post n°113 pubblicato il 22 Marzo 2021 da claudionegro50
 

 

Draghi ha mostrato verso il Sindacato tutta l'attenzione e la considerazione di cui si è molto lamentata l'assenza all'epoca degli ultimi governi: un'attenzione non formale (ricordo accordi interconfederali con Berlusconi e D'Alema ricchissimi esteticamente, del tutto privi di effetti concreti) ma tutta giocata sul terreno dei problemi e delle loro soluzioni. Basti pensare all'accordo per la riforma della Pubblica Amministrazione, nel quale Draghi e Brunetta si sono pure spesi un aumento retributivo non "dovuto" e senza aver preteso prima di vedere le contropartite (apertura di credito mai vista: speriamo venga apprezzata e non presa per dabbenaggine...). O all'apertura del tavolo per la riforma globale degli Ammortizzatori Sociali. O all'adesione alla richiesta di prolungare quasi per tutto il 2021 il divieto di licenziamento. E, anche se non viene direttamente dal Governo ma dal suo socio di riferimento, alla proposta di Letta per la partecipazione dei lavoratori nelle imprese.

Mi domando se il Sindacato abbia colto la portata della novità, o se la consideri un gesto di bon ton. L'apertura del Governo significa: voglio discutere con voi per decidere. Non ho colto nelle reazioni sindacali, se non per l'apertura di Sbarra all'ipotesi di Letta, questa consapevolezza. In generale il tono delle dichiarazioni sindacali non è mutato rispetto a quello retorico, roboante, assertivo che ha caratterizzato il commento sindacale dei governi Conte. Finiti i sobri apprezzamenti per l'intesa sulla P.A. abbiamo registrato il ritorno alla solita comunicazione fatta essenzialmente di slogan: sembra che interessi di più tenere all'erta la base in uno stato di perenne pre mobilitazione, piuttosto che entrare nel merito delle questioni per risolverle. Emblematica la spettacolare dichiarazione di Landini "i lavoratori vanno vaccinati, non licenziati", grondante truculenta retorica peraltro per nulla connessa a quel che è oggi pare essere il vulnus imputato a Draghi: il condono fiscale. Da questo punto di vista è più coerente la UIL, che non esce dal tema fiscale ma, già che c'è, si porta avanti sempre in tema fiscale e pare ventilare, per la riforma, aliquote distinte per pensionati e dipendenti e gli altri contribuenti, con spregio del pericolo e della Costituzione.

Quel che accomuna le tre Organizzazioni sul giudizio circa il Decreto Sostegni, incassato come fosse dovuto il prolungamento della CIG e del divieto di licenziamento per il 2021, e senza formulare la minima proposta per il "dopo", è la drastica denuncia del "condono": "Il messaggio politico che ha dato questo governo resta quello di voler elargire un premio a chi non ha pagato le tasse" sentenzia Bombardieri. Né questo drastico giudizio viene scalfito da tutte le considerazioni e i conti che dimostrano come il 90% di quei debiti fiscali siano inesigibili perché riconducibili a soggetti morti, falliti, insolvibili, ecc. D'altra parte, il principio di capacità contributiva, stabilito dalla Costituzione, esige che questa esista al momento di pagare il tributo. La richiesta di pagare adesso ciò che il fisco doveva richiedere dieci anni fa comporta il riferimento a una capacità contributiva che può non esserci più. Del resto si tratta di piccoli debiti (bolli dell'auto, multe, ecc.) non certo di grandi evasori. Ma ciò non interessa al Sindacato: ciò che si pretendeva era il marchio d'infamia formale (che poi i soldi si recuperassero o no poco interessava). E questo metro di misura è ormai sempre più utilizzato: declamare questioni di principio atte a suscitare facile condivisione, evitare di fare concertazione vera, in cui qualcosa bisogna mollare e qualcuno viene inevitabilmente scontentato. Vedremo come andrà per la P.A., mentre stiamo registrando spazientimenti per il PNNR, per il quale peraltro, salvo qualche sparata rivendicativa, ancora non si registra un contributo serio di proposte.

Se il Sindacato non cambia atteggiamento e approccio è forte il rischio che perda quest'occasione per diventare coprotagonista di una svolta storica del Paese. E potrebbe essere l'ultima...

 

 

 
 
 

LE FOIBE: LA STORIA COME "SPIEGAZIONE"

Post n°112 pubblicato il 17 Febbraio 2021 da claudionegro50
 

Vorrei fare chiarezza circa quel che penso a proposito della Giornata della Memoria delle Foibe, perché ho avuto parecchie discussioni con persone che considero amici e dei quali ho stima sul piano politico. Il casus belli è stato la copiosa raccolta e citazione di documentazione (ineccepibile) circa le malefatte dei reparti Italiani ai danni della popolazione slovena, civile e no. Informazione giusta sul piano storico ed etico. Nessun desiderio di contestarla, anzi dovrebbe diventare più di comune dominio di quanto già sia. Ciò detto, sul piano dell'oggettività storica, scendiamo al piano dell'utilizzo politico che si fa dell'oggettività storica.

Non ovviamente nel senso che la verità storica vada ripulita a seconda dell'uso che se ne vuol fare, ma nel senso che venga utilizzata per fare propaganda finalizzata a scelte politiche che han bisogno di consenso ideologico, o a creare una giustificazione per azioni in sé poco accettabili.

E' poi anche vero che nella storia c'è un intreccio inestricabile di causa-effetto per tutto ciò che accade; ma sospendere un giudizio etico e politico su qualsiasi fatto invocando la giustificazione che è stato causato da qualche fatto precedente potrebbe portare alla negazione di un giudizio ragionevole su tutto ciò che accade. In fondo il nazismo nacque in gran parte come reazione nazional-patriottica alla conclamata ingiustizia dei Trattati di Versailles; i Lettoni, i Lituani, gli Ucraini che hanno accompagnato l'avanzata della Wehrmacht in URSS hanno compiuto stragi orribili, per vendicare quelle compiute dai bolscevichi negli anni '20 durante la conquista da parte dell'Armata Rossa dei loro Paesi.

Mi sembra che in parte questo sia anche il nostro caso: le stragi titine sono state indubbiamente anche una reazione ai crimini di guerra italiani, ma a dir la verità anche croati (vedi Ante Pavelic) molto meno enfatizzati forse perché Tito era appunto Croato e quindi non era opportuno identificare una responsabilità nazional-collettiva come per gli Italiani. Perché questo è l'aspetto più difficile da comprendere e giustificare dei massacri delle foibe: poco da dire se avessero impiccato gli ufficiali e chiuso nei gulag le camice nere e, al limite, i militari in genere, e se arrivando in Friuli e Venezia Giulia avessero fatto piazza pulita dei notabili fascisti. Ma nelle foibe finirono soprattutto persone colpevoli di essere soltanto italiane, definite per comodità collettivamente "fascisti": oggi la chiamiamo pulizia etnica e ci fa orrore. Se la fanno i Serbi in Bosnia e Kossovo li bombardiamo (giustamente) e li mandiamo come criminali di guerra al Tribunale dell'Aja. Se lo fa Tito nel '45 invece si trova la giustificazione, reale ma forse strumentale se la posta in gioco è in realtà l'espansione territoriale.

Però funziona egregiamente: il PCI per decenni additò gli esuli giuliano-dalmati come fascisti al pubblico ludibrio; negli anni '40 i treni che li portavano in Italia, venivano presi a sassate, i valorosi ferrovieri della CGIL facevano ginnastica antifascista bloccando i treni in stazioncine deserte, mentre i bravi cittadini vendicavano Marzabotto buttando nei fossi il latte preparato per i bambini. I Partigiani del PCI davano una mano ai colleghi Titini assassinando a Porzǔs i Partigiani contrari a consegnare il Friuli ai comunisti Jugoslavi.

Tutto passato? A giudicare da quel che leggo sui social, mica tanto: chiedo scusa ai miei amici e compagni che si sentiranno chiamati in causa, ma il fatto che per l'appunto ad ogni post che commemora le foibe e il dramma giuliano-dalmata si risponda con una (ineccepibile) documentazione sui crimini italiani in Slovenia non pare avere l'intento di ribadire una verità storica quanto di fornire un giustificazione; e non vale argomentare che non si tratta di giustificare ma di spiegare: qualsiasi cosa ha la sua spiegazione, come detto sopra, che però non esenta da un giudizio.

Se poi tanta indignazione per i nostri crimini si accompagna al totale silenzio circa il fatto che la maggioranza degli assassinati fossero civili vittime di pulizia etnica e circa l'atteggiamento ostile tenuto dal PCI, sorge il dubbio che più delle ricerca della verità storica si tenti una lettura della storia alla luce di una verità "data", che ha alla sua base le certezze elargite dal "socialismo scientifico", per cui, parafrasando il vecchio Richelieu, "chi ha fatto quel che ha fatto lo ha fatto perché lo prevede il socialismo scientifico". Teorema utile universalmente, perché non soltanto "spiega" le ragioni di Tito ma anche quelle di Stalin, quindi dalle Foibe alle fosse di Katyn al massacro dei Kulaky al genocidio dei Tatari di Crimea ecc.

Mi scusi chi non la pensa così (non lo infoiberò...) ma anche se Mussolini e Tito non sono sullo stesso piano (quanto meno Mussolini aveva cominciato lui!) nessuno dei due merita che la democrazia liberale lo giustifichi, anche se necessariamente deve conoscerne i perché e i percome.

 

 

 

 

 
 
 

CONTE O IL NEXT GENERATION? LA CAPACITA' DI FAR POLITICA STA NELLA RISPOSTA.

Post n°111 pubblicato il 31 Gennaio 2021 da claudionegro50
 

La Politica, contrariamente a quel che pensa una vasta parte dell'elettorato, è il mestiere di governare la cosa pubblica operando le scelte più opportune in relazione agli obiettivi che si intende perseguire. Richiede molta professionalità, competenza tecnica e anche un po' di talento. Non è affatto a disposizione del primo che passa, come insegna l'esperienza a partire da Masaniello per arrivare a Conte e ai 5 Stelle; come qualunque altro mestiere complesso, dal neurochirurgo al fisico nucleare al direttore d'orchestra. Perché è falso che 1 vale 1, se non sul piano dei diritti democratici, e che una cuoca può dirigere lo Stato (infatti Lenin, che pur lo proclamava, non glielo ha mai fatto fare).

Su questa base vorrei fare una riflessione che mi sembra inevitabile a proposito del non esaltante recital offerto dalla crisi di governo: prescindendo per un attimo sulle questioni di merito (sulle quali comunque ha ragione) Renzi dimostra di essere l'unico (almeno finora manifestatosi) protagonista della politica ad avere la professionalità, le competenze e il talento per il "mestiere della politica", dal quale nessun riformatore o uomo di Stato può prescindere.

Attaccato da destra e da sinistra per avere aperto una crisi "incomprensibile" (temo che chi la pensa così non comprenda molte, troppe altre cose; o che si trovi a suo agio nella pace del luogo comune, come il fagiolo nel suo baccello - avrebbero detto Stanlio e Ollio); affondato nell'indice dei like mentre Conte veniva investito del lauro di "politico più popolare d'Italia" e fatto oggetto di venerazione che manco il suo guru Padre Pio; ostracizzato da quasi tutto il PD, i 5 Stelle e i suoi vecchi compagni di LEU (accidenti, avessero ancora avuto Berija e Vyshinkij...); fatto oggetto di solenne e unanime interdetto (mai più con Renzi!); dato per morto dai dilettanti che abitano le Istituzioni e i Partiti, Renzi ha mostrato come si fa il "mestiere" della Politica.

Svaniti gli ostracismi, gli interdetti, le esecrazioni, oggi Renzi è diventato indispensabile; da paria si è trasformato in interlocutore col quale concordare una strategia di governo. Ma il bello è che oltre a rendere manifesta l'inadeguatezza professionale e tecnica dei sedicenti protagonisti della politica, Renzi ha riportato la crisi di governo esattamente sul terreno che aveva scelto: quello dei contenuti e dei programmi. Sicchè oggi ci troviamo con Italia Viva che subordina il suo consenso al futuro governo a un programma preciso di riforme e di uso dei Fondi Europei, nonché delle competenze per gestirli, mentre gli altri pongono come condizione che l'avv. Conte faccia il premier. Immagine che rende plasticamente la differenza tra chi fa politica e chi crede soltanto di farla.

 

 
 
 

LETTERA APERTA ALLA UIL SULLA VERTENZA PENSIONI

Post n°110 pubblicato il 19 Gennaio 2020 da claudionegro50
 

 

Da un po' di tempo, diciamo dall'inizio della campagna di mobilitazione del Sindacato Confederale per quella che una volta avremmo definito una "Vertenza Pensionati" ho voglia di fare qualche puntualizzazione in merito. Il Report ISTAT appena uscito su "Le condizioni di vita dei pensionati" mi fornisce l'occasione sia per la ricchezza della documentazione sia per l'uso maldestro che ne stanno facendo i Sindacati.

Retoricamente in questo articolo mi rivolgerò al Sindacato nel quale ho speso una vita (la UIL) e ai suoi attuali dirigenti. Non che agli altri debbano essere contestate cose diverse... Diciamo che parlare alla UIL è una questione sentimentale!

Dice Barbagallo che "Aumentare le pensioni non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di efficienza economica". Certo: e anche aumentare tutte le retribuzioni, e diminuire le imposte, e la gratuità dei servizi pubblici, ecc. Purtroppo non basta la volontà politica, ma occorrono le risorse e il versetto della lotta all'evasione fiscale non basta; e comunque occorre prima recuperare l'evasione e solo poi usare le risorse: se no si lavora a debito, come infatti si è sempre fatto!

E' opportuno ribadire un principio: la pensione non è pubblica assistenza, o un risarcimento per avere lavorato: è un'assicurazione sulla vecchiaia che ciascuno si finanzia nella propria vita lavorativa, e sulla quale lo Stato esercita una garanzia. Se uno non paga i contributi, o ne paga pochi, non avrà pensione, o ne avrà poca. In casi del genere interviene lo Stato tramite l'Assistenza, con strumenti quali la Pensione Sociale. Non va dimenticato che la spesa assistenziale previdenziale è a carico della fiscalità generale: quindi la paga chi, dopo aver pagato i contributi per una vita, paga ancora le tasse sulla propria pensione per dare la pensione sociale a chi i contributi non li ha pagati. Detto così sembra un po' ruvido, e in effetti è un po' schematico; però questa è la sostanza, al netto di tutti i discorsi sulla solidarietà ecc. Più del 9% della spesa pensionistica (che equivale al 16,6% del PIL) non è coperta dai contributi dei lavoratori ma dalle tasse pagate dai lavoratori stessi e dai pensionati.

Allora: a chi facciamo pagare questi aumenti delle pensioni? Dai contributi di chi lavora? Dalle tasse che paga chi lavora e di chi si è guadagnato la pensione?

Aggiunge Barbagallo che i pensionati italiani pagano troppe tasse: non è vero. Pagano come tutti i percettori di reddito in Italia. Dice: in Germania si paga meno. Vero, ma in Germania la pensione pubblica è molto inferiore alla nostra (media poco superiore ai 800€ al mese) e tutti se ne fanno una o più integrative a spese loro. Inoltre in Germania i contributi previdenziali sono tassati, mentre da noi sono esenti. Sicuri che sia un regime più favorevole?

Poi c'è la geremiade della svalutazione delle pensioni: peccato che dal 2000 al 2018 le rendite pensionistiche siano aumentate in termini nominali del 70% (perchè negli ultimi 18 anni i lavoratori andati in pensione avevano migliori contribuzioni versate) e le retribuzioni soltanto del 40%. Il che dovrebbe preoccupare un poco un sindacato "del Lavoro". Tanto più nel caso della UIL in cui (per ragioni che conoscono gli addetti ai lavori ma che qui non citeremo) al contrario delle altre due Confederazioni i non sono la maggioranza degli iscritti...

Temo sfugga, al proposito, un altro elemento che non andrebbe dimenticato: la rivendicazione di agganciare le pensioni al costo della vita, oltre a produrre risultati risibili ma ineccepibili come il famoso "aumento del cazzo" di quest'anno, è sbagliata in sé. Poichè nel regime previdenziale a ripartizione le pensioni si pagano coi contributi di chi lavora, l'aggancio dovrebbe essere con l'andamento delle retribuzioni, oppure si rischia uno sbilancio verso l'entrate o verso le uscite, a seconda dell'andamento dell'economia. Difficile da spiegare in assemblea, ma purtroppo duramente reale! Agganciare le pensioni a tutt'e gli indicatori, come pure è stato quando non si negava nulla a nessuno, è realistico quanto sperare che la SPAL (che io peraltro amo molto fin dai tempi di Massei)) vinca lo scudetto...

Ma resta la questione della povertà delle rendite pensionistiche. Anche in questo caso l'ISTAT fa giustizia del "si dice": la media delle pensioni IVS (Invalidità, Vecchiaia, Superstiti) è di 15.000€ annui, 17.634 se consideriamo solo le pensioni di vecchiaia (o anticipate); siccome però il 33% dei pensionati ha più di una sola pensione (tipico il caso delle donne che hanno la propria pensione e la pensione superstiti) la media sale a oltre 20.000 € con una punta di 21.603 € nel caso di pensione di vecchiaia e oltre 18.000 per le pensioni superstiti.

Un altro dato da non trascurare è quello relativo ai redditi netti equivalenti delle famiglie, che tiene conto non soltanto delle entrate da pensione e da lavoro al netto delle imposte, ma anche altre provvidenze, esenzioni e agevolazioni di cui beneficiano principalmente i pensionati, nonché dalla possibilità di sommare rendita pensionistica e reddito da lavoro che tiene conto dell'effetto delle economie di scala e rende direttamente confrontabili i livelli di reddito di famiglie diversamente composte: il reddito medio netto equivalente delle famiglie ove siano presenti pensionati è pari a 20.646 € annui contro i 18.900 delle famiglie dove non siano presenti pensionati.

Si dirà che queste sono medie del pollo. Ovviamente tutte le medie hanno un po' questa caratteristica, appunto perchè sono medie. In questo caso però la caratteristica avicola non stravolge il senso del dato: se torniamo al parametro del reddito netto e trascuriamo l'equivalenza, quindi per esempio il numero dei componenti la famiglia, vediamo che la metà delle famiglie in cui vi sono pensionati ha un reddito superiore a 24.780 € annui. E infatti il "rischio povertà" per queste famiglie è inferiore al 16% contro il 24% delle famiglie senza entrate pensionistiche.

Dopodichè esistono, certamente, i pensionati poveri: il 20% dei percettori di redditi pensionistici (quindi anche sommando pensioni diverse) arriva solo a 7.400 € annui (9.000 al Nord). Il 20% superiore arriva a 13.200. Dunque in termini statistici potremmo dire che il 40% dei pensionati ha redditi pensionistici che li collocano sotto la soglia di povertà. Ma, per andare oltre il dato statistico, quanti di questi redditi pensionistici bassi vanno a sommarsi a redditi da lavoro, e quanti si integrano in un reddito familiare, come visto sopra? Una rilevazione precisa non l'abbiamo, ma si può azzardare un'ipotesi: soltanto il 27,4% dei pensionati vive da solo. Dunque è molto probabile che una buona parte di questi pensionati "poveri" viva in un contesto familiare con altri redditi. Comunque si tratta di pensioni sociali, quindi non coperte da contributi, o di pensioni basse per insufficiente contribuzione. Al netto dei perchè dell'insufficiente contribuzione (discontinuità lavorativa, ma anche lavoro in nero, evasione contributiva, ecc.) è logico sostenere che in queste situazioni debba intervenire l'assistenza, a carico della fiscalità generale. Non si tratta però di aumentare la pensione a queste persone, ma di attribuirgli un sussidio assistenziale (REI, RdC, ecc.). Ma coloro che rientrano nel successivo 60% dei renditi pensionistici, e che statisticamente vanno da 1.000 € al mese in su, e mediamente prendono 20.017 € annui, perchè dovrebbero a ragion veduta rivendicare un aumento delle pensioni? Per le mancate rivalutazioni? Hanno prodotto effetti molto marginali, perchè l'inflazione in questi anni è stata bassissima (infatti non appena la rivalutazione al costo della vita è stata riattivata ha prodotto risultati risibili) e se ha prodotto effetti concreti lo ha fatto, assieme alle trattenute "di solidarietà", per i rendimenti pensionistici più alti, che in effetti sarebbero gli unici a potersi legittimamente lamentare ma, come è chiaro, non sono al centro delle preoccupazioni del Sindacato.

In realtà la rivendicazione di aumento delle pensioni, al netto di quelli che potrebbero essere gli interventi assistenziali a favore dei più deboli, non è fondata su nessun titolo: gli attuali pensionati hanno rendite pensionistiche ancora in toto o in buona parte basata sul sistema retributivo, e quindi le loro rendite non sono commisurate ai contributi versati, e nei casi di maggiore anzianità addirittura li superano. 1539 € per 13 mensilità (media rendita pensionistiche vecchiaia) sono pochi? Certo, ma non troppo distanti dai 1991 dei lavoratori in attività. Poichè, come detto, l'ammontare delle pensioni (non delle prestazioni assistenziali, concetto che il Sindacato richiama continuamente) non si determina per legge ma in funzione dei contributi in entrata, l'unico modo reale e non demagogico di aumentare le prestazioni pensionistiche è quello di aumentare le retribuzioni dei lavoratori in attività, e quindi i contributi versati. Il resto è propaganda!

C'è un'affermazione, abbastanza veritiera, che va in giro: le pensioni dei nonni rappresentano il welfare per i nipoti. E se invece di chiedere di più per i nonni chiedessimo di spendere di più per i giovani?

 

 
 
 

LA MALEDIZIONE DELLA BOLOGNINA

Post n°109 pubblicato il 15 Gennaio 2020 da claudionegro50
 

Quando la storia si ripete da tragedia scade in farsa, e va bene; ma quando continua imperterrita a ripetersi rompe anche un po' le palle!

E', mi sembra, il caso dell'ennesima rigenerazione del maggior Partito della sinistra italiana (la quarta, se non ho contato male) eternamente ondivagante tra fascinazione del compromesso storico e riformismo, tra macerazione nei dubbi del post comunismo e barlumi di coscienza che società e politica sono cambiate.

Peraltro l'ennesimo cambio di pelle, nome copertina è preceduto da presagi inquietanti: l'endorsement di Occhetto è temibile, e anche il presunto nuovo nome, che evoca il deludente esperimento di Prodi - Parisi appunto con la sigla "I Democratici" (e tanto di asinello nel logo): anche lì c'era l'obiettivo di coagulare politici, sindaci, movimenti, ma gli esiti furono assai poco spettacolari: non si raggiunse l'8% alle Europee del 1999! Strano che Zingaretti non se ne sia ricordato, o forse è coraggioso e non teme la sfiga. Però il nome più la benedizione di Occhetto costituiscono davvero un presagio sinistro..!

Ma il punto che mi sembra davvero complicato è dar risposta alla semplice domanda: ma perchè un Partito nuovo (anzi, neanche un Partito, ma una Cosa, per ora: siamo già alla Cosa 3...)? L'ansia di novità si riferisce al nome, al logo, all'immagine? Particolari marginali, ovviamente. In realtà quel che sembra di capire è che ci sia una gran voglia di chiudere con il Partito Democratico come si era concretizzato nelle premesse ideologiche di Veltroni e nella pratica politica di Renzi.

Dalle aspirazioni della Cosa3sembra scomparsa la vocazione maggioritaria a tutto vantaggio di un ritorno all'assetto istituzionale ed elettorale della Prima Repubblica. Si percepisce (e spesso si ascolta esplicitamente) un desiderio di tornare alle vecchie regole per il mercato del lavoro, per la scuola, un forte desiderio di partecipazioni statali e di assistenza, di centralismo amministrativo e fiscale, di tornare a essere il Partito dei PM e del moralismo, in definitiva di riaggregare tutto ciò che si definisce "di sinistra" e anticapitalista.

La recente riapertura del dibattito su Craxi, da cui emerge con sempre maggiore chiarezza che lo scontro con Berlinguer non fu sul terreno della moralità ma su quello del confronto tra un riformismo aperto alle nuove realtà sociali ed economiche e una visione ingessata nella tradizione comunista delle relazioni sociali ed economiche, potrebbe aver avuto l'effetto di accelerare il processo di "ritorno a casa" nei quadri del PD che si identificano più con Berlinguer che con Craxi: significativo in proposito il fatto che Renzi, nel TG Dossier andato in onda qualche giorno fa, abbia riconosciuto a Craxi il merito di aver rotto con la tradizione della sinistra, subalterna culturalmente al PCI, e di aver reintrodotto il riformismo sulla scena politica italiana.

E' noto che Renzi provoca gravi sfoghi cutanei ai dirigenti della "Ditta", e un Renzi craxista sta alla Ditta come l'aglio al vampiro.

Sicchè si torna indietro: alle spalle un futurio glorioso. Si intravede l'immagine paterna ma rigorosa di Cernienko spuntare, come sole dell'avvenire, a sovrastare l'immaginaria tribuna cui è assisa la nomenklatura, del "nuovo" Partito: Zingaretti, ovviamente, ma tutto il vecchio Politburo, nonché i giovani "membri candidati": Speranza, Orlando, Barca, Fassina, ecc. Però la Cosa3 non sarà una conventicola settaria, ma un cantiere aperto a chiunque voglia battersi per la fuoruscita dal capitalismo e con una vocazione internazionale: Landini, Di Battista, Paragone, Cremaschi, Ken Loach, Noam Chomsky, ecc.; e naturalmente per chiunque voglia percorrere la via giudiziaria al socialismo: Davigo, Ingroia, Travaglio, Rosy Bindi, ecc.

Chissà, magari sarà meglio così: se c'è ancora una sinistra pre o anti riformista è giusto e onesto che si manifesti, almeno avremo più chiarezza. Spiace un po' a chi, come me, ha davvero creduto che il disastro della "gioiosa macchina da guerra" potesse essere il crogiolo di un soggetto nuovo, laico, riformatore. Mi aveva illuso D'Alema ai tempi della Presidenza del Consiglio, mi aveva convinto Veltroni nel 2007. Prendo atto: con la nomenklatura che si profila alla guida della Cosa3 e con le loro idee non ho nulla in comune. A sapere che dalla Bolognina si tornava alla Bolognina magari facevo altro...

Auguri e solidarietà umana a chi nel PD deciderà di restare senza condividere la svolta: ai Marcucci, ai Guerino, ai Gori, agli studiosi, economisti, giuslavoristi che sono stati il motore del PD quando rappresentava il Riformismo, e che continuerò ad apprezzare e stimare.

 

 

 
 
 

OK Greta. Ma in Svezia ci torna in barca a vela o in aereo?

Post n°108 pubblicato il 26 Settembre 2019 da claudionegro50

 

Nel nuovo culto di Greta Thundberg vi sono aspetti che trovo francamente fastidiosi, come sempre quando un fenomeno umano mobilita un'empatia di massa, di quelle senza se e senza ma. Del resto anche Giovanna d'Arco ogni tanto faceva girare le palle ai contemporanei. Trovo insopportabile il tono profetico (nel senso dei Profeti Professionisti) con cui Greta scaglia maledizioni e intemerate ai suoi interlocutori diretti e/o agli adulti in genere, a nome di una Gioventù Universale, linda di peccato, redentrice e perchè no vindice: la Crociata dei Fanciulli?

Noto con fastidio che il culto sta generando, come tutti i culti, liturgie di massa: lo sciopero generale degli studenti. In sé niente di male, anzi... Come nota Gramellini sul Corriere, meglio la sensibilità ambientale piuttosto che la giustizia proletaria come ideale di riferimento. Ma lo sciopero internazionale attrae come il miele le mosche, e così i Sindacati di Base si scoprono un'anima ambientalista (ma solo il venerdi, attenzione): mancava da un po' un nobile ideale per il week end strike. Del resto nella sinistra-sinistra (o sedicente tale) l'intercambiabilità dell'antagonismo anticapitalista con l'ambientalismo anticonsumistico è pratica da tempo sperimentata!

Si sta mettendo in moto una cosa enorme, in parte movimento spontaneo e in parte baraccone. Domanda: ma Greta fa tutto da sola o ha dietro qualcuno? Giovanna d'Arco aveva dietro il Signore, qui potrebbe essere anche qualcosa di meno, ma le relazioni internazionali di Greta, i suoi viaggi, i suoi incontri, a meno che sia anche lei Santa, sono opera di qualcuno che sa muoversi. E non ci sarebbe niente di male: lo scopo è legittimo, perfino lodevole, ma allora perchè non dirlo e invece creare un personaggio mitologico? Non c'è chiarezza, non c'è trasparenza. Diciamo che gli strateghi di questo spettacolare sussulto planetario hanno scelto la via dell'emozionalità delle masse (tanti esempi nella storia recente...) piuttosto che quella della divulgazione scientifica per convincere il pubblico.

Un'idea geniale per battere i negazionisti alla Trump? Se è così non è trovata male: Greta è molto più simpatica di Trump, e può avere molto più consenso di lui sul piano dell'emotività collettiva.

Ma la dottrina che propone la Chiesa di Greta è potabile?

Secondo me nei suoi fondamentali sì: esiste un problema oggettivo di riscaldamento del pianeta; è vero che è sempre esistito il ciclo di riscaldamento-congelamento del pianeta, e non ci si può fare nulla. Se però le emissioni di CO2 affrettano il riscaldamento rispetto al suo ciclo naturale forse sarebbe opportuno limitarle e guadagnare qualche millennio di tempo (ma senza isterismi: la temperatura dal neolitico al medio evo è stata più alta di oggi, permettendo di fatto l'evoluzione dell'umanità). Del resto l'umanità si sta rivelando estremamente sensibile ad emergenze ambientali che può facilmente verificare e su cui può concretamente intervenire ciascuno, come quello della dispersione della plastica. Le cose quindi possono essere fatte, con l'inevitabile gradualità: la mobilità elettrica, le energie rinnovabili, le infrastrutture ecocompatibili.

Ma nella dottrina della Chiesa di Greta sono implicite indicazioni che vengono esplicitate da seguaci ed imitatori (le più note sono ragazze del Nord-Europa) e che mettono in chiaro che per salvare il pianeta le priorità sono fermare gli aerei e/o le auto, smetterla di mangiare carne bovina, non produrre energia elettrica da fonti fossili. Curioso che i giovani delle generazioni scorse si siano battuti perchè anche i poveracci potessero avere l'automobile, mangiare bistecche, avere il riscaldamento d'inverno e l'aria condizionata d'estate, avere tutti i benefici che l'energia elettrica porta in casa, e perchè le distanze tra i diversi paesi del pianeta si riducessero grazie al trasporto aereo. Si pensava che fosse questione di giustizia e abbattimento degli steccati!

Il "villaggio globale" in effetti offre condizioni di crescente uguaglianza delle condizioni di vita, comunione di merci, persone e idee. Io non credo che l'indignazione di Greta e di altri giovani ( al netto di quelli che come ai miei tempi non gliene fregava niente del Vietnam ma trovavano trendy ribellarsi) possa convincere molta gente a quelle rinunce, men che meno quelli che sono appena riusciti ad arrivare a stili di vita decenti. Non mi vedo proprio i cinesi azzerare la loro economia fondata sull'energia da fonti fossili. Tutt'al più gli Indiani potrebbero rinunciare alle bistecche...

Se si pone al mondo l'alternativa tra tornare alle condizioni di vita dell'800 o condannare il pianeta, temo che il pianeta sarebbe scelto da pochi. Alla fine saranno affari dei loro pronipoti..! Figuriamoci in Italia, dove non si riesce a convincere la gente che anticipare la pensione significa caricare un debito ai propri figli!

Sarebbe un peccato che le denunce di Greta, che sono sostanzialmente giuste, finissero nella pattumiera della Storia a causa atteggiamenti talebani nell'affrontare il problema (ricordate la "Decrescita Felice" popolare prima che la crisi facesse toccare con mano cos'è realmente la decrescita?).

La scienza e la tecnologia sono lo strumento che oggi ci consente di affrontare efficacemente il problema del riscaldamento e dell'inquinamento; non ne sono la causa, come sospetta una vasta opinione pubblica ostile ad ogni innovazione, dagli OGM al gas scisto ecc.

O si decide di scegliere la scienza, che implica gradualità ed esclude isterismi e sceneggiate, oppure si sceglie di predicare il ritorno ad una vita pre-moderna. In questo secondo caso il gioco lo guideranno quelli cui del pianeta non gliene frega proprio niente, ma solo dei propri profitti immediati. E Greta dovrà prendere atto di aver sbagliato a prendersela con piglio profetico con un intero mondo, con un'intera generazione, anziché cercare di stimolare consenso attorno a ciò che si può fare a a chi lo può fare. Direte: ma Greta è una bambina. Vero. Riconosciamole il merito di aver convinto (molti) giovani che il pianeta sarà un problema reale nel loro futuro, e dovranno occuparsene come una delle condizioni di vita principale. Evitiamole il Culto!

A proposito: ma Greta in Svezia dall'America ci torna in barca a vela o in aereo?

 

 

 

 
 
 

Crisi di governo: magari la Troika non sarebbe così male...

Post n°107 pubblicato il 17 Agosto 2019 da claudionegro50
 

 

E' evidente che la crisi di governo determinata dal dilettantismo dei M5S e dal delirio di onnipotenza di Salvini non può risolversi che in due modi: o si torna a votare o si trova un'altra maggioranza nell'attuale Parlamento, che per ragioni aritmetiche non può che coinvolgere PD e M5S. Come dire che al Paese è rimasta la scelta dell'albero cui essere impiccato...

Tuttavia, quanto meno per istinto di conservazione, vale la pena di esaminare cosa implica nel merito ciascuna delle due ipotesi.


Se si vota subito gli effetti principali verosimilmente saranno che Salvini avrà un sacco di seggi, il centro destra la maggioranza assoluta, e sarà governato da Salvini. Il gruppo parlamentare PD verrà derenzianizzato

Salvini avrà i numeri per fare la Flat Tax e una finanziaria in deficit, e andare allo scontro con la Commissione UE, aprendosi gli spazi di manovra per operare le scelte che riterrà opportune: uscire dall'Euro, forse anche dall'Unione, cambiare le alleanze internazionali dell'Italia, eleggere Lorenzo Fontana Presidente della Repubblica, ecc.

Le prospettive non meritano commenti, e comunque sono solo (verosimili) previsioni. Quello che è certo è la finanziaria in deficit, le cui conseguenze sono già scritte: o aumenta l'IVA, senza che peraltro ci sia un reale calo della tassazione diretta (la flat tax è una bufala), e allora è recessione; oppure l'UE interviene per eccesso di deficit e allora ci becchiamo la troika.


L'alternativa è un governo sostenuto da una maggioranza diversa, e in questo caso è inevitabile che ne facciano parte PD e M5S. Ma in questo caso deve essere chiaro che l'obiettivo primario (magari l'unico...) deve essere fare nei tempi previsti un DEF compatibile con i parametri europei quanto meno per quanto riguarda il deficit. Il che significa in primo luogo reperire le risorse per evitare l'aumento dell'IVA, magari spalmandole su più di un esercizio con il consenso della Commissione UE, che potrebbe essere più ben disposta verso un governo europeista che verso la truculenta rissosità di Salvini. In secondo luogo mettere fine alla sbornia assistenzial-statalista di un anno di governo giallo-verde, sia per dare al mondo il segnale concreto di un'inversione di tendenza, e anche per risparmiare per il 2020 e i successivi esercizi risorse che altrimenti andrebbero a finanziare Reddito di Cittadinanza, quota 100 e amenità simili.

Ora, la domanda inevitabile è: ma è possibile fare cose del genere insieme ai 5S? E' possibile fargli fare marcia indietro rispetto alla stallo in cui si sono cacciati per l'ILVA? Fargli rinunciare alla nazionalizzazione di Alitalia? Fargli rimuovere i NO alle grandi opere? Fargli accettare la sostanziale neutralizzazione (magari tramite una totale riscrittura, per consentire di salvare la faccia) del Reddito di Cittadinanza e del Decreto Dignità, nonché il rinnovo totale della governance di ANPAL? Perchè se tutto ciò non è possibile, o se deve essere negoziato in cambio di altre spese "sociali", l'obiettivo di un DEF di risanamento viene meno, e con lui la ragione di esistenza di un governo sostenuto da PD e M5S. O magari la ragione di scambio può essere l'assenso ad una misura tutta d'immagine, senza conseguenze sull'economia e sul lavoro, come il "taglio dei parlamentari"? Un'inutile demagogia, cui si potrebbe anche consentire, se fosse il prezzo da pagare per un DEF fatto bene; ma siamo sicuri che i parlamentari-guerriglieri dei 5S sarebbero disposti a votare una legge che, ben che vada, alle prossime elezioni lascerà fuori dalle Camere il 30% di loro?


Noto però che nel dibattito di questi giorni solo di questo si parla: scegliere un iter che permetta a questa maggioranza ( o a un'altra, promette il PD) di portare a casa la Legge Costituzionale per la riduzione del numero dei Parlamentari. A parte il fatto che non capisco perchè il PD dovrebbe dare una mano sul terreno della riforma costituzionale a chi ha affossato la ben più significativa riforma di Renzi, capirei lo scambio DEF contro taglio dei Parlamentari. Ma sono preoccupato del fatto che questa stia diventando la condizione decisiva per fare o non fare un nuovo governo: dire che i problemi dell'economia sono lasciati sullo sfondo è un eufemismo. Persino nel PD..!

E' perchè la politique politicienne affascina di più gli attori politici (antica tradizione italica)? O perchè nel PD non è ben chiaro il discrimine politico rispetto alla "ideologia" dei 5S in materia di politica economica? Nelle viscere del PD vive in ottima salute un approccio alla politica economica piuttosto affine a quello dei 5S: spesa pubblica, più stato, vincoli al mercato, assistenza pubblica, ossequio ai desiderata della CGIL in materia di lavoro, delega alla magistratura in funzione moralizzatrice. Approccio che è esplicito in quella nanogalassia che vegeta a sinistra del PD, e il cui ritorno a casa dovrebbe essere uno degli effetti collaterali dell'operazione PD-M5S.

Magari esagero, ma se non sono chiari i presupposti su cui si fonda un governo col M5S rischiamo l'ennesima marginalizzazione del riformismo all'interno di una sinistra italiana felicemente riunificata nell'abbraccio con la forza più anti impresa, più anti modernità, più anti scienza, più filo decrescita, più giustizialista del panorama politico. L'argomentazione che in fondo con i 5S ci sono radici culturali comuni dice molto dei problemi della sinistra...


Direte: e allora che facciamo?

C'è una terza soluzione, nella quale non oso sperare: che Mattarella ricordi le esperienze di Ciampi, Dini, Monti, e scelga autonomamente un premier indipendente che guidi un governo di ministri competenti e indipendenti. Però mi sembra difficile che un simile Governo possa avere la fiducia delle Camere ( a meno che qualcuno attendibile e prestigioso sia capace di terrorizzare i 5S garantendo che o è così o si va a votare...).


Ma forse, pensandoci bene, la Troika non sarebbe così male..!

 

 

 
 
 

Sindacati e Confindustria: no art.39 no salario minimo sì validità universale contratti. L'immaginazione al potere?

Post n°106 pubblicato il 17 Giugno 2019 da claudionegro50
 

Ho ascoltato, durante un dibattito, un'argmentazione contro l'istituzione del salario minimo di legge da parte del Segretario Generale in pectore della UIL, Bombardieri che il giorno dopo ho trovato autorevolmente ribadita sul Corriere da parte del Vicepresidente di Confindustria Stirpe, che mi ha lasciato alquanto perplesso; è riassumibile così: l'ipotesi dei 9 € come retribuzione oraria comprende i ratei di ferie, TFR e tredicesima? Domanda ovviamente retorica: la risposta è no.

Vedo due obiezioni di metodo a questo ragionamento talmente evidenti che stupisce che due primari protagonisti delle Relazioni Industriali non li abbiano previsti ed evitati.

Innanzitutto le ipotesi di salario minimo non sono obbligatoriamente legate ad un parametro orario: può benissimo essere un minimo mensile, e dal mensile all'orario si passa con una semplice operazione aritmetica utilizzando il parametro delle ore mensili di lavoro, fissate convenzionalmente da ogni CCNL ed utilizzato comunemente per fare i conti del dovuto ( o del trattenuto) in busta paga.

In secondo luogo nemmeno i minimi tabellari contrattuali che il salario minimo prevederebbe di stabilire ope legis, comprendono ratei di ferie, di TFR, di tredicesima, di trattamento integrativo di malattia, di eventuale quattordicesima, di eventuale EdR, e di altre voci che sono, per l'appunto, aggiuntive ai trattamenti minimi. Molte di queste voci sono poi normate per legge (TFR, trattamenti minimi di ferie, Tredicesima) e non derivano da contrattazione collettiva, se non per eventuali miglioramenti ad integrazione.

I 9 €, o se volete valorizzarli come retribuzione mensile, 1584 € (parliamo sempre di lordo) fissati per legge o per contratto non cambiano questa realtà.

Il timore, ben esposto da Stirpe, è che le imprese possano limitarsi ad applicare il salario minimo e buttare alle ortiche tutto il resto. Ma questo è impossibile in forza di legge per quanto concerne appunto voci normate per legge quali tredicesima, TFR, trattamento di malattia, tutele della lavoratrice madre, cause di licenziamento illegittimo, ecc.

Se però un'azienda poniamo metalmeccanica non iscritta Federmeccanica volesse oggi, in assenza di salario minimo legale, non applicare il CCNL di Categoria potrebbe benissimo farlo: le basterebbe rispettare i minimi tabellari stabiliti dal CCNL e, ovviamente, tutti i trattamenti di legge. L'unico obbligo che le corre è infatti quello definito dall'art.36 della Costituzione (Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa); la retribuzione in questione è per consuetudine e giurisprudenza identificato col salario definito dal CCNL di riferimento.

Il punto è che a legislazione vigente la contrattazione collettiva non ha valore vincolante erga omnes né esistono scorciatoie legali per renderla tale: la legge Vigorelli del 1958 che appunto conferiva validità erga omnes ai CCNL tramite il loro recepimento in DLgs fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1962 perchè in conflitto con l'art.39 della Costituzione, il quale prevede che l'associazione sindacale sia libera (nessun monopolio od oligopolio, quindi) con l'unico vincolo della "registrazione" e che siano vincolanti erga omnes i Contratti sottoscritti dalle sigle (ovviamente tra quelle registrate) che rappresentino la maggioranza dei lavoratori interessati.

Attuare tale disposizione costituzionale richiede dunque due adempimenti: misurare l'effettiva rappresentatività di ogni organizzazione, cosa complessa ma non impossibile, e peraltro già praticata nella pubblica amministrazione, e in secondo luogo procedere alla registrazione di ogni organizzazione; cosa questa che, conferendo personalità giuridica al sindacato con relativi diritti, obblighi, doveri e responsabilità legali, crea più di una ostilità.

D'altra parte o si attua l'art.39 nella sua interezza o lo si cambia con una legge di riforma costituzionale (con problemi annessi e connessi che conosciamo bene).

In assenza di ciò nessun contratto avrà mai valore erga omnes, ma soltanto per i soggetti che lo hanno sottoscritto (il che spiega perchè nella Pubblica Amministrazione il problema non si ponga, grazie all'unicità della parte datoriale), e i contratti "pirata" potranno essere soltanto oggetto di corrucciata denuncia.

In questo quadro forse è meglio che una Legge stabilisca un minimo sotto il quale nessuna retribuzione può scendere, magari differenziandolo per territorio e/o comparto economico. Se invece si vuole l'obbligatorietà del CCNL nella sua interezza, non resta che la strettoia dell'art.39. Il resto è propaganda.

 

 
 
 

Occupazione? Per i populisti è meglio il "voto" di povertà!

Post n°105 pubblicato il 23 Aprile 2019 da claudionegro50
 

Sul Corriere del 18 aprile Antonio Polito picchia duro su quelle che, secondo lui, sono le inadeguatezze e gli errori della sinistra nella gestione della crisi del welfare: avere "dimenticato il disagio sociale", avere ritenuto che "alla povertà doveva pensarci il lavoro", " che il problema sociale si potesse risolvere con l'istruzione" e di avere agito solo in difesa dei "garantiti con un lavoro e un reddito, come i destinatari degli 80 € di Renzi". Avere ignorato i "perdenti della nuova competizione sociale" che "il populismo ha raccolto dietro le sue bandiere".

La tesi di Polito è che il welfare consista nello stendere "una rete sotto la quale nessun cittadino può cadere".


Si tratta di un punto di vista, peraltro piuttosto distante dalle posizioni che esprimeva Il Riformista quando Polito ne era direttore, che vorrei contestare nel merito, non per far polemica con Polito, del quale ho sempre avuto grande stima, ma perchè la sua posizione è emblematica di una tendenza autoflagellatoria che si va manifestando nella sinistra riformista.


Innanzitutto credo che vada ampiamente ridimensionata la vulgata dei "perdenti... i forgotten men" i poveri che costituirebbero l'esercito dei populisti: nella stessa pagina del giornale l'articolo di Di Vico mostra che le cifre comunemente accettate vanno riviste alla prova dei fatti: 1 milione 650.000 le persone già individuate come destinatarie del Reddito di Cittadinanza, cui si possono aggiungere 206.000 nuovi destinatari delle nuove domande prenotate ma ancora non lavorate (75% di 100.000 domande moltiplicato 2,65 individui per famiglia)) e, per precisione statistica, circa 80.000 immigrati residenti da meno di 10 anni e quindi non aventi diritto. Totale 1.936.000, assai lontani dai 5.058.000 stimati dall'ISTAT e sui quali sono sempre stati fatti tutti i conti e le valutazioni. Anche pensando che la cifra possa ulteriormente crescere per varie ragioni difficilmente potrà essere raggiunta la metà dei poveri "attesi". Chi ha decretato il successo del M5S alle elezioni del 2018 non sono questi "dimenticati": anche se tutti in blocco avessero votato M5S non avrebbero rappresentato neppure il 25% degli oltre 10 milioni di voti riportati dal partito. La leggenda dei forgotten come base dei populisti non funziona..!

A meno di introdurre una categoria nuova: quella del forgotten percepito, ossia chi pur non rientrando nei criteri per definire la povertà assoluta povero si sente. Naturalmente il sentiment è un indicatore serio e da non sottovalutare, ma va ricondotto a qualche riscontro oggettivo se dobbiamo tenerne conto nel definire politiche di protezione sociale. Ora, le soglie utilizzate dall'ISTAT per definire lo stato di povertà assoluta non sono irragionevolmente basse: ad esempio, è considerata povera una famiglia composta da due adulti e due minori che viva in una grande città del Nord e che non riesca a spendere 1.746,82 € al mese, o una famiglia composta da 5 adulti che non sia in grado di spendere 1.466,77 € al mese in un piccolo centro del Sud.

Sulla base di queste soglie la stima di 5 milioni di poveri è verosimile: tuttavia questi 5 milioni quando veniamo al dunque non saltano fuori!


Come dice Di Vico, forse Il RdC avrà come utile effetto collaterale quello di renderci una statistica vera della povertà in Italia! Ma è opportuno azzardare qualche ipotesi circa i motivi per cui, con ogni evidenza, i dati reali tendono a divergere da quelli stimati. Credo che la ragione sia simile a quella per cui i dati comunemente diffusi sull'ammontare delle rendite pensionistiche mostrano un panorama desolato di anziani alla fame, ma trascurano di dire che ogni pensionato reale è percettore mediamente di 1,5 rendite pensionistiche, il che cambia sostanzialmente il panorama. Analogamente una percentuale difficile da precisare, ma che probabilmente può aggirarsi attorno al 50% sulla base dei risultati sopra esaminati del RdC, dei teorici poveri è destinatario di un mix di interventi/sussidi a carico dei Comuni, delle Regioni o di altre provvidenze con svariate motivazioni (famiglie numerose, sostegno allo studio, maternità, aiuto disabili, aiuto affitto, ecc.) che alla fine determinano un reddito reale che le porta fuori dalla condizione di povertà statisticamente definita e dai requisiti previsti per il RdC. Non certamente ad una condizione di benessere, ma questa ben difficilmente può, nella realtà dell'Occidente del terzo millennio, essere garantita dal Welfare.


E qui entra il discorso sul lavoro: non aveva torto la sinistra, a dire che è l'unico rimedio reale alla povertà. Il 26,7% (dati ISTAT 2017) dei poveri sono disoccupati in cerca di lavoro, l'11,9% sono disoccupati non attivi, solo il 4% sono pensionati. Soltanto il 6% degli occupati rientra nella fascia dei poveri (il che implica comunque aprire una riflessione sui working poors). Inoltre: i dati ci dimostrano che effettivamente esiste un rapporto inverso tra istruzione e povertà. ISTAT ci dice che le famiglie in cui la persona di riferimento ha soltanto la licenza elementare cadono in condizioni di povertà nel 10.7% dei casi, e se ha la licenza media nel 9,6%. Se ha un titolo di studio superiore la percentuale di povertà precipita al 3,6%.. Occupazione e istruzione (in quanto funzionale all'occupazione) sono effettivamente le assicurazioni più certe contro la povertà. E allora il problema principale che dovremmo porci, prima ancora della rete di sicurezza è quello dell'istruzione - formazione e delle politiche di servizio al lavoro.


Infine: Renzi avrebbe privilegiato con gli 80 € i "garantiti". In realtà si tratta di un'operazione diversa, dal segno non assistenziale: tagliare il cuneo fiscale-contributivo significa aumentare le retribuzioni nette e quindi ridurre il costo del lavoro. Un provvedimento sul versante della produttività e non del welfare, ancora insufficiente ma orientato nella direzione da sempre invocata da Sindacati e Imprenditori per far crescere occupazione e competitività.


Dal ragionamento di Polito pare uscire una visione del welfare come soluzione alternativa per chi non lavora, il che sarebbe del tutto condivisibile se si tratti di un sussidio temporaneo legato ad un percorso di inserimento lavorativo (come è in tutta Europa) salvo casi eccezionali di persone non in grado di lavorare per patologie o età (che però di solito sono assistite con rendite ad hoc), ma non se crea una condizione in cui, di fatto, si possa scegliere tra sussidio e lavoro. Il che è esattamente ciò che produrrà il Reddito di Cittadinanza; ma ciò non infastidisce Polito, che anzi sottoscrive l'opinione del Prof. Tridico: "sottrarre le persone alla povertà conta di più che avviarle al lavoro". Ma questa interpretazione ha molto poco a che fare con la "rete di sicurezza".

Ma torniamo alla questione di fondo: quanti sono i poveri "veri" in Italia? Quanti sono i disoccupati anche non poveri? Qual'è la priorità di un'agenda di governo che pensi al futuro e non alle prossime elezioni? L'assistenza (pochi, maledetti e subito!) o l'occupazione? Ovvio che l'uno non esclude l'altra, ma dove va messo l'accento? Questa, e va resa esplicita e valorizzata, è la distanza che corre tra il welfare di una sinistra riformista e l'assistenzialismo populista.

 

 

 

 
 
 

Clamoroso: il Prof. Tridico ha scoperto la formula per creare occupazione...

Post n°104 pubblicato il 12 Aprile 2019 da claudionegro50
 

 

Più che un governo giallo - verde un governo vintage: traspare sempre dalle dichiarazioni e dai progetti uno struggimento per ciò che è stato, il vagheggiamento di riportarlo in vita, l'attrazione per un orizzonte che sta alle spalle, la malia della decrescita felice. Tornare indietro nel tempo pare essere il rimedio ad un futuro sconosciuto (ovviamente) e quindi terrificante.

Ora è il turno di Tridico, consigliere economico di Di Maio, autore materiale del dispositivo di Reddito di Cittadinanza, e per tali meriti elevato alla Presidenza dell'INPS, di riscoprire con gioioso appagamento la ricetta, in cerca della quale avrà trascorso settimane e mesi in obliate biblioteche tra polverosi incunaboli, per creare occupazione, alla faccia del Jobs Act e della recessione; e tutto ciò, come sempre per le idee geniali, è riconducibile ad un titolo semplicissimo ed efficacissimo: LAVORARE MENO PER LAVORARE TUTTI. Era uno slogan degli anni' '70, la cui popolarità è durata solo il tempo di constatarne l'impraticabilità. Ma vediamo nel dettaglio i contenuti dell'uscita antiquaria di Tridico:

"Non ci sono riduzioni di orario da 50 anni e invece andrebbe fatta". Non è vero: i CCNL hanno ridotto l'orario contrattuale di lavoro molte volte negli ultimi 50 anni; ma anche l'orario legale è stato fissato per l'ultima volta nel 2003, compresa la possibilità di utilizzare meccanismi come la "Banca delle Ore invocata da Tridico per compensare riposi e straordinari.

Il primo passo sarà la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario per aumentare l'occupazione e incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese". Ma per quale mai ragione un'impresa, avendo dipendenti che lavorano meno ore, dovrebbe assumere nuovi lavoratori anziché chiedere a quelli in forza di fare un po' di straordinari (con reciproca soddisfazione...). Inoltre: si pensa davvero che, soprattutto in una fase di recessione, aumentare il costo del lavoro per ora lavorata, sia una ricetta espansiva?

"Le politiche per l'occupazione dovranno anche tener conto dell'avanzare della robotizzazione che mette a rischio i posti di lavoro". A parte il fatto che industry 4.0 se deve aspettare le politiche micragnose del governo produrrà effetti importanti solo al rallenty, la rivoluzione digitale distruggerà posti di lavoro ma ne creerà di nuovi, come è sempre accaduto in tutte le precedenti rivoluzioni industriali. La documentazione e gli studi in proposito abbondano: peccato non leggerli..! In realtà la riduzione di orario ha avuto (e ha ancora) un'efficacia soltanto difensiva, quando si tratti salvare posti di lavoro per un periodo determinato, e si realizza attraverso i contratti di solidarietà, la Cassa Integrazione, e spesso tramite il part time (volontario o no).

"Gli incrementi di produttività vanno distribuiti o con salario o con un aumento del tempo libero. Con questa riduzione aumenterebbe l'occupazione". Peccato però che la produttività del lavoro dal 1995 al 2017 sia cresciuta mediamente solo dello 0,4% annuo, contro una media europea quattro volte più alta. Soltanto nel 2017 abbiamo avuto una lieve crescita, pari allo 0,8%, ma la distanza con le principali economie europee resta enorme, e non migliora se prendiamo in considerazione la Produttività Totale dei Fattori. Il punto è che le pessime performance della produttività sono dovute ad una bassa quota di investimenti in innovazione digitale (cosa che al governo sembra importare molto meno che mandare la gente in pensione anticipata e distribuire sussidi) nonché al fatto che aumenta il numero degli occupati ma diminuiscono le ore lavorate pro capite: ossia esattamente l'obiettivo che Tridico si propone di raggiungere, e che tra l'altro è all'origine delle basse retribuzioni di cui beneficia il Paese!

Del resto la sinistra francese rimase vittima dello stesso abbaglio: al suo primo mandato Mitterrand impose per legge la riduzione di orario, ma dopo qualche tempo ci si accorse che il provvedimento non aveva creato occupazione, ma tempo libero, cosa piacevole (almeno per chi ha i soldi per goderselo...) ma ininfluente ai fini della crescita economica. Un altro piccolo esempio l'abbiamo in casa: si tratta dei Contratti di Solidarietà "Espansivi", quelli cioè in cui i lavoratori accettano di ridurre le ore lavorate, avendone un parziale risarcimento dall'INPS; in cambio di nuove assunzioni. Questo strumento è stato pochissimo utilizzato, e ha quindi avuto un impatto trascurabile sull'occupazione.

La verità è che l'occupazione non aumenta per decreto, ma con politiche ben note, che però comportano una dislocazione delle risorse molto lontana dalla scala di priorità cui, evidentemente, fa riferimento Tridico. Si tratta di intervenire sul cuneo fiscale-contributivo che grava sul lavoro (vedi i recentissimi dati dell'OCSE in merito). Di investire e agevolare gli investimenti privati in infrastrutture e soprattutto in innovazione tecnologica. Di intervenire pesantemente sull'istruzione-formazione e sui servizi al lavoro: c'è un mismatch importante tra domanda e offerta di lavoro, della quale parleremo più approfonditamente in altra occasione. Il sistema Excelsior di Unioncamere segnala un disallineamento che nel 2018 ha riguardato il 26% degli oltre 4,5 milioni di contratti di lavoro che il sistema produttivo aveva intenzione di stipulare, 5 punti percentuali in più del 2017.

Se invece si pensa di creare occupazione mandando in pensione chi lavora o pagando chi non lavora si dimostra incompetenza o interesse esclusivo e cinico ai prossimi risultati elettorali. Ma, perbacco, con la benedizione Accademica..!

 

 
 
 

Il Paese è Maduro per l'economia populista?

Post n°103 pubblicato il 15 Febbraio 2019 da claudionegro50
 

 

Capire come ha fatto il Venezuela a ridursi così (e molto prima l'Argentina) può aiutare a capire perchè l'Italia giallo-verde rischia di fare la stessa fine.

Alla base di tutto c'è una percezione "predatoria" delle relazioni economiche, che non è cosa rara o degenerata, ma soltanto primitiva. La Storia, delle piccole comunità come dei grandi imperi, si è basata da sempre, e fino a non molto tempo fa, sull'accumulo di ricchezza tramite la conquista violenta delle risorse altrui: risorse naturali, preziosi, territorio, forza lavoro, imposte, ecc. sono state le basi materiali della prosperità dell'Impero Romano e degli Imperi Coloniali Spagnolo e Britannico, e così via.

La creazione di valore aggiunto è stata confinata per millenni al commercio, che creava certamente ricchezza marginale ma non poteva competere con l'ordine di grandezze garantito dalla conquista predatoria e svolgeva una funzione sostanzialmente ancillare.

E' con la rivoluzione industriale che la ricchezza comincia a venire prodotta, e non più predata, in larga scala. E la conquista militare diventa caso mai ancillare alla produzione di ricchezza.

Ormai la ricchezza di un Paese dipende dalla capacità di creare valore aggiunto, e quindi dalla ricerca, la diffusione di nuove tecnologia, la conoscenza, la produttività. Se volete, possiamo discutere le numerose varianti a questa direttrice storica, ma non è qui il momento.


Però la accettazione consapevole di questo stato di cose deve contendere con una tradizione infinitamente più antica e radicata nella cultura popolare, appunto quella "predatoria". Arcaica capace però di declinarsi in termini moderni: basti pensare alla vulgata semplificata della lotta di classe, basata sull'idea di espropriare il patrimonio alla borghesia (non già i mezzi di produzione), o ai miti delle nazionalizzazioni finalizzate a sequestrare i profitti al capitale per trasferirli al popolo.

Effettivamente si tratta di un approccio di molto più immediata comprensione, oltrechè radicato nella tradizione tramandata da generazioni, soprattutto in popolazioni scarsamente coinvolte dall'industrializzazione o emarginate sul piano educativo (l'Italia è nell'invidiabile condizione di presentare entrambe le caratteristiche...)


Un primitivismo culturale, come notava Galli della Loggia sul Corsera, che riconduce la politica economica del populismo all'idea predatoria: prendiamo la ricchezza dai ricchi, dalle imprese, dallo Stato, e diamola al popolo! Il pericolo vero del populismo non è in una dottrina economica, ma in una mentalità primitiva, che dà per acquisita l'esistenza della ricchezza e si propone soltanto di redistribuirla. In Venezuela è stato così: l'Ente Petrolifero ha distribuito benzina gratis al popolo e utilizzato i profitti per spesa assistenziale, investimenti zero, tanto il petrolio c'è..! Le imprese della filiera sono state nazionalizzate, e gli utili redistribuiti in sussidi. Le aziende private sono state costrette all'imponibile di mano d'opera e a pagare salari individuati dalla politica e non dai bilanci. Allo stesso modo sono stati calmierati i prezzi delle merci (era già andata male al povero Diocleziano nel IV secolo) per tutelare la domanda a spese dell'offerta. Il diritto al reddito, al consumo, ai servizi è stato elevato a valore primo, imprescindibile e indipendente, garantito dal potere politico che risponde direttamente ai bisogni del popolo.


Questo è il nocciolo culturale del populismo: la creazione di ricchezza è ritenuta attività sostanzialmente antisociale (diffidare dell'impresa..!) che può essere riscattata solo quando questa ricchezza è distribuita tra gli aventi bisogno (che naturalmente sono tali perchè il sistema centrato sull'impresa li depaupera). In questa visione del mondo qualunque ribellismo è bene accetto: l'assalto alle elites riproduce ciò che nei secoli scorsi era la jaquerie, con la conquista e il rogo del castello, e oggi è rappresentato dalle esibizioni dei Gilets Gialli. E ovviamente in questo contesto hanno l'assoluta precedenza i bisogni minimi, i più direttamente sentiti dalla gente comune (e la cui soddisfazione crea peraltro ottimi crediti elettorali con spese limitate). E' così che si decide di mettere i soldi sui treni pendolari anziché sull'Alta Velocità, sulle tangenziali di paese anziché sulle grandi infrastrutture, sui sussidi anziché sugli investimenti, sulle Casse Integrazione anziché su Industria 4.0, e così' via, ponendo le opzioni in alternativa: i grandi investimenti sono indiziati di arricchire gli speculatori, mentre i piccoli (minimi) investimenti e meglio ancora la spesa corrente sono nell'interesse della gente comune... La stessa Verifica costi - benefici per la Torino Lione, al di là delle amenità metodologiche e contabili, indica chiaramente che alla crescita generata dal capitale fisso si preferisce convertire le risorse in liquidità destinabile a consumi o a piccoli interventi che vengano incontro alle richieste locali.

Una visione pauperistica, in cui l'investimento è accusato di sottrarre risorse al consumo del popolo, e va di conseguenza compresso, perchè la priorità è assicurare hic et nunc capacità di spesa ai poveri. Sulla reale natura di questi poveri varrà la pena soffermarsi in altra occasione. Ma l'orientamento è chiaro: le risorse esistenti devono finanziare il consumo.

Non stupisce quindi che di tanto in tanto il governo accarezzi l'ipotesi di requisire l'oro e le riserve valutarie di Bankitalia: al pensiero populista convertire il patrimonio in spesa corrente pare in linea con l'idea di saccheggiare la ricchezza per darla al popolo. Qualcuno gli ha detto che non si può, ma la tentazione è ben radicata e l'ignoranza delle regole la rafforza.


Siccome le regole costringono queste aspirazioni in lacci soffocanti , il populismo pensa magari non di cambiare le regole (troppo complicato...) ma di cambiare gli arbitri: in Venezuela hanno nominato militari (ovviamente senza nessun'altra competenza che quella di obbedire alle disposizioni del governo) nei posti più delicati dell'Amministrazione e dell'Economia. Tentazione forte anche per i populisti nostrani: non disponendo di militari si possono piazzare amici alle Autorità Indipendenti, a partire da Bankitalia e Consob.


Se ci fosse ancora qualche dubbio sull'appeal che esercita la ricetta venezuelana sui nostri sovranisti basti ricordare il patetico, solitario rifiuto dei leader 5S a prender posizione contro Maduro. Il segnale è chiaro: ha ragione lui! Così possiamo vedere più chiaramente cosa ci aspetta se non verranno cacciati via. Del resto sembrava impossibile che Paesi ricchi e in crescita come Argentina e Venezuela potessero ridursi alla miseria. Vogliamo provarci anche noi?

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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