Tana del Leprecano

Di solito non sono uno che prega, ma se sei lassù, per favore salvami, Superman. (Homer J. Simpson)

 

 

Welcome to Zen Circus

Post n°146 pubblicato il 21 Ottobre 2006 da maestro.perboni
 
Tag: Musica
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Da due anni aspettavo di parlarvi del migliore gruppo punk italiano. Dimenticatevi band modaiole e stronzate da fighetti, tipo Finley e cose del genere: va in scena il Circo Zen. Gli Zen Circus hanno nel DNA l’attitudine dell’epopea fiammeggiante del Granducato Hardcore che devastò i lidi toscani negli anni ‘80. Sono in tre e fanno un casino d’inferno, se per voi l’inferno è una landa agreste popolata da diavoli che suonano tutto il giorno MC5 e Violent Femmes. Quando fra vent’anni peseranno cento chili cadauno e riempiranno gli stadi potremo dire di averli visti, come nella Boston di un bel po’ di tempo fa i virgulti americani si godevano le rasoiate isteriche dei Pixies. Insomma, sono di parte, ma ieri gli Zen hanno confermato, nel bugigattolo elettrico del No Fun di Udine, di non avere rivali. Dal vivo sono una macchina che macina orecchie e nervi. Non chiedetemi la scaletta, perché riesco a malapena a sentire il cervello che prova ad articolare pensieri. Ma prendete Colombia: biker film tra Corman e Russ Meyer che parte con una batteria marziale e il basso che arpeggia, si apre a un rock ‘n roll da cripta anni ‘70 e degenera in un delirio psichedelico. Oppure l’inno da californiani pazzi Sailing Song, come dire gli Youth Brigade cresciuti a forti dose di sostanze psicotrope, con una coda che tira mazzate a destra e a manca. E It turns me on, che sembra un tranquillo inno per giovani balordi ma alla fine esplode in una appendice noise che frusta l’aria e abbatte teste. Non sbagliano un colpo gli Zen: quando al bassista UFO (praticamente Tarzan in un film girato da Pasolini) si rompe una corda, Appino intona la sognante Summer of Love, quando parte Wild Wild Life anche David Byrne probabilmente li invidia. I Banbini sono pazzi è puro freak show per bimbi cattivi. E poi una cover dei Minutemen credo che in Italia non la faccia nessuno. Appino canta, maltratta la chitarra, raspa il terreno come un pollo schizzato, si rotola da invasato. Il batterista Karim si destreggia con uno sgabello che non tiene, ma martella come un fabbro. In tre tirano su un muro del suono da paura, tra rock da strada e punk da carrozzone. Le anticipazioni dal prossimo disco aprono prospettive da cantautorato anni ‘70, ma non manca una canzone che batte i Buzzcocks per velocità e attitudine. Quella del No Fun è stata l’ultima data del tour. A dicembre saranno in studio con Giorgio Canali e Brian Ritchie per dare degno seguito a Vita e Opinioni di Nello Scarpellini e calare il poker che spazzerà la penisola liberandoci dai nostri peccati. Sotto lo sguardo benevolo di D. Boon, Joey Ramone e Fred “Sonic” Smith che vegliano di lassù sui tre delinquenti pisani. Amen

 
 
 

Dramma o Dovere?

Post n°145 pubblicato il 19 Ottobre 2006 da duffogrup
 
Tag: Persone
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Ieri girando per internet alla ricerca di qualche libro interessante da comprare, per svuotare definitivamente la mia carta PostePay, sono capitato su WUZ.it. Tra i titoli dei vari articoli mi è caduto l'occhio sulla faccia carina di Camila (Raznovich) e sulla dichiarazione secca e terribile riportata accanto: "io vittima di un pedofilo". Dall'articolo si apprende che Camila da piccola è stata vittima degli abusi di un uomo, amico di famiglia. Una violenza che, come dice lei stessa in un altra intervista sul sito del Corriere, non è mai stata analizzata e che probabilmente è alla base della sua paura di "far entrare troppo gli uomini nella mia anima". Un dramma vero.Qui però non voglio parlare del dolore e della violenza che Camila prova ed ha provato nel corso degli anni, in quanto non potrei mai capirlo del tutto. Nessuno probabilmente, se non qualcuno che ha subito un trauma simile.
Personalmente trovo che usare una frase del genere come lancio d'agenzia per pubblicizzare un libro in uscita (Lo rifarei, 214 pagine edite da Baldini Castoldi) sia per lo meno discutibile, ma non voglio soffermarmi neanche su questo.
Quello di cui voglio parlare e che più mi ha lasciato perplesso, è l'aspetto mediatico del contesto. Camila non è una persona qualunque, è un volto conosciuto della tv seguita soprattutto dai giovani. Ma non è neanche una presentatrice qualunque, Camila è da 6 anni la conduttrice dell'unico talk show della televisione che tratta liberamente e senza censure di amore, sesso ed erotismo: Loveline su MTV. Pur non essendo un assiduo spettatore della trasmissione ho sempre avuto l'impressione che chiunque intervensse in diretta esponendo problemi e quesiti di qualsiasi tipo riguardanti la sfera sessuale, potesse trovare in lei e nell'esperto in studio una controparte aperta, sicura e disponibile. Ma proprio a fronte di questa esperienza televisiva, mi chiedo se Camila non avesse una sorta di dovere etico nei confronti dei suoi spettatori. Lei stessa, che li invita a confidarsi in diretta, gli nasconde il fatto che per tutti gli anni della trasmissione è stata turbata da un trauma terribile legato proprio alla sfera sessuale. In un certo senso lo trovo un venir meno alla fiducia riposta, anche se considero comunque la privacy un diritto fondamentale. Il mio può sembrare un discorso cinico ma penso che chi va in televisione, e instaura un rapporto di fiducia e lealtà con lo spettatore, deve essere pronto a rispettare questo rapporto fino in fondo.

 
 
 

A New York non sanno fare il mohito...

Post n°144 pubblicato il 18 Ottobre 2006 da duffogrup
 
Tag: Cinema
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I capelli di Don Johnson sono stati trapiantati su Colin Farrel con una operazione chirurgica degna di Barnard, quei capelli meriterebbero un documentario del National Geographic o addirittura di History Channel, come icona americana degli anni '80. Attirati dalle meches dell'irlandese, domenica il trio Leprecano è andato a vedere Miami Vice, il nuovo film di Micheal Mann. Devo dire che, almeno per quanto mi riguarda, mi ero recato al multiplex senza grandissime aspettative. Avevo letto pochi commenti lusinghieri (tra cui, devo ammetterlo, quelli di Film TV) e temevo dunque la cagata. Alla fine invece il film mi ha più che soddisfatto, come penso anche la platy e il maestro Perboni, ma mi ha fatto sorgere più di qualche dubbio per questa recensione.
Per la verità stavo per scriverne anch'io una sulla falsa riga delle tante che ho letto in rete in questi giorni: il telefilm non c'entra niente col film, la trama non è importante, con Mann quel che conta è lo stile, ecc. Secondo me invece il film ha un rapporto diretto e molto stretto con il telefilm, che ricordo era prodotto proprio da Michael Mann. La trama, l'elemento che tutti hanno considerato secondario e banale, nella sua semplicità è la dilatazione della trama tipica dei serial anni '80. Sono presenti tutti gli elementi tipici, forse sarebbe meglio dire archetipici, di una qualsiasi puntata del telefilm: violenza, amore, crimine, giustizia, soldi, bellezza. Certo questi elementi nelle puntate dei serial erano spesso tagliati con l'accetta, ma a volte riuscivano a compenetrarsi in modo convincente.
Mann per me fa questo: utilizza lo schema del telefilm, lo dilata, gli dà sostanza con un cast che emoziona riuscendo a non strafare, lo impreziosisce con un'azzeccata colonna sonora e con la fotografia di Dion Beebe, che non fa rimpiangere troppo Dante Spinotti. Alla fine quello che emerge del film non è la confezione, che è comunque perfetta, ma proprio la sostanza: Sonny e Rico, le loro scelte e il loro comportamento.
Un comportamento, si intende, da telefiml poliziesco anni '80. Sonny e Rico non sono reali, non sono i poliziotti che non arrivano a fine mese, tipo quelli di N.Y.P.D., sono due personaggi che vivono in una Miami da telefilm appunto. Una città dove si beve solo mohito, dove non esiste la gente comune ma solo poliziotti e delinquenti; una Miami che esiste solo in quell'universo. Concludendo, si tratta di un bel film che rende omaggio, con un pizzico di tristezza e malinconia, ad un intero genere, senza rinnegarlo, ma forse è proprio il pubblico di quegli anni a voltargli le spalle oggi.

 
 
 

C'era una volta il 5° potere...

Post n°143 pubblicato il 14 Ottobre 2006 da duffogrup
 
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Lo usa, lo copia e lo saccheggia spudoratamente, ma soprattutto lo teme. La televisione, inteso come universo di società e persone che sta dietro a quello che esce dal tubo catodico, non sa più che pesci pigliare col pc. Come ho accennato, ormai non c'è programma o tg che non prenda da internet qualsiasi tipo di contenuto. Per farsi un'idea bastava seguire in questi giorni i servizi sui nuovi premi Nobel; le biografie erano pari pari agli articoli su wikipedia. D'altronde la rete è uno straordinario mezzo di informazione e i giornalisti giustamente ne approfittano, anche rischiando clamorose topiche.
Eppure mi sembra che da un po' di tempo il rapporto si sta deteriorando. La tv prende con piacere ma non è disposta a dare niente. Non è disposta a dare il calcio innanzitutto. Sky manda sotto processo quelli di Coolstreaming come plateale vendetta per aver linkato, sul loro portale, i programmi p2p che fanno vedere le televisioni cinesi che trasmettono le partite del nostro campionato. Peccato che non ci si ricordi mai che a queste televisioni i diritti per la trasmissione delle partite, internet compreso, glieli ha venduti proprio Sky. Il mondo dei computer e della rete invece si comportano verso la tele come un entomologo nei confronti di una farfalla tropicale: la guarda, la commenta e se può lo cattura per ammirarselo da solo o in compagnia. Ed è forse proprio per la paura che gli internettomani passino il loro tempo davanti al monitor e non diligentemente alla televisione, cuccandosi così la pubblicità anche delle tre reti ammiraglie, che i capoccia di Mamma Rai hanno chiuso la trasmissione in streaming di due canali satellitari: Rainews24 e Raisport Satellite. Peccato che questi due canali siano finanziati con il canone e quindi pagati anche da chi il satellite non ce l'ha e magari vorrebbe poterseli vedere almeno sul PC.
Capisco che per i matusa di viale Mazzini, Cologno Monzese e vattelapesca l'avvento delle nuove tecnologie sia stato un po' come la comparsa del fuoco nella preistoria, bello ma da maneggiare con cura. Ma sarebbe anche l'ora che venisse gettata la maschera e che si dicesse, una volta per tutte, che le scelte della tv ormai sono solamente economiche. La tv non offre più alcuna direzione culturale e non appena sente minacciato il proprio primato economico contrattacca con l'ausilio dei poteri forti. In questo senso va vista anche l'idea di imporre il pagamento del canone Rai a cellulari e PC, appoggiandosi ad una norma volontariamente ambigua. Un'idea di per sè abbastanza squallida, che sa tanto di disperato colpo di coda, ma che diventa inaccettabile se si pensa ai soldi che la RAI spreca per produrre sconcezze immonde e per pagare degli scalzacani raccomandati.

 
 
 

The time machine: Pixies

Post n°142 pubblicato il 13 Ottobre 2006 da duffogrup
 
Tag: Musica
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Ci sono argomenti che mi prometto sempre di trattare ma che per una ragione o l'altra, finisco per lasciare indietro. Mi sono riproposto quindi di tirar fuori una buona volta questi temi anche se un po' vecchiotti, perchè potranno risultare comunque interessanti. Certo non potrà mancare un post sul futuro della FIAT alla luce dell'uscita della Uno, l'utilitaria erede della 127, ed uno su questa nuova moda del Personal Computer arrivata, come al solito, dall'America. Qualche parola dovrò anche spenderla per gli ultimi accadimenti politici riguardanti la caduta il IV governo Andreotti e le voci che circolano su una fantomatica loggia massonica che conrollerebbe l'Italia. Non mancheranno poi alcuni post ammiccanti sulle ultime performance cinematografiche di Edwige Fenech, Gloria Guida e Lilli Carati, d'altronde anch'io voglio diventare blog del giorno.
Comunque in questo post volevo parlare dello scioglimento di uno dei miei gruppi preferiti: i Pixies. Questo gruppo, diciamo la verità, fino adesso non l'aveva cagato nessuno. Eppure hanno composto delle canzoni che segneranno il rock del futuro. Già mi vedo ragazzini strafatti di Seattle che imitano Frank Black e compagnia e sfornano successi milionari uno dopo l'altro. E invece i Pixies niente. Tutti a dirgli bravi, a dirgli che sono influenti, a dargli pacche sulle spalle. Di soldoni però neanche l'ombra; neanche con Doolittle, il disco che dopo averlo ascoltato ti chiedi se per caso i fratelli Wilson (i Beach Boys per intendersi) avessero un fratellino più piccolo, Frank Black. Doolittle è un disco che inanella giri pestati di chitarra con canzoncine pop alla swingin london. Un disco che Rolling Stones inserirà sicuramente tra i 500 più grandi della storia del rock.
Speriamo solo di non vederli tra una quindicina d'anni a cantare sui palchi dei festival rock, panzoni e pelati, cercando di raccattare, sottoforma di reunion di una band che è già culto, quel successo che gli è mancato da ragazzi.

 
 
 

Io uccido (la lingua italiana)

Post n°141 pubblicato il 10 Ottobre 2006 da maestro.perboni
 
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All’inizio, devo dire, mi era anche simpatico. L’idea di un ex comico ed ex cantante che diventa scrittore e fa il botto non era male, in termini di sberleffo alla paludata società culturale italiana. Poi, le prime righe di Io uccido hanno fatto cascare l’asino. Faletti scrittore di thriller era una montatura fatta ad arte. Ora esce il suo nuovo libro, Fuori da un evidente destino. Il best seller annunciato viene anticipato sulla prima pagina del Domenicale, il supplemento letterario del Sole 24 ore, con un articolo in cui Faletti racconta il viaggio in America da cui ha tratto l’ispirazione per il nuovo capolavoro. Era in Arizona, sulle tracce dei Navajo, a visitare il Grand Canyon, e gli è venuta la folgorazione. Niente di male. Tutti, poi, come Faletti, se non ci siamo mossi molto dall’Italia, leghiamo l’Arizona, Il Colorado, il Texas ai fumetti di Tex, vera educazione avventurosa di qualche generazione di italiani. Tutto bene, quindi. Finché non si legge l’articolo con attenzione. Eccone alcuni estratti: l’Arizona ha il senso di un pellegrinaggio “Forse più nella memoria che non in un luogo geograficamente quantificabile.” Cosa significa geograficamente “quantificabile”? Il senso lo si capisce, ma nello stesso modo in cui si capisce un tedesco che chiede informazioni a gesti. Poi Faletti parla di Kerouac e di “Thelma e Louise che ne sono figlie spaventate e a disagio nello stesso modo”. Nello stesso modo cosa? Nello stesso modo di Kerouac? Anche qua si intuisce il senso, ma la grammatica è un’opinione. In Arizona Faletti viene preso da quello che quando faceva la suora al Drive In avrebbe definito uno “sc’iupun”: “La cosa che mi ha sopraffatto immediatamente è stata la sensazione di spazio. Enorme, assoluto, estrattore di fiato e dittatore allo sguardo”. D’accordo che davanti al sublime spesso ci mancano le parole, ma “estrattore di fiato” è una delle più brutte immagini mai apparse su carta stampata. E aggiunge “Tutto intorno si respirava quello che lo spazio immenso ispira”. Qua siamo nei dintorni di Leopardi, ma un Leopardi in salsa trash, che piacerebbe forse a Labranca. Tutto l’articolo è uno scrigno di perle del genere, chiudo con un’immagine folgorante: “Volano falchi con una tale eleganza da indurre a pensare che certi uomini sparino agli uccelli perché hanno invidia che volano”. Qua c’è tutto Faletti: falsa eleganza ottocentesca “tale eleganza da indurre a pensare”, tentativo di poesia da quattro soldi subito inabissata dalla sgrammaticatura clamorosa “che volano”. Poco prima aveva scritto “Su per la strada che saliva verso una strana città che si chiama Sedona (perché strana?), ho avuto il mio primo approccio a una strada (ripetizione!) che attraversa i canyon e le foreste, roccia e alberi spazzati dal vento che muove nuvole e panna montata (!?!?!)”. Gian Luigi Bonelli uno che scrive così non lo avrebbe nemmeno voluto a temperare le matite.

 
 
 

Gulp! I medici in TV

Post n°140 pubblicato il 08 Ottobre 2006 da duffogrup
 
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L'altro giorno mi sono fermato a guardare qualche scena del "L'Olio di Lorenzo". Il film può sembrare uno strappalacrime fatto su misura per mamme e nonne, ed in gran parte lo è, ma mi ha incuriosito. In un punto il personaggio interpretato da Nick Nolte se la prende con il mondo medico perchè non dimostra sensibilità, non verso il figlio malato, ma verso i genitori che fanno domande, si informano e propongono terapie alternative. I medici del film, infatti, erano più interessati a seguire la prassi medica ed accademica piuttosto che a dare credito alle ricerche dei due genitori. Nel film, insomma, oltre alla coraggiosa storia di una madre ed un padre, c'era anche la loro richiesta di maggior sensibilità e vicinanza da parte del mondo medico. Insomma volevano un medico alla Dr. Kildare.
Sarebbe bello. Solo che dopo ho incominciato a pensare al Dr. House e al fatto che sta avendo un successo straordinario. Al suo essere cinico, anche se a volte questo cinismo scricchiola. Al fatto che per lui è più importante salvare il paziente che andar dietro ai piagnistei dei parenti. Il Dr. House stesso è un malato: zoppica ed è dipendente dagli antidolorifici. A differenza di molti, io non riesco a trovare simpatia per lui ma non voglio addentrarmi a considerazioni personali.
Quello che faccio fatica a capire è come mai i medici su questa differenza di rappresentazioni non dicono niente? Nessuno di loro si esprime mai per dire ai telespettatori che, almeno in Italia, il pronto soccorso di ER se lo scordano. Eppure non posso credere che su di loro queste rappresentazioni non facciano effetto, basta vedere quanti giovani medici hanno deciso di diventare dottori-clown per divertire i bambini dei reparti pediatrici dopo la realizzazione del film sulla vita di Patch Adams. Forse in realtà sono proprio così, goliardi come quelli di Scrubs, o romantici come quelli di General Hospital. O forse non sono per niente così e non gliene frega una cippa.
Probabilmente la verità sta nel mezzo: nella realtà il Dr. Kildare e il Dr. House esistono entrambi, però hanno denti meno bianchi e la battuta non gli viene così spontanea e magari litigano ogni giorno per il posto macchina...

 
 
 

The Black Dahlia contro La Dalia Nera

Post n°139 pubblicato il 06 Ottobre 2006 da maestro.perboni
 
Tag: Cinema
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Premessa: James Ellroy è forse il più grande autore di letteratura nera degli ultimi vent’anni. Ha scritto almeno quattro o cinque capolavori: la ricostruzione romanzata (fino a che punto?) del caso Kennedy e della politica americana degli anni ‘60 (American Tabloid, Sei Pezzi da Mille); un devastante viaggio nella parte oscura della mecca del cinema (L.A. Confidential); una versione definitiva della caccia al serial killer (Le strade dell’innocenza); una discesa allucinante e morbosa nella storia della madre assassinata, sulle tracce di un uomo nero inghiottito nella notte tanti anni prima (I miei luoghi oscuri). E poi c’è la Dalia. La Dalia Nera è il libro che fa esplodere Ellroy proiettandolo sulla ribalta letteraria. La storia di Elizabeth Short è uno dei tanti capitoli dell’immensa distesa di cadaveri della Hollywood Babilonia: un’attricetta di provincia che diventa una delle tante vittime sacrificate sull’altare del miraggio del successo, tra filmetti porno, sbandamenti amorosi, disperazione. Una delle tante che non ce l’hanno fatta e che si sono bruciate le ali in una fiammata sola. Solo che Elizabeth l’hanno fatta a pezzi. L’hanno sventrata e svuotata come una borsa vecchia. Le hanno aperto un sorriso da una parte all’altra della faccia. L’hanno fatta diventare un incubo oscuro nella culla dei sogni. E per Ellroy è la proiezione ossessiva della madre morta: puttana santa che incarna tutta l’innocenza perduta della città degli angeli.
Fine della premessa: Black Dahlia di Brian De Palma è una stronzata di proporzioni notevoli che non ha nulla della discesa agli inferi del vizio e della disperazione di Ellroy. Scarlett Johansonn è in versione patata lessa, con labbra rosso ciliegia ed espressione da oca giuliva. Hillary Swank sembra un pezzo di legno con la parrucca. Il protagonista maschile, Josh Hartnett, si salva grazie a una discreta inespressività da romanzaccio hard-boiled comprato in stazione. Poi c’è De Palma: il regista di Scarface e Gli Intoccabili è solo un ombra pacchiana di se stesso: appena entra in scena una delle presunte dark lady si scatena con un sax telefonato e con effetti video da filmino di bassa lega. L’atmosfera onirica e paludosa del romanzo di Ellroy diventa un esercizio di stile hollywoodiano che non ha nemmeno una briciola del ritmo di, ad esempio, L.A. Confidential di Hanson. C’è persino una penosa scopata sul tavolo del salotto. Insomma, un’occasione sprecata: penso solo a che razza di delirante inferno allucinatorio sarebbe venuto fuori se il film lo avesse fatto un tipo come David Lynch (e l’unica scena decente, verso la fine, è lynchiana, con Scarlett circonfusa di luce bianca e il flash del cadavere putrescente della Dalia che appare all’improvviso in mezzo al giardino). Si salva l’atmosfera anni ‘40, con una bella scena in un locale per lesbiche con k.d. lang che canta. Solo per Ellroyani ortodossi e nostalgici della giacche a spalle larghe e vita stretta.

 
 
 

I migliori

Post n°138 pubblicato il 04 Ottobre 2006 da duffogrup
 
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Nel 1984, in pieno reaganismo, esce al cinema "Il migliore" con Robert Redford. Il film racconta la storia di Roy Hobbs, un ragazzo americano degli anni '30 con un enorme talento naturale (The Natural è il titolo originale) per il baseball ma a cui il destino ha tirato un brutto scherzo. Proprio mentre si reca al provino per una grande squadra incontra una donna bellissima ma leggermente pazza e assassina che lo ferisce impedendogli di dar seguito al suo sogno di diventare il più grande giocatore di tutti i tempi. Dopo 15 anni però, a Roy viene offerta una seconda possibilità di giocare in Major League e lui la sfrutta al volo. Ma i fantasmi del passato sono lì, pronti a fargli nuovamente lo sgambetto. Il film, comunque, finisce fin troppo bene: Roy fa vincere il campionato alla sua squadra con l'ennesimo fuoricampo, ritrova l'amore della sua giovinezza che gli ha dato anche un figlio, e insieme la famigliola riunita torna a vivere in un bucolico paesaggio del midwest.
Bene. Questa è la storia del film. La storia del libro, da cui il film è tratto, è diversa. Ricalca pressochè la stessa trama ma è un'altra storia, finisce diversamente e non lascia speranza. Il libro è stato scritto da Bernard Malamud nel 1952, in pieno maccartismo. A mio avviso Malamud ha scritto, nè più nè meno, la negazione del sogno americano, utilizzando come metafora proprio il gioco statunitense per eccellenza: il baseball. Nel libro viene descritto un mondo cinico e abbastanza deprimente in cui anche gli eroi alla fine guardano al loro tornaconto e gli antieroi più che paura fanno compassione.
Quindi, ricapitolando, nel 1952 Malamud racconta una storia triste sull'impotenza dell'uomo difronte al proprio destino e sulla corruttibilità del suo animo. Nel 1984 Holliwood presenta la stessa storia ma ti racconta che Malamud si sbagliava, che tutti possono avere un'altra possibilità e veder realizzati i propri sogni. Basta essere caparbi, umili, onesti e devoti alla famiglia: insomma basta essere americani.

 
 
 

Domo Arigato Mr. Tradotto

Post n°137 pubblicato il 02 Ottobre 2006 da duffogrup
 
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L'idea che ho del Giappone è virtuale. Non è maturata sul campo, io là non ci sono mai stato. E' un'idea frutto di anni di televisione, guardando i cartoni e qualche documentario, leggendo manga e qualche libro di Banana Yoshimoto. Insomma è sempre stata un'idea filtrata da qualche occidentale (il doppiatore del cartone, il redattore italiano della Yoshimoto, ecc.) che per rendere comprensibili a me alcuni aspetti della vita giapponese, anche dettagli che possono sembrare insignificanti, li ha cambiati o semplificati. E' quel problema che in un film ambientato proprio in Giappone e che fra parentesi non mi piace, viene chiamato "lost in translation". Non potrò mai capire totalmente i giapponesi.
Sono convinto però che come nelle leggende, anche nella prima impressione ci sia sempre un fondo di verità. E' la prima impressione che ho avuto io dei giapponesi è l'ambivalenza di fondo del loro carattere. Integerrimi fino all'ossessione per il lavoro o la scuola, ma con una propensione a lasciarsi andare verso lo strano e il ridicolo più assoluto con un ingenuità disarmante. Ingenuità che in generale ispira simpatia anche in un occidentale come me. Sul canale 7gold, per esempio, va in onda Takeshi's Castle (già su Sky) che è praticamente il vecchio Mai dire Banzai commentato da Lillo e Greg invece che dalla Gialappa. Ecco, il Takeshi del titolo altri non è che Takeshi Kitano, osannato regista cinematografico dai serissimi critici nostrani, mentre in Giappone per anni è stato un misto tra Boldi e il Gabibbo.
Un altro esempio che mi viene in mente sono i Polysics, una band elettronica che riprende là dove i Devo e i primi Xtc avevano lasciato. Degli elettro punk che non hanno paura di sperimentare, anche quando sembra che ormai provare cose nuove sia praticamente impossibile. E l'energia che ci mettono non può che suscitare simpatia. Un loro video sta girando in questi giorni su Flux, il canale "open source" di MTV, ma su You Tube ne trovate diversi. Fanno musica "strana", eppure in fondo non lo è per niente.
Cercando di non generalizzare e non cadere nel piagnisteo nostaligico vorrei capire perchè da noi quell'ingenuità non c'è più. Cosa ci è successo da quando "Giochi senza frontiere" ha chiuso? Che fine ha fatto la new wave italiana? E perchè la radio non manda più il freejazz-punk inglese??

 
 
 
 
 

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