Post N° 63

Post n°63 pubblicato il 28 Gennaio 2006 da unaqualunque_s
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Quel pomeriggio la condussi nei miei luoghi, Angela.
In quel quartiere dignitoso di operai e piccoli impiegati, che ai tempi della mia infanzia era decentrato, ma oggi, che la città si è enormemente allargata, è diventato quasi centrale, vi sono cinema, ristoranti, un teatro, e un'infinità di uffici.
Entrammo in quel parco, che da piccolo mi sembrava immenso, e invece è di dimensioni ristrette, maltenuto e soffocato dai palazzi.
Sembra uno scampolo di lana vecchia spersa tra rotoli di gessato.
Cercai il punto esatto dove mia madre si fermava, sotto un albero, mentre io giocavo.
Si portava una coperta, la stendeva sull'erba e si sedeva lì sopra.
Credetti di riconoscere l'albero e così ci sedemmo.
Italia guardava davanti a sè, un uomo con un cane passava.
"Com'eri da piccolo?"
"Così, sempre un pò scocciato."
"Perchè?"
"Ero grasso e pauroso, e sudavo...Forse ero scocciato perchè sudavo, sudavo perchè ero grasso e avevo paura di farmi male."
"E poi?"
"Poi sono cresciuto, sono diventato magro, non ho sudato più. Però sono sempre un pò scocciato, è il mio carattere."
"A me non sembri così."
"Si, che lo sono. E' che sono molto bugiardo."
La gradinata della scuola.
Sono passati trent'anni ma è ancora lì, tale e quale.
C'è ancora la striscia di cortile circondato dall'inferriata nera, e persino il colore dell'intonaco è rimasto identico, lo stesso giallino.
Il giorno se ne stava andando, la luce si dirada, ma resiste per noi due che da un bel pezzo siamo allo scoperto, e ci vediamo ancora, più cupi i colori degli abiti e quello delle mani intrecciate.
Volevo parlare, e invece sto zitto, incavernato nei ricordi.
Siamo seduti su un gradino di marmo, in cima, la schiena contro l'inferriata.
Da questa posizione in gruppo con gli amici ho visto tante mattine, ma nessun imbrunire.
E mentre tutto si oblitera sento che la vita è soave anche se sta passando.
L'importante è che rimanga una scuola, un cancello dove posare la schiena.
Un luogo che ci ha visti ragazzi e ci riprenda da adulti, un giorno feriale, per caso.
E adesso sapevo che non ero cambiato, che ero sempre lo stesso, e che forse non si cambia, Angela, semplicemente ci si adatta.
"Andavi bene a scuola?
"Si, purtroppo."
"Perchè purtroppo?"
Purtroppo perchè ti ho stuprata, purtroppo perchè non ho pianto quando è morto mio padre, purtroppo perchè non ho amato nessuno, purtroppo, Italia, Timoteo ha avuto paura della vita.
Camminiamo e io ho la testa in un strano limbo, dove i ricordi sono sfocati e si mischiano al presente.
Mi stringo Italia e ce ne andiamo un pò sciancati per le vie come due innamorati in una città straniera, perchè stanotte mi è sconosciuta questa parte di città che mi ha veduto bambino.
La gente passa, ci sfiora.
Non sanno come siamo innamorati.
Non sa che lei è incinta.
E mi ritrovo per caso sotto quello che era il mio palazzo.
Siamo sbucati da una stradina in discesa, c'è un forno all'angolo da dove proviene un buon odore di pizza, ho pensato che ne avremmo mangiato uno spicchio, ed eccomi sotto la mia casa.

 
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Post N° 62

Post n°62 pubblicato il 28 Gennaio 2006 da unaqualunque_s
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Non ho nulla da rimproverarle, o forse troppo.
Non la amo più, e forse non l'ho amata mai davvero, sono stato sedotto da lei.
Ho subito la sua tirannia, a tratti estasiato, a tratti intimorito, e infine con sommessa fatica.
Se la guardo attentamente adesso, tanto lei non si accorge di me, sta facendo l'inventario dei cosmetici nel beauty-case, se la guardo adesso, che ha uno sguardo fisso e ottuso, la mascella rilassata, adesso penso: Che ci fa questa donna qui?
Che c'entra con me?
Perchè non sta nella casa di fronte con quell'uomo che ogni tanto vedo passare in mutande, un uomo con un pò di pancia ma nerboruto?
Perchè non attraversa la strada, s'infila nell'altro portone, e va nel letto di quell'uomo a frugare lì nel suo beauty-case?
Si, sarebbe meglio se fosse lì adesso, con quella faccia un pò abbovata.
Magari io prendo la piccolina, quella rossa che vive accanto all'uomo nerboruto con la pancia, magari è simpatica, magari parliamo un pò, magari le piace sentire i pensieri di uno che tutto il giorno sbuzza la gente.
Guardo mio moglie e non c'è una sola cosa che mi piaccia di lei, una sola cosa che m'interessi.
I suoi capelli sono bellissimi, è vero, ma per il mio gusto sono troppi, il suo seno è perfetto, pieno senza essere esagerato, eppure non ho nessun desiderio di toccarlo.
Si sta infilando gli orecchini, ha già chiamato il taxi.
Le lascio tutto, non discuto su nulla, non mi metto a dividere neanche i libri, butto qualcosa in una valigia e me ne vado.
Ciao.
"Ciao, io vado."
"Dov'è che vai?"
"A Lione, te l'ho detto."
"Mandami una cartolina."
"Una cartolina?"
"Si, mi farebbe piacere. Ciao."
Elsa ride, prende la sua borsa di camoscio maculato e esce dalla stanza.
Chissà se lo scrittore berlinese ha il cazzo floscio come una papalina o rigido come un képi?
Baciai l'ombelico di Italia.
Era un ombelico grinzoso e rientrante.
Quel piccolo nodo di carne mi risucchiava a sè.
Lì si era stretto il suo laccio con la vita.
Ora mi sembrava di poterlo penetrare, di poter schiudere con le labbra quell'uscio molle per infilarci dentro il capo, poi le spalle, una alla volta, e tutto me stesso.
Si, volevo essere nel suo ventre, attorcigliato e grigio come un coniglio.
Chiusi gli occhi nella mia saliva.
Ero un neonato nel suo fondo d'acqua.
Fammi nascere, fammi rinascere, amore mio.
Avrò più cura di me stesso, ti amerò senza maltrattarti.
Aprii gli occhi, guardai il poco che c'era intorno, la cassettiera laccata, lo scendiletto a righe stinte, e, oltre i vetri, il grigio pilastro del viadotto.
E poi la foto di quell'uomo appoggiata allo specchio.
"Chi è?"
"Mio padre."
"E' vivo?"
"Non lo vedo da troppi anni."
"Come mai?"
"Non era un uomo per la famiglia."
"E tua madre?"
"Lei è morta."
"E non hai fratelli, sorelle?"
"Tutti più grandi di me, tutti sparsi in Australia."
"Mi pacerebbe vedere il tuo paese..."
"Non c'è niente. C'era una chiesa bella, ma l'ha tirata giù il terremoto."
"Non importa, voglio vedere dove sei cresciuta, la strada dove abitavi."
"Perchè?"
"Per sapere dove stavi quando non ti conoscevo."
"Stavo qui dentro", mi toccò la pancia, e la sua mano era caldissima.

 
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Post N° 61

Post n°61 pubblicato il 20 Gennaio 2006 da unaqualunque_s
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Mi rimisi al volante, e ripresi a guidare, lontano dalla clinica.
Ci fermammo in uno dei primi paesi alle porte della città, a nord, dove il paesaggio cambia, diventa più selvatico.
La zona è ancora urbana, ma già si sente il respiro dei boschi, di quei monti senza vette che si stagliano all'orizzonte come bisonti addormentati.
Ci infiliamo in un cinema.
Una di quelle sale di provincia che aprono solo il sabato e la domenica.
Il primo spettacolo era quasi vuoto, ci sistemammo al centro, sui sedili di legno.
C'era freddo anche lì dentro, Italia posò la testa sulla mia spalla.
"Sei stanca?"
"Un pò."
"Riposa."
Rimase a sonnecchiare addosso a me nel buio, una guancia appena schiarita dalla luce dello schermo.
Era un film comico, un pò triviale, andava bene, andava bene tutto.
Eravamo una coppia, per la prima volta forse.
Una coppia in vacanza che va al cinema, si ferma a mangiare un panino, e poi prosegue il viaggio.
Si, mi sarebbe piaciuto fare un viaggio con Italia, dormire negli alberghi, fare l'amore, ripartire.
E magari non tornare più.
Potevamo andarcene all'estero, avevo degli amici a Mogadiscio, uno era un cardiologo, lavorava in un ospedale psichiatrico, aveva una casetta sul mare, la sera fumava marijuana in compagnia di una donna dalle gambe sottili come braccia.
Si, una vita nuova.
Un ospedale povero, ragazzini scuri, senza scarpe, dagli occhi lustri come bacherozzi.
Andare dove c'era bisogno di me, operare sotto le tende, curare i miserabili.
"Ti piacerebbe partire?"
"Si."
"E dove ti piacerebbe andare?"
"Dove vuoi tu."
Tua madre parte, un viaggio di lavoro di un paio di giorni, una boccata di tempo per me.
Sta sistemando le ultime cose nella valigia, quella del viaggio di nozze, in camoscio maculato.
Il suo braccio mi sfiora mentre cerca un foulard nell'armadio a più ante che riempie tutta la parete.
Indossa un tailleur pantalone con unllo sciallato, di un morbido jersey color noce moscata, e una collana molto semplice, fatta di grossi grani di ambra trattenuti da un filo di raso nero.
Prendo una camicia, io ho solo camicie bianche, e completi con la cravatta girata intorno alla stampella, così non sbaglio.
Elsa qualche volta mi ha spinto a osare, almeno con un cappello.
C'è un suo amico, uno scrittore berlinese, che sfoggia baschi, zuccotti, panama, feluche, a lui stanno bene, è eccentrico, bisessuale, intelligentissimo.
Lo scrittore berlinese sicuramente l'avrebbe resa più felice.
Magari s'incontrano in qualche caffè letterario, lui posa il suo sombrero o il suo colbacco sulla sedia, le legge i suoi scritti, e lei si emoziona.
Si, è matura al punto giusto, borghese al punto giusto, per un amante bisessuale.
Avere una donna così elegante accanto mi ha sempre riempito di orgoglio.
Oggi invece la sua eleganza mi rende triste.
L'ennesimo travestimento.
Stamattina è la giornalista in viaggio, confortevole e femminile.
Anche i suoi gesti mi danno fastidio, è sbrigativa, persino un pò rude.
Si è già infilata nel ruolo che dovrà sostenere lì fuori, tra quelle canaglie dei suoi colleghi.
Io m'infilo i pantaloni.
Ho preso quelli con la cintura già nei passanti, così mi risparmio una fatica.
Adesso glielo dico.
Si, magari adesso glilelo dico.
Così poi parte e ci pensa su da sola, e torna che ci ha già pensato.
Adesso le dico: amo un'altra donna e questa donna aspetta un figlio, quindi dobbiamo separarci.
Non ho intenzione di prenderla alla larga, dicendole che voglio stare solo o palliativi simili.
Non voglio stare solo, voglio stare con Italia e se non avessi incontrato lei probabilmente non avrei trovato una sola ragione valida per separarmi da Elsa.

 
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Post N° 60

Post n°60 pubblicato il 20 Gennaio 2006 da unaqualunque_s
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E' arrivata in centro con l'autobus, l'ho aspettata accanto alla fermata, mi ha sorriso.
Non so se soffre, non ne abbiamo parlato.
Forse ha già abortito altre volte, non gliel'ho chiesto.
Sembra tranquilla.
Si è seduta accanto a me e non ci siamo baciati.
In centro non corriamo questi rischi.
E' una passeggera prudente, una creatura in transito fuori dal suo recinto.
Stamattina è più severa, indurita come il cardigan che indossa.
Succhia la sua croce d'argento, e sento che c'è qualcosa che le manca, qualcosa che ha dimenticato nella sua piccola tana.
In lei c'è una riservatezza che mi lascia un pò solo.
Forse sarebbe stato più facile averla accanto piagnucolosa e malinconica, come me l'aspettavo, invece lei stamattina sembra forte, ha occhi vispi, combattivi.
Forse è meno delicata di quello che ho creduto, forse sta solo cercando di farsi coraggio.
"Vuoi fare colazione?"
"No."
La clinica privata dove Manlio lavora è una villa d'inizio secolo circondata da un parco di alberi d'alto fusto.
Percorriamo il viale in salita fra i tronchi scuri, fino allo slargo dove ci sono altre macchine.
Italia guarda quella costruzione dall'intonaco rossiccio.
"Sembra un albergo."
Sa quello che deve fare, le ho spiegato tutto, andrà all'accettazione e dirà il suo nome, la stanno aspettando, c'è una camera prenotata.
Io naturalmente non posso rimanere, è già sconveniente che l'abbia accompagnata fin lì.
La chiamerò nel pomeriggio.
Salendo lungo il viale, Italia non se ne accorta, le ho guardato la pancia, per un attimo ho creduto che si potesse già vedere qualcosa, un rigonfiamento.
Non so cosa ho creduto di cercare lì sotto, qualcosa che non avrei visto...
E una ruota si è affossata in una cunetta, ho dato gas, ho sentito uno sbalzo, qualcosa di cui avrei avuto nostalgia per sempre.
Se è vero che il tempo ha pratiche diverse da quelle che crediamo, e se una vita intera può affacciarsi in un lampo, io credo di aver visto in quella frazione di secondo mentre sterzavo per non finire in quella cunetta, lo strazio che aspettava, ho visto anche te, Angela, il tuo ematoma sul diafanoscopio.
C'è stato un salto nella stanza circolare del tempo piena di porte che sono tutte lì, nel cerchio, senza un ordine d'ingresso, quando l'irreale si affaccia e diventa lecito.
Ho fermato la macchina sullo slargo davanti alla clinica.
Italia ha guardato la porta scorrevole di vetri bruniti, le ho raccolto la mano e l'ho baciata.
"Non ti preoccupare, è una sciocchezza."
Si è voltata e ha preso la sua borsa patchwork.
"Vado."
Scende e va dritta verso l'ingresso.
Sto facendo manovra per andarmene.
Nello specchietto vedo i suoi passi, più instabili del solito, forse per colpa della ghiaia.
Ma so che non cadrà, è abituata a quei tacchi troppo alti, a quella borsa troppo lunga tra le gambe.
Invece cade, un ultimo passo e si accascia di botto.
Riacchiappa la borsa, ma non si alza, resta lì accovacciata in terra.
Non si volta, è convinta che io sia già andato via.
Non ti muovere, dico, senza sapere quello che dico.
E forse lei sa che ci sono.
Non ti muovere.
Perchè ora mi sembra che quella parte di lei che mancava l'abbia raggiunta, come un brandello di stracci alati le sta coprendo la groppa.
Lascio lo sportello aperto e corro sulla ghiaia.
"Cos'hai?"
"La colazione...forse è meglio se la faccio."
L'aiuto a rialzarsi, e mentre l'abbraccio sollevo lo sguardo oltre la sua testa.
Al primo piano, dietro una grande finestra scura c'è un uomo in camice che ci sta guardando.
Ma sì!
Ma se anche finisse adesso, se entrassimo nel buio così.
Ho questi occhi addosso, questa mano unta che mi trattiene.
Nessuno mi ha mai amato così, nessuno.
Non ti porterò lì dentro, nessuna cannula ti pulirà.
Io ti voglio, e adesso sono forte e troverò il modo per non offenderti più.
"Pensa a te, pensa a te, davvero" sussurra.
Io ho già deciso, io ti amo.
E se vuoi la mia testa, dammi un'accetta, ti darò la testa di un uomo che ti ama.
"Andiamocene."
E lo dicevo a nostro figlio, Angela.
Una piccola foglia rossa era caduta senza rumore sul vetro della macchina, e lì era rimasta accanto al tergicristalli.
Una foglia rossa, dalla nervatura esile, forse la prima della sua stagione, era caduta per noi.

 
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Post N° 59

Post n°59 pubblicato il 17 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Manlio è fuori con me, sul terrazzo dove l'ho trascinato.
"E' una paziente che ho operato due anni fa al seno, corre troppi rischi, deve fare un'interruzione."
"E' nei tempi?"
"Si."
"Allora, perchè non va in ospedale?"
In basso il camion della nettezza urbana ha agganciato un didone.
Manlio si è alzato il bavero della giacca, forse ha capito, perchè adesso fischietta.
La sera finisce sui divani, poi i divani si svuotano, restano solo le fosse dei corpi che li hanno appesantiti, i cuscini cianciati, i bicchieri ovunque, i posacenere colmi di cicche.
Elsa è già senza scarpe: "Bella serata."
"Si."
Mi alzo e raccolgo un posacenere.
"Non toccare niente, ci pensa domani Gianna..."
"Butto solo le cicche, così non puzzano."
Va in camera, si strucca, s'infila la camicia da notte.
Io rimango davanti alla televisione in mezzo a quel cimitero di bicchieri sporchi.
Quando la raggiungo mi corico dalla mia parte, pochi assestamenti, e resto così, allungato su un fianco.
Tua madre mi posa una gamba addosso, poi la sua bocca calda sfiora il mio orecchio.
Mi irrigidisco, non ce la faccio, stasera non posso proprio.
Lei cerca la mia bocca, la trova, ma io non apro le labbra.
Ricade sul lenzuolo con un sospiro fondo, di pancia.
"Sai" dice, "forse potremmo provare a fare l'amore in un modo diverso."
Mi volto verso di lei, ha una strana faccia mentre fissa il soffitto.
"Potremmo provare a guardarci negli occhi."
La sua voce è rigata da un livore che si arrotola fiero intorno a ogni parola.
"Hai bevuto?"
"Un pò."
Mi sembra che i suoi occhi stiano brillando, il mento le trema.
"Noi ci guardiamo, lo sai, se così bella, perchè non dovrei guardarti?"
Mi volto, aggiusto il cuscino, non ho sonno.
E che cominci pure una nottata di stillicidio coniugale, vai con il valzer delle rivalse!
Invece mi arriva un calcio nella pancia, e subito dopo un altro, e ancora un altro.
Poi le mani di tua madre spalancate mi colpiscono in viso.
Cerco di ripararmi, ma sono assolutamente impreparato a quell'attacco.
"Tu! Tu! Chi credi di essere, tu! Chi ti credi di essere?!"
Ha la faccia stravolta, la voce arrochita, non l'ho mai vista così.
Mi lascio colpire e ho pena di me, di lei, che fatica a trovare le parole per offendermi.
"Tu...Tu...Sei una merda! Una merda egoista!"
Riesco a catturarle una mano, poi l'altra, l'abbraccio.
Lei piange.
Le carezzo la testa, respira tra i singhiozzi.
Hai ragione, Elsa, sono una merda egoista.
Sto rovinando la vita a tutte le persone che mi circondano, ma credimi, non so nemmeno io quello che voglio, sto semplicemente prendendo tempo.
Ho desiderio di una donna ma forse mi vergogno di lei, mi vergogno di desiderarla.
Ho paura di perderti, ma forse sto facendo di tutto per essere lasciato.
Si, mi piacerebbe vederti preparare una valigia e scomparire nel cuore della notte.
Correrei da Italia e forse lì scoprirei che mi manchi.
Ma tu rimani qui, aggrappata a me, al nostro letto, no, non te ne andrai nella notte, non lo farai, non correrai il rischio, perchè io potrei non avere nostalgia di te, e tu sei una donna prudente.
Il tergicristallo è spento.
Sul vetro c'è una cortina di sporcizia, un velo torbido che ci separa dal mondo.
Nella macchina c'è l'odore della macchina, dei tappetini, della pelle dei sedili che stamattina è più tesa e scricchiola a ogni movimento, il retrogusto del vecchio arbre magique scolorito al sole, c'è un pò del mio odore, del mio dopobarba, dell'impermeabile che è rimasto appeso all'ingresso tutta l'estate e che ora è di nuovo con me, arrotolato sul sedile posteriore come un vecchio gatto.
E sopratutto, dentro tutto, c'è l'odore di Italia, delle orecchie, dei capelli, dei vestiti che indossa.
Oggi ha una gonna a fiori che culmina in vita con una grossa banda di elastico nero, e un cardigan di cotone indurito.
Ha una croce sul petto, una croce argentata appesa a una catena dalle maglie sottilissime.
Se la porta in bocca mentre guarda il mondo sfuocato oltre il parabrezza che sembra così distante.
Poco fa le ho chiesto se non aveva freddo senza calze, mi ha detto di no, che non ha mai freddo.
Ha i capelli trattenuti da un'infinità di mollette di metallo smaltate, molte delle quali screpolate.
E' una picola cafona che si veste sulle bancarelle, o in quei negozi senza porte con le commesse intirizzite che masticano gomma americana.
E' il primo sabato di ottobre, la sto portando ad abortire.

 
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Post N° 58

Post n°58 pubblicato il 17 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Tua madre è tornata in città.
Non c'è più traccia del mio bivacco solitario, il tavolino dove posavo le gambe quando leggevo è di nuovo al suo posto, lontano dalla mia poltrona, al centro del tappeto, nel cerchio dei divani.
Su quel basso tavolino di legno a intarsi sono posati i bicchieri dal gambo rosato, una ciotola di cruditès e una terrina di prugne avvolte nel bacon.
Elsa ha invitato i nostri amici a cena.
Ho operato fino a tardi con molti disguidi, diverse assenze in camera operatoria, perchè da settembre sono ricominciati gli scioperi.
Ho buttato le chiavi nella ciotola di ebano all'ingresso e ho sentito le voci che provenivano dal soggiorno.
Mi sono infilato nel bagno di servizio e mi sono sciacquato il viso prima di andare di là.
Ciao, ciao, ciao.
Pacche sulle spalle, baci.
Zaffate di profumo, ciocche di capelli, aliti di vino e sigarette.
Sono appoggiato alla libreria, Manlio è davanti a me.
Parla, di tutto.
Di barche, di Martine che è di nuovo in clinica per disintossicarsi, di una sutura addominale liscia come un culo che poi si è infettata, ha fatto lo scalino.
Ha un sigaro in mano, e quella mano è troppo vicina al mio viso.
"E tu come stai?"
"Il sigaro, Manlio..."
"Ah, si, scusa" e allontana un poco il braccio.
"Ti devo parlare."
Mi guarda, butta fuori uno sboffo puzzolente: "Hai una faccia da zombie, che hai fatto?"
"E' arrivata la pasta."
A tavola non ascolto nessuno, mangio, guardo il piatto e affondo la forchetta, bevo un bicchiere di vino, poi mi allungo verso la zuppiera e mi servo di nuovo.
Ho una fame da zotico.
La tavola brulica di rumori, di voci.
Un rigatone è caduto sulla tovaglia, lo raccolgo con la mano.
Tua madre mi guarda.
Ha una maglietta verde marezzata di venature trasparenti, ai lobi due piccoli smeraldi.
I capelli raccolti, e una sola ciocca libera che le spiove sul viso, è bellissima.
Penso alla ragazza scalza dentro la vetrina, e Italia che dice: quest'anno va di moda il verde.
"Il dolce non lo vuoi?"
Mi sono alzato da tavola: "Scusatemi, devo fare una telefonata."
Vado in camera e compongo il numero, il telefono suona a vuoto.
Mi distendo sul letto.
Elsa entra.
"Chi stai chiamando?"
"Nessuno, è occupato."
Si è infilata nel nostro bagno e adesso sta facendo pipì, nello specchio dell'armadio la vedo riflessa, la gonna sollevata sulle natiche.
"Un paziente?"
"Già."
Tira la catena, spegne la luce e esce dal bagno.
"Un cancro 'importante'?" sorride.
Non è facile vivere con un uomo che fa un lavoro così triste, ha finito per l'accettare il mio gergo, per riderci su.
Sorrido in risposta.
"Almeno togli le scarpe dal letto" ed esce dalla stanza.
"Pronto?"
"Dov'eri?"
"Qui."
"Ho provato tanto."
"Forse non ho sentito."
Ha il fiatone e un frastuono che le rimbomba intorno.
"Cos'è?"
"L'aspirapolvere, aspetta che spengo."
Si allontana e torna nel silenzio.
"Ma che fai, pulisci a quest'ora?"
"Mi scarica."
"Volevo mandarti un bacio."

 
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Post N° 57

Post n°57 pubblicato il 08 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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"Perchè non mi hai detto che eri incinta?"
"Non lo sapevo."
Si stringeva l'asciugamano alla vita, la sua voce tremava.
"Non voglio restare qui, sono tutta sporca."
"Ti farò dare qualcosa dalle inservienti."
Arrivò un'infermiera.
"Venga, che l'accompagniamo al suo letto."
"Vai" sussurrai, "vai."
E la vidi che si allontanava in quel corridoio dalle luci ammezzate, senza voltarsi.
A casa, mi sfilai le scarpe senza sciogliere i lacci e le scaraventai lontano da me, poi mi stesi sul letto così com'ero.
Sprofondai in una fossa di bitume, e mi svegliai all'alba, perplesso, già stanco.
M'infilai sotto la doccia.
Italia aspettava un figlio, l'acqua scivolava, s'incanalava, correva lungo la pelle e Italia aspettava un figlio.
Cosa avremmo fatto adesso?
Ero nudo nel bagno della casa che dividevo con mia moglie, m'insaponavo il ciuffo di pelo dell'inguine.
Dovevo riflettere, e invece correvo, i pensieri si accavallavano, come fondali dietro le quinte di un teatro.
Arrivai in ospedale molto in anticipo ero in ansia, avevo il presentimento di non trovarla.
Infatti non c'era, aveva firmato e se n'era andata.
"Quando?" chiesi all'infermiera.
"Adesso."
Risalii in macchina e percorsi il ciale che costeggiava gli edifici dell'ospedale.
La trovai alla fermata dell'autobus.
Stentai a riconoscerla perchè indossava un camice da infermiera.
Era appoggiata al muro, da una mano le pencolava un sacchetto di plastica da cui traspariva la spugna del mio asciugamano.
Mi fermai accanto a lei, non mi vide.
Le strade cominciavano appena ad animarsi.
Mi tornò in mente quella volta che l'avevo attesa in macchina, e l'avevo spiata.
C'era caldo, lei era truccata, ancheggiava, mi piacevano i suoi tacchi alti, mi piaceva che fosse volgare.
Quanto tempo era passato?
Ora indossava quel camice troppo largo, si era smagrita ancora di più durante quell'estate.
Solo ora mi accorgevo di quanto fosse cambiata.
Si era scolorata, per colpa mia, forse, si era scolorata così.
Un pagliaccio senza belletto.
Eppure, per me era ancora più bella, ancora più desiderabile.
E ora non c'era più nulla, solo lei addosso a quel muro, al centro del mirino.
Fui assalito da un timore insensato.
E se qualcuno la centrasse?
Se una pallottola le finisse nel petto, e se lei scivolasse a terra scordando solo una scia di sangue sul muro dove la sto guardando...
Volevo gridargli di togliersi da lì perchè qualcuno ora stava premendo il grilletto, un cecchino appostato alle mie spalle, magari sul tetto dell'ospedale.
Aveva una faccia così, di una che sta per essere colpita ma non ha la forza di scansarsi.
Invece si muove, esce dal muro e non è successo niente.
C'è il dorso dell'autobus, è lui che la copre.
non faccio in tempo a fermarla, è già salita.
Mi metto appresso all'autobus, al suo tubo nero che rutta un fumo appestante.
Si ferma di nuovo, lascio la macchina in mezzo alla strada e salgo anch'io.
Cerco Italia per farla scendere con me, ma la trovo troppo tardi, quando la porta si è già richiusa.
E' sprofondata dentro un sedile, la testa appoggiata al vetro.
Mi porteranno via la macchina, pazienza.
"Ciao, Gramigna."
Ha un sussulto, si volta, riprende fiato.
"Ciao."
"Dove stai andando?"
"Alla stazione."
"Parti?"
"No, volevo vedere gli orari dei treni."
Restiamo così, in silenzio, gli occhi sulle strade che stanno cominciando a riempirsi del primo traffico.
C'era una madre che attraversa con due bambini, Italia la guarda.
Le metto una mano sulla pancia.
Una mano grande, ferma.
Il suo ventre geme.
"Come ti senti?"
"Bene", e mi toglie la mano, si vergogna di quel rumorio interno.
"Di quanto sei?"
"Di poco, due mesi, nemmeno."
"Quando è successo?"
"Non lo so."
I suoi occhi sono immensi e calmi.
"Non ti devi preoccupare di niente, non mi devi dire niente, ho già deciso da sola."
Scuoto la testa, ma non dico nulla.
E forse lei si aspetta che io dica qualcosa.
Guarda di nuovo fuori, le strade che traballano oltre il vento.
"Ti chiedo solo un favore, non ne parliamo più. E' una cosa brutta."
Scendiamo dall'autobus, passeggiamo uno accanto all'altra, senza toccarci.
Italia è vestita da infermiera e siamo così deboli insieme.
Dentro la vetrina di un negozio c'è una ragazza che toglie il cartello dei saldi per allestire la mostra autunnale, si muove a piedi scalzi su un tappeto di foglie e castagne di plastica.
Italia si ferma a guardare la vetrinista che adesso sta infilando un vestito a un manichino spettinato.
"Va di moda il verde quest'anno..."
Stiamo camminando verso il parcheggio dei taxi.
Ci sono tre vetture che aspettano.
Attraversiamo di corsa perchè il semaforo sta per scattare.
Apro la portiera e faccio salire Italia, poi mi chino su di lei e le metto in mano i soldi per pagare la corsa.
"Grazie" sussurra.
"Non ti preoccupare" dico a voce bassa perchè non voglio che l'autista mi senta, "adesso organizzo tutto io, stai tranquilla."
Lei stira le labbra in un modo che vorrebbe sembrare un sorriso, invece è solo un ghigno esausto.
Ha voglia di restare sola, e forse non si fida più di me.
Allungo una mano nell'abitacolo, gliela passo sul volto, voglio redimerle quello sguardo ferito, sbarrato.
Chiudo lo sportello e il taxi se ne va.
Rimango solo, faccio qualche passo: verso dove?
A riacchiappare i pensieri, la macchina ferma in mezzo alla strada.
Sono in ritardo per la camera operatoria, pazienza.
Ha sperato fino all'ultimo che le dicessi qualcosa di diverso.
C'era una speranza appoggiata in fondo ai suoi occhi, come una scopa dimenticata in un canto, ho finto di non accorgermene.
Non ho avuto nemmeno il coraggio di essere spietato, di indurla io a quella decisione.
Ho lasciato che facesse la sua scelta, che prendesse lei la colpa, e in cambio le ho offerto un taxi.






 
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Post N° 56

Post n°56 pubblicato il 08 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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"Dove mi porti?"
"In ospedale."
"No, voglio andare a casa, sto meglio."
Era scivolata giù dal sedile e si era accucciata in basso.
"Che fai?"
"Così non ti sporco il sedile."
Staccai una mano dal volante e mi chinai verso di lei.
Agguantai un lembo della sua maglietta: "Tirati su!".
Ma lei riuscì a resistere.
"Sto bene quaggiù, ti guardo."
Il pronto soccorso era spopolato, solo un vecchio in un canto, con una coperta sulle spalle.
Conoscevo uno degli infermieri di guardia, un ragazzo corpulento con il quale ogni tanto parlavo di calcio.
Avevo dato a Italia il mio asciugamano da mare rimasto sul sedile posteriore, era scesa dalla macchina con quella spugna girata intorno ai fianchi.
L'infermiera l'aveva fatta stendere nell'astanteria su una lettiga, dove Italia con il collo torto mi guardava.
Il medico di turno arrivò quasi subito, una giovane donna che non ricordavo di aver mai vista prima.
"Venga, saliamo a fare un'ecografia."
Entrammo tutti e tre in ascensore.
La donna aveva tracce di sonno sul viso, sui capelli schiacciati, mi sorrideva ossequiosa, sicuramente sapeva chi ero.
Italia adesso aveva un colorito migliore, era salita in ascensore con le sue gambe.
Durante la visita mi allontanai e mi diressi verso il mio padiglione.
Approfittavo per dare uno sguardo a un paziente che avevo operato il giorno prima.
Mi avvicinai al letto dell'uomo: dormiva e aveva un buon respiro.
"Domani possiamo togliergli il drenaggio, professore?" mi chiese la suora che mi aveva seguito nella camerata.
Quando tornai, Italia stava uscendo dalla stanza per le ecografie.
"E' tutto apposto, c'è stato un parziale distacco di placenta, ma l'embrione ha resistito."
Rimasi per una frazione di secondo a guardae il volto della dottoressa, le mascelle squadrate, la pelle lucida del naso, gli occhi troppo ravvicinati.
Feci un passo indietro e istintivamente mossi lo sguardo oltre le sue spalle, quasi temessi che qualcun altro avesse udito le sue parole.
"Bene" credo di aver detto, "bene."
La donna aveva senza dubbio registrato il mio turbamento.
Ora mi guardava con una strana complicità.
"Io, professore, farei comunque il ricovero. Sarebbe meglio che la signora non si affaticasse, almeno per un pò."
La signora era rimasta qualche passo dietro di lei, tramortita; potevo percepire chiaramente la sua agitazione.
Non era una signora, era una signorina, la mia amante.
Ci guardammo per un solo istante, di sfuggita.
Spostai leggermente il perso del corpo sull'altra gamba per evitare che l'asse del mio sguardo la includesse.
Non dovevo stabilire nessun contatto con lei, non ora almeno.
Ero lì nel mio ospedale, davanti a una donna che mi conosceva per i miei meriti professionali e che adesso di sicuro indovinava qualcosa della mia vita intima.
Dovevo portarla via, si, bisognava che sparisse, poi avrei riflettuto.
Camminavamo verso l'ascensore, le natiche della dottoressa ondeggiavano sotto il camice.
Chi mi garantiva che fosse una donna discreta?
Mi sembrava di cogliere qualcosa di sciatto nel suo modo di camminare.
Domani forse la notizia avrebbe fatto il giro dell'ospedale, sguardi maliziosi mi avrebbero raggiunto, trafitto nella schiena, chiacchiere che non avrei potuto mettere a tacere.
Italia era dietro di me, ora sentivo di essere furioso con lei.
Non mi aveva detto nulla, mi aveva tenuto all'oscuro, aveva lasciato a un'astranea il compito di rivelarmi una cosa del genere, qui nel mio ospedale.
S'era goduta la mia faccia trasecolata.
Avevo quasi voglia di colpirla, di affondarle una manata, cinque dita rosse stampate su quel muso bugiardo.
Tornammo di sotto per l'accettazione.
Mi voltai verso Italia e la guardai in un modo che dovette sembrarle terribile.
"Cosa vuole fare, signora?"
"Voglio andare a casa" balbettò.
"La signora firma per uscire" mi rivolsi all'infermiere: "dammi il modulo".
Tirai fuori la penna dal tascino interno della giacca e compilai io stesso il modulo, poi lo spinsi sotto le mani rosicchiate di Italia, porgendole la penna.
Mossi gli occhi sul suo viso, era tornata molto pallida...
Trattenni la penna.
Non ero più certo di quello che stavo facendo, ero un medico, non potevo rischiare.
E se le fosse venuta un'emoreggia?
Non potevo lasciarla andare così.
Avrei avuto modo di maltrattarla più tardi, ora era importante che restasse lì, al sicuro.
Stracciai il modulo: "Facciamo il ricovero".
Lei tentò di opporsi, ma senza forza: "No...voglio andarmene, sto bene".
La dottoressa mosse un passo verso il tavolo.
"Signora, il professore ha ragione, è meglio che per questa notte rimanga."
Sbrigammo la pratica del ricovero rapidamente, poi risalimmo verso ginecologia.
L'ascensore si aprì al piano.
Nel corridoio notturno c'era silenzio e il solito odore di medicinali e di minestrina.
Io amo l'ospedale di notte, Angela, per me ha il sapore furtivo di una donna struccata, di un'ascella nel buio.
Italia invece sembrava spaventata, camminava quasi aggrappata al muro, l'asciugamano con le stelle marine intorno al sedere, come una naufraga.
Restammo soli per qualche istante.


 
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Post N° 55

Post n°55 pubblicato il 07 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Una donna faceva il bagno nel mare, la sua testa scompariva e riaffiorava tra le schiume.
Uscì dall'acqua fino alla vita.
Si strizzò i capelli, attorcigliandoseli con le mani, poi scosse la testa.
Camminò fino alla riva, nell'acqua sempre più bassa il suo corpo si rivelò a poco a poco.
Indossava un due pezzi turchese.
Non era abbronzata.
La pancia bianca leggermente prominente, come quella di un bambino che ha appena mangiato.
Avanzava verso di me, oscillando le anche ossute.
Credetti di sentire il fruscio del suo respiro, le gocce di mare che si staccavano dal suo corpo in movimento e ricadevano sulla sabbia.
Credetti di voler alzare un braccio per fermarla, ma nessun gesto si staccò da me.
Tutto era immobile, congelato.
Lei sola si muoveva al ralenti.
Incastonato nel mio blocco di pietra, aspettavo la fine.
Passò, e nemmeno trovai il coraggio di seguirla con la testa, avevo il collo indurito dallo choc.
Ma nelle iridi rimaneva il miraggio di lei, quella sagoma deperita che si avvicinava scalzando la sabbia.
Poi tornò il sonoro intorno a me, il soffio del vento che si era levato ancora, e, a poco a poco, le chiacchiere di mia suocera sempre più presenti, il duro respiro di mio suocero.
Come quando ci si avvicina alla riva con la barca, e si ricomincia a sentire sempre più prossimo il murmire della spiaggia.
Allora mi voltai, alle mie spalle trovai solo il muro farinoso delle dune, Italia era scomparsa.
Trascorsi quel che avanzava del giorno in trance.
Tutto mi sembrava eccessivo, troppo acute le voci, troppo invasivi i gesti.
Chi era quella gente ottusa che mi viveva intorno, che stazionava nella mia casa?
E dire che un tempo mi era sembrato un bel balzo sociale imparentarmi con questa specchiata famiglia di imbecilli!
A cena faticai per portare la forchetta verso la bocca.
Quel transito dal piatto alle labbra era diventato lunghissimo.
Mi alzai da tavola per andare in bagno.
Nel corridoio lo yorkshire terrier di mia suocera saltò fuori da un angolo buio, digrignando i denti.
Slanciai la gamba e colpii quel cagnetto da salotto.
Zoppicando, filà di là dalla padrona, che gli stava già correndo incontro.
"Scusami, Nora, l'ho urtato per sbaglio."
Mi stesi in terra sul tappeto in una delle stanze al piano di sopra.
Mi sentivo uno di quei fiacchi vermi che d'estate pencolano appesi a un viticcio secco, quei vermi che, storditi, cascano in terra senza rumore.
Dopo cena i genitori di Elsa se ne andarono, io mi mossi subito dopo.
Elsa mi aveva raccomandato di scortarli fino alle prime luci della città.
Mio suocero giudava lentamente lungo quelle strade buie che non conosceva troppo bene.
Oltre il parabrezza, osservavo quelle due teste immobili, mute.
A cosa stavano pensando?
Alla morte forse, è facile pensare alla morte la domenica sera.
Oppure alla vita, a una cosa da comprare, da mangiare.
A quella vita che in ultimo diventa solo voracità.
Si prende e non si ha più il desiderio di dare qualcosa in cambio.
Verso quello stesso silenzio io e Elsa ci stavamo incamminando.
La solitudine che lambivo come i fari sarebbe stata nostra tra qualche anno.
Due fantocci correvano davanti a me nella notte.
Ero ancora in tempo per fermare quel viaggio e riconsegnarmi alla vita, una vita diversa nella quale magari non avrei fatto in tempo a raggiungere quelle figure anziane.
Sterzai e mi fermai ai margini dell'asfalto.
La macchina dei mie suoceri scomparve davanti a me oltre la curva nera.
Quella sera sentivo che sarei morto giovane, e che Italia era un dono al quale non avrei rinunciato.
"Come hai fatto a trovare la casa?"
"Ho camminato sulla spiaggia."
"Ma perchè?"
"Volevo farti un regalo di compelanno, volevo che tu mi vedessi in costume da bagno."
Era ancora in accappatoio, intorpidita si stringeva al suo cane.
"Ti lascio dormire."
"No, usciamo."
Per strada camminò lentamente, il braccio infilato dentro il mio.
Entrammo nel bar, il solito.
"Cosa prendi?"
Non mi rispose.
Si era appoggiata con tutto il peso del corpo al bancone.
Vidi la sua mano che strisciava sul piano di metallo verso i tovaglioli di carta.
Con un gesto aggressivo li divelse dal loro contenitore e si precipitò fuori con la schiena curva in avanti, arrancando.
La raggiunsi, si era appoggiata al muro, la testa bassa.
"Cos'hai?"
Aveva le mani strette tra le cosce, i tovaglioli stretti lì in mezzo.
"Non sto bene, portami a casa..." sussurrò.
C'era poca luce, ma adesso vedevo che i tovaglioli bianchi si erano fatti scuri tra le dita.
"Stai perdendo sangue..."
"Portami a casa, ti prego."
Ma intanto era svenuta.
La presi in braccio, camminando fino alla mia macchina e l'adagiai sul sedile.
Avrei corso il rischio di portarla nel mio ospedale.
Guidavo e cercavo di ricordarmi se qualche amico era di guardia quella sera.
Lei si era ripresa, pallida, gli occhi mogi aperti sulla città notturna.


 
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Post N° 54

Post n°54 pubblicato il 07 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Il giorno del mio compleanno.
Non è una ricorrenza che accolgo con particolare fervore, lo sai; nonstante gli anni mi torna su l'amarezza che provavo da ragazzino.
Le scuole non erano ancora aperte, i miei amici latitavano chissà dove, così non ho mai avuto una vera festa.
Crescendo ho cominciato io stesso a ignorare questa data.
Ho pregato tua madre di non perdere tempo a organizzare feste a sorpresa, che non mi sorprendono affatto.
Lei si è lasciata convincere, e io, senza mai confessarglielo, ho provato risentimento nei suoi confronti per avermi trascurato con tanta facilità.
La giornata non era delle migliori.
Il sole rimaneva soffocato dietro un ammasso di nubi calcinose e indefinite.
I miei suoceri, appena rientrati da una crociera in Mar Rosso, erano venuti a farci visita.
Di pomeriggio tornammo sotto gli ombrelloni.
Nonna Nora esibiva un'abbronzatura punteggiata di abrasioni che le aveva procurato l'estetista per cancellarle le macule senili.
Dalla fronte di nonno Duilio sporgeva la visiera di un cappello da capitano di lungo corso.
D'estate si vestiva così, pantaloni corti, calzettoni tesi sui polpacci ancora robusti, scarpe di corda intrecciata.
Seduto su una bassa sediola da spiaggia, tamburellava le dita sui ginocchi, scandendo il tempo del suo poderoso silenzio.
Non mi trovavo a mio agio con mio suocero.
Tu lo conosci per come è oggi, sperduto, soave, e con te molto affettuoso.
Ma sedici anni fa conservava ancora il piglio sdegnoso, la penuria di clemenza che nella sua professione lo avevano condotto molto in alto.
E' stato uno degli architetti più potenti di questa città, quando morirà una strada porterà senz'altro il suo nome.
Cominciava appena a essere anziano, e faticava a rimanersene nel canto della discrezione che la sua età suggeriva.
Si comportava in maniera orribile con sua moglie, che era troppo svampita per accorgersene.
Elsa aveva un'autentica venerazione per il padre, i primi anni di matrimonio le attenzioni smisurate che gli dimostrava mi offendevano.
Quando lui era presente io non esistevo.
Poi la cosa si è attenuata con il passare del tempo, lui è invecchiato del tutto, e purtroppo ho cominciato a invecchiare anch'io.
Adesso, che trascorre le giornate davanti alla televisione con la piccola filippina che lo assiste, siamo buoni amici, lo sai, e se almeno due volte la settimana non passo da lui per misurargli la pressione ci resta male.
Il volto infilato nelle bracia, Elsa era rovesciata su un fianco, parlava con la madre.
Aveva modeste complicità con lei, non riusciva a perdonare alla povera Nora la sua frivolezza.
Elsa, come suo padre, non era mai stata indulgente, la sua vera debolezza è questa.
"Mia madre è tanto buona" diceva, "e tanto cretina."
Quando è morta, come d'incanto, Nora ha cassato di essere una cretina.
Tua madre, spinta da un'ansa furtiva del suo inconscio, ha cominciato a plasmarla come una donna diversa, vulnerabile ma volitiva, limpido esempio per lei.
Fino a quel giorno, poco tempo fa, quando l'ho sentita dirti: "Tua nonna non aveva una grande cultura, ma era la donna più intelligente che abbia mai conosciuto".
L'ho guardata, ha risposto al mio sguardo tranquillamente.
Tua madre sa dimenticare, sa muovere le cose per come le servono nel momento esatto in cui le utilizza.
Da un lato è terribile, da un altro è come se desse a tutto ciò che la circonda la capacità di rinascere continuamente.
Io devo essere rinato molte volte tra le sue mani, senza accorgermene.
Stavo così, sprofondato nel silenzio della vita riconosciuta.
Qui ero un uomo libero, non avevo bisogno di nascondermi.
La gente mi conosceva, mia moglie, mio suocero, tutti mi conoscevano.
Eppure ora mi sembrava che fosse questa la vita parallela, non l'altra.
Quella con Italia, nei sussurri, nella segregazione, quella era la vita vera.
Clandestina, senza cielo, spaventata, ma vera.

 
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Post N° 53

Post n°53 pubblicato il 03 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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E tu, Angela, hai mai fatto l'amore?
Ricordo il giorno in cui sei diventata donna, tre anni fa.
Eri a scuola, la professoressa d'inglese ti ha accompagnata in direzione, hai telefonato a tua madre al giornale, lei è venuta a prenderti per portarti a casa.
In macchina ha scherzato, tu hai sorriso fiacca, come un'ammalata, eri stranita, un pò arrabbiata.
Avevi aspettato quel momento, però adesso di dispiaceva crescere.
Eri stata una bambina indipendente e ruvida, abituata a sbrigartela da sola, adesso eri un fungo di dodici anni.
Il tuo corpo era ancora infantile, molto più di quello delle tue amiche, e i tuoi pensieri, i tuoi giochi erano ancora da bambina.
Ma dentro qualcosa si era mosso, malgrado te.
Il primo ovulo era maturato e si era rotto.
Il sangue suggellava la fine dell'infanzia.
Me lo disse tua madre, mi venne incontro all'ingresso.
Aveva una faccia di luce, non era più la dona uscota di casa al mattino, aveva una faccia da levatrice.
Voi donne siete mutevoli, pronte a catturare la vita, a riempirvi di farfalle.
Noi maschietti siamo incolonnati lungo il vostro muro come lombrichi.
Ho sorriso, mi sono attardato sul soprabito.
Stavi stesa sul letto, con quegli occhi neri, grandi, quella faccia lunga da gatto magro.
Mi avvicino e mi curvo accanto a te.
"Angela..."
Sorridi appena, la tua pelle si arriccia nel pallore.
"Ciao, papo."
Vorrei dirti chissà che, ma non mi viene fuori niente.
In questo momento sei solo di tua madre, io sono un ospite imbranato, di quelli che rovesciano i bicchieri.
Hai le mani sulla pancia, le gambe piegate, ferme.
Sei il mio asparago, il mio profumo preferito.
Quante volte ti ho spinta in altalena, quante volte la tua schiena è tornata indietro nelle mie mani.
E non ho fermato quel momento, l'ho lasciato andare, e forse non mi andava nemmeno di spingerti, volevo leggere il giornale.
Ti sfioro la fronte.
"Brava" dico, "brava."
E, curvo nel mio studio, sotto quell'ombrellino liberty che centra con la sua luce calda il piano del mio scrittoio e la testa calva, penso ancora a te.
Mi sono ritirato qua dentro, a voi donne il resto della casa, panni bianchi, ovatta, sangue di vergine.
Tua madre ha preparato il tè, lo ha portato in camera tua sul vassoio londinese con i gatti.
Inzupperete biscotti con le gambe incrociate sul tappeto come due coetanee.
Oggi è una giornata speciale, si resta chiusi in casa, al caldo, non si cenerà.
Io mangerò un pò di formaggio da solo in cucina, più tardi.
Penso che un giorno farai l'amore.
Un uomo si avvicinerà a te con le sue mani, con la sua storia.
Si avvicinerà alla mia lungona con i pantaloni sempre troppo corti, non per un cambio di figurine, o per reclamare il suo turno all'altalena, ma per infilzarti con il suo stecco.
Mi ciancico gli occhi sotto le mie mani, brutalmente, perchè l'immagine che mi rimbalza davanti è troppo forte.
Sono tuo padre, il tuo sesso per me è quel panino di carne implume che si riempiva di sabbia in spiaggia.
Ma sono un uomo.
E sono stato un uomo livido e barbaro che ha stuprato una donna, una bambina invecchiata.
L'ho fatto perchè l'ho amata subito e non volevo amarla.
L'ho fatto per ucciderla e volevo salvarla.
Mentre mi stropiccio gli occhi per ricacciare indietro quell'immagine di me stesso, vedo un maschio, una schiena di foia che si avvicina a te.
E adesso lo prendo per la collottola e gli dico: stai attento a te, quella è Angela, il bianco della mia vita.
Poi lascio la presa.
Lascio quei pensieri che offendono, non ho alcun diritto di pensare a te che fai l'amore.
Sarà come vorrai tu.
Sarà dolce.
Sarà con un uomo migliore di me.

 
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Post N° 52

Post n°52 pubblicato il 03 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Il piccolo corpo della mia amante era curvo sulla sponda del letto, guardavo il punto dove la schiena magra di allargava sulle natiche.
L'avevo leccata, la mia lingua aveva viaggiato dalla scriminatura dei suoi capelli fino ai piedi, si era infilato in ogni fessura, tra dito e dito.
Lei aveva avuto piacere e freddo insieme, la sua pelle si era aggricciata al mio passaggio.
Sentivo di volerla amare così, tratto a tratto, nell'immobilità, nel silenzio.
Non era più come era stato, non erano più amplessi furiosi, ciechi, i nostri.
Avevo preso l'abitudine di tenerla lì ferma sul letto solo per baciarla.
Volevo che attraverso le mie cure lei percepisse se stessa.
Con la lingua dolorante la solcavo, senza più saliva alla fine.
Era impudica, quasi sfacciata nel sesso, invece si vergognava delle callosità che indurivano le piante dei suoi piedi, si vergognava dell'amore.
Solo in ultimo la prendevo, quando ero già stanco, m'infilavo dentro di lei, come un cane.
Un cane che ha corso giorni e giorni tra sterpi, rovi, sassi, e slombato ritrova la sua cuccia.
"Lasciami" sussurra.
La sua voce è sottile e fredda come un filo di metallo.
"Cosa dici..."
Mi avvicino, le carezzo quella schiena solitaria.
"Io non posso, non posso più..." e scuote la testa.
"E' meglio adesso, sai, adesso."
Si è presa il viso tra le mani: "Se mi vuoi un pò di bene, lasciami".
La stringo forte, i suoi gomiti si piazzano nella mia pelle.
"Io non ti lascerò mai."
E sono quasi certo di quello che dico che il mio corpo s'indurisce, ogni mia fibra s'indurisce mentre l'abbraccio, come se una corazza di forza si fosse stretta intorno a me.
E restiamo così, ognuno con il mento nella spalla dell'altro, a guardare nel proprio vuoto.
Cosa vuol dire amare, figlia mia?
Tu lo sai?
Amare per me fu tenere il respiro di Italia nelle braccia e accorgermi che ogni altro rumore si era spento.
Sono un medico, so riconoscere le pulsazioni del mio cuore, sempre, anche quando non voglio.
Te lo giuro, Angela, era di Italia il cuore che batteva dentro di me.
E faceva sempre un sogno.
Sognava che il suo treno partiva senza di lei.
Arrivava in anticipo alla stazione, aveva un abito buono addosso, comprava una rivista, poi camminava sotto la pensilina, tranquilla.
Il treno era lì che l'aspettava, un treno elegante, rosso e grigio, diceva.
Stava per salire, ma ecco che perdeva tempo, frugava nella borsetta, cercava il biglietto.
Voleva leggere la destinazione, per quello perdeva tempo.
Il treno si staccava dai binari, e lei rimaneva lì, e non aveva più la borsetta, nè le scarpe.
La stazione alle sue spalle era vuota e lei era nuda, "come in un quadro" diceva.
Mi raccontò che questo sogno l'aveva straziata a lungo fin da giovanissima, poi si era smarrito, e solo con me era riapparso.
Io credo che nei sogni ci puniamo, Angela, difficilmente ci premiamo.
"Dammi la mano" disse, "la sinistra."
L'allargò, passò il suo palmo sul mio come volesse pulirlo, sgombrarlo dal pulviscolo si altre cose che non ci riguardavano.
"Hai la vita lunga, con un taglio al centro."
Io non credo a queste scemenze, scrollai le spalle.
"Cosa vuoi dire?"
"Che sopravviverai."
Ma ora mi chiedo se quel taglio eri tu, Angela.
Se Italia ti ha incontrata nella mia mano.
"Ora stringi forte, così vediamo i figli."
Scrutò tra le pieghe del mio pugno, accanto al mignolo.
"Ce n'è uno, anzi, due. Bravo" rise.
"E tu?" dissi.
"Fammi vedere la tua mano, com'è la tua vita?"
Si alzò in piedi senza smettere di ridere.
"E' lunghissima, non ti preoccupare, l'erba cattiva non muore mai, mia madre mi chiamava Gramigna."
Quando ci salutammo mi corse dietro, si aggrappò a me.
"Non mi prendere mai sul serio quando ti dico di lasciarmi. Tienimi, ti prego, tienimi. Vieni quando ti pare, una volta al mese, una volta all'anno, ma tienimi..."
"Certo che ti tengo. Io ti amo, Gramigna."
Scoppiò a piangere, eruttò pianto, una lava di lacrime che mi bruciava addosso.
"Perchè?"
Si era staccata dal mio abbraccio.
La faccia rossa, gli occhi rossi fissi nei miei, adesso mi prendeva a pugni un braccio: "Scopo da quando ho dodici anni, e nessuno mi ha mai detto ti amo. Se mi prendi in giro, ti ammazzo!"
"Con questi pugnetti?"
"Si."

 
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Post N° 51

Post n°51 pubblicato il 01 Novembre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Nella casa al mare tua madre comincia a raccogliere le sue cose, l'estate è quasi finita.
Sono seduto in giardino, guardo il grande e il piccolo carro, la stella polare.
Mi raggiunge, ha un cardigan posato sulle spalle e un bicchiere in mano.
"Vuoi qualcosa da bere?"
Scuoto la testa.
"Cos'hai?" dice.
"Niente."
"Sei sicuro?"
L'autunno arriverà, il mare diventerà grigio, la sabbia sporca, il vento la farà volare, la casa sarà già chiusa.
Elsa sente nelle spalle quel piccolo assaggio di malinconia.
A letto si stringe a me, vuole fare l'amore.
"Vuoi già dormire?"
Non mi sposto, rimango dalla mia parte: "Ti dispiace?"
Le spiace.
Smette di baciarmi, ma resta a respirarmi addosso, con intenzione.
Il soffio carico del suo respiro mi allontana dal sonno.
"Scusami, sono stanchissimo..."
Mi volto, la sua faccia è ferro nel buio.
Il suo corpo fruscia sul lenzuolo e si allontana dal mio.
Ora mi dà la schiena.
Aspetto.
Non voglio che sia triste.
Allungo un braccio verso di lei, mi scaccia con un lieve moto della spalla.
"Dormiamo" dice.
L'indomani mi sveglio tardi.
Trovo Elsa in cucina, indossa la sua vestaglia di seta cruda.
"Ciao" dico.
"Ciao."
Mi preparo la macchinetta del caffè, la metto sul fuoco e, mentre aspetto che il caffè esca, mi siedo.
Mia moglie è alta, le sue spalle sono un trapezio perfetto, due linee oblique che corrono fino alla strettoia della vita.
Sta sistemando dei fiori dagli steli lunghi.
"Dove li hai presi?"
"Me li ha regalati Raffaella."
E' ancora arrabbiata, lo capisco da come muove le mani, gesti sbrigativi che hanno il solo intento di ignorarmi.
Da quanto tempo non le regalo dei fiori?, penso.
E forse anche lei sta facendo lo stesso pensiero.
Si è infilata i capelli dietro le orecchie.
E' contro la finestra, da dove penetra una luce vivida, appena soffocata dal cotone della tenda.
Le guardo il profilo, le sue labbra scolorite sono due bolle di carne burbera.
Ci sono molti pensieri per me in quelle labbra, forse contro di me.
Mi alzo, mi riempio una tazzina e bevo.
"Vuoi un pò di caffè?"
"No."
Mi servo un'altra tazzina e bevo anche quella.
Elsa si è tagliata.
Ha lasciato cadere le forbici sul tavolo e si è portata il dito ferito nella bocca.
Mi avvicino a lei.
"Non è niente" dice.
Ma io le prendo la mano e la spingo sotto il getto dell'acqua.
Acqua rosata del suo sangue scompare dentro il buco nero al centro dell'acquaio.
Le asciugo il dito nella mia maglietta, poi cerco il disinfettante e un cerotto nel pensile dei medicinali.
Tua madre mi lascia fare, le piace quando mi occupo di lei come medico.
Poi le bacio il collo.
Me lo ritrovo accanto, il suo collo, e lo bacio, lì dove scompare nella nuca invasa dai capelli.
E ci abbracciamo in cucina accanto ai fiori sparpagliati sul tavolo.
Quando esco dalla doccia, lei sta battendo a macchina in un angolo separato del salone.
Deve sbrigarsi, dice, perchè è rimasta indietro con il lavoro.
Non ha più voglia di bagni e sole.
Lascerà che la sua pelle scura scolorisca nell'inverno.
Non si è vestita, indossa ancora la vestaglia.
In basso quella seta cade sul pavimento e le lascia scoperte le gambe.
Ho messo sul piatto del giradischi la Patetica di Cajkovskij.
Le note invadono come una tempesta di cristalli il salone dove entra il sole, ho i piedi nudi e leggo.
Gli occhi di tua madre viaggiano sui tasti, ogni tanto tira via un foglio, lo accartoccia e lo butta nel cestino di vimini che ha accanto.
Ha una natura sdegnosa, altera negli intenti, nelle linee del corpo.
Non mi appartiene, non mi è mai appartenuta, ora ne sono certo.
Non siamo programmati per appartenerci, siamo programmati per vivere insieme, per condividere lo stesso bidet.
Mi guarda, abbandona la macchina da scrivere e si avvicina.
Si siede sul divano di fronte a me, una gamba piegata sotto le natiche, un piede scalzo che sfiora il pavimento.
Comincia a parlare, e le sue parole sono un accerchiamento ponderato.
Frasi generiche sul lavoro, su un collega al giornale che le ha fatto uno sgarbo, poi di punto in bianco: "E tu cosa hai fatto al congresso?".
E subito dopo mi chiede che c'era e chi non c'era, e sento che il cerchio si chiude mentre dice: "La stanza com'era?".
"Anonima."
Sorrido, non sono io quello in difficoltà, ma lei.
La lascio abbrustolire nei suoi pensieri, sono calmissimo, se ha qualcosa da chiedermi, lo faccia pure.
Coraggio, moglie, fatti avanti.
Se hai davvero bisogno di chiarezza questa volta te la sbrighi da sola, non sarò io ad aiutarti.
Non mi sento in colpa, non ci riesco.
Cajkovskij suona, e dentro la sua musica stamattina sulla mi sembra più così drammatico.
Elsa si sta accanendo su una ciocca di capelli che sembrano bianchi perchè il sole li bagna da dietro.
Si affanna in bilico tra la curiosità e il timore di soffrire.
Eppure, se ora mi chiedesse di farlo, sarei pronto a frantumare il presepio.
Ma la verità ha le ascelle sudate, non è adatta alla regalità di mia moglie.
Mi guarda in un modo che conosco, anche se solo adesso mi sembra di decifrare il sentimento imprigionato dentro quelle retine opache: lì c'è una mancanza, un arresto, un muro.
I suoi sono gli occhi di una stupida.
E' una scoperta esplosiva.
Dietro tanta apparente intelligenza si cela una patina di coriacea sordità, quasi un'assenza di coscienza: è la sua scappatoia al dolore.
Sono gli occhi che mette quando è in difficoltà, quelli con i quali finge di capirmi, mentre invece mi abbandona a me stesso.
Ora si alza, va verso la cucina, ha quasi raggiunto la porta.
La sua schiena dritta, i suoi magnifici capelli che sussultano nel passi.
Prendo la mira al centro del suo corpo e le lancio il coltello...
"Vuoi sapere se scopo con un'altra?"
Si volta: "Hai detto qualcosa?".
Cajkovskij copre.
Non ha sentito.
O forse si, per questo traballa un pò.
Quella sera faccimao l'amore.
E' tua madre che mi prende, non l'ho mai vista così ardita.
"Piano" sussurro ridacchiando, "piano."
Ma lei è più forte di me, ha un suo progetto.
Mi sta abbattendo addosso un carico di energie costipate, stanotte sono la sua presa a terra.
La sua è una farsa erotica, che deve aver assimilato in qualche lettura, o al cinema.
Stanotte ha deciso per la passione bruciante.
E io sono in mezzo, sbalestrato, un ronzino scaraventato in una gara al galoppo.
Ora è scivolata in basso, ansima sotto il mio ventre.
Non sono abituato a vederla così sottomessa.
Mi sento in colpa come se a causa mia lei acconsentisse a depravarsi.
Voglio andarmene, voglio scappare via da questo letto, invece rimango.
Ora sono eccitato, ho guardato la sua testa e ho pensato...
E quel pensiero mi ha eccitato.
Mi rovescio addosso al corpo di tua madre, lo maltratto.
La spingo ai piedi del letto e la prendo come una capra e mentre lo faccio mi chiedo cosa sto facendo.
Dopo era sotto di me come un uovo rotto, si era girata nel suo guscio frantumato e mi guardava con una nuova intenzione.
Sembrava felice e malvagia come una strega che è riuscita in un sortilegio.
Per la prima volta da quando l'avevo conosciuta, ho pensato che volevo lasciarla.

 
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Post N° 50

Post n°50 pubblicato il 01 Novembre 2005 da unaqualunque_s
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Il giorno dopo la trovo in corridoio, ha fatto amicizia con le cameriere dell'albergo, segue il loro carrello che si sposta da una stanza all'altra, le aiuta, si china a prendere le lenzuola pulite e gliele passa.
Non mi vede subito, così ho il tempo di guardarla.
Parla in fretta, con il suo accento del sud.
E' più se stessa tra quelle ragazze in grembiule, è scivolata fuori dalla prigionia e si è unita alle sue simili.
Ha una cuffia da doccia sui capelli asciutti, sta facendo la stupida.
Mima le movenze di una cliente pretenziosa rimasta senz'acqua.
La ragazza grassoccia accanto a lei ride di gusto.
Non sapevo che Italia fosse così spiritosa.
La chiamo, si volta, si voltano anche le cameriere.
Italia si strappa la cuffia dalla testa e viene verso di me.
Ha il viso arrossato e freme come una bambina.
"Sei già qui..." sussurra.
L'ultima sera cenò al ristorante, fui io a pregarla di scendere.
Avevo voglia di guardarla in mezzo alla gente che ci credeva estranei.
Scese in ritardo.
Si diresse spedita verso un tavolino in fondo, accanto alla porta a vetri che si apriva su un'altra sala.
I miei commensali avevano aliti di vino e di livore professionale.
Manlio era arrivato solo quella mattina e già non ne poteva più.
Sparava a zero su un ricercatore statunitense, guru della farmacologia alternativa.
Disprezzava e aspirava il fumo della sigaretta.
L'accendino d'oro accanto al tovagliolo.
Io pensavo a quello che aveva ordinato Italia, mi sarebbe piaciuto servirle un bicchiere di vino.
Non le avevano portato ancora nulla, forse si erano dimenticati di lei, mi guardavo in giro cercando con gli occhi il cameriere.
Non era tranquilla, mi aveva fatto quel favore e adesso, gomiti sul tavolo, si pizzicava il mento con una mano, aspettava solo l'ora di andarsene.
Potevo percepire il suo imbarazzo anche a quella distanza.
Il cameriere si piegò su di lei, sollevò il coperchio a cupola che teneva calda la portata.
Italia mangiò con il cucchiaio, una minestra, forse.
Mi voltai verso Manlio: la stava fissando.
Lei doveva essersene accorta, aveva smesso di mangiare, giocherellava con un lembo del tovagliolo.
Alzò lo sguardo e vidi che lo spingeva senza nessuna cautela nel campo visivo di Manlio.
Di nuovo aveva quella faccia sfrontata.
Manlio mi colpì con il gomito.
"Mi guarda..." sibilò dentro un greve sorriso che gli gonfiava le mascelle.
"Sta sola, invitiamola, no?"
E prima che io possa trattenerlo, sempre che ne abbia l'intenzione, lui è già in piedi, e senza smettere quel sorriso da scimpanzè la raggiunge.
Gli altri intorno ridono, sono tutti un pò brilli.
Vedo Italia che scuote la testa, si alza, indietreggia, urta contro il carrello dei dolci, poi si allontana.
Manlio, si risiede accanto a me, mette mano sull'accendino d'oro.
"Da lontano era volgare" dice, "da vicino invece è brutta."
Lei è sul letto.
Sfoglia un dépliant dell'albergo.
"Chi era quel cafone?" dice, senza sollevare la testa.
"Un chirurgo ginecologo, cafone."
Ho mangiato bene, ho bevuto bene, ho voglia di fare l'amore.
Ma Italia resta troppo tempo in bagno, e quando esce non viene a letto, prende la sedia e si mette vicino alla finestra, guarda la corte interna, ha il viso ingiallito dalla luce che sale da lì, sta aspettando che la fontana si spenga.
Italia ha preparato dei panini per il viaggio, è scesa a comprare il formaggio, il salame, poi ha spaccato il pane sul letto.
Mi sono svegliato che raccoglieva le briciole con la mano.
Accanto all'ascensore ha salutato le cameriere, si è fatta lasciare gli indirizzi, le ha strette come sorelle.
In macchina, durante il viaggio di ritorno, parliamo poco.
A un certo punto Italia dice: "Ti vergogni di me, vero?".
Lo dice senza guardarmi, buttata dalla sua parte, mentre fissa la strada.
La sua borsa patchwork è colma di piccoli barattoli di miele e confetture della prima colazione che lei ha conservato ogni mattina.
Sorrido, allungo un braccio e sistemo lo specchietto retrovisore.
Ho la testa occupata da pensieri farraginosi, che si mescolano tra loro senza nessun nesso preciso.
Stamattina Elsa ha telefonato, lo squillo mi ha raggiunto in camera, avevo già i babagli pronti, pensavo fosse la reception, così ho risposto senza cautela.
Italia a detto qualcosa, qualcosa legata al suo documento, si era scordata di farselo restituire.
Tua madre ha sentito la sua voce.
"Chi c'è lì con te?"
Ho detto che era la cameriera, che la porta era aperta, che stavo andando via.
Ho alzato il tono della voce.
"Perchè ti arrabbi?"
"Perchè ho fretta."
Poi le ho chiesto scusa.
Lei ha detto ancora qualche altra cosa, la sua voce era leggermente cambiata.
E mentre guido penso che non sono più certo di quello che faccio.
Lascio Italia davanti al palazzo occupato, le raccolgo una mano e gliela bacio.
Ho fretta di separarmi da lei, forse se ne accorge.
Sono gentile, scendo per prendere la sua valigia nel bagagliaio, ma quando scompare nell'androne, risucchiata da quel cattivo odore, mi sento sollevato.
Non resto un attimo di più.
Quel posto stamattina mi sembra terrificante.
Vado direttamente in ospedale, sprofondo nel mio mestiere con precisione.
La strumentista è un pò incerta, dev'essere nuova, mi passa i ferri senza forza.
Mi arrabbio.
Una pinza le cade dalle mani.
Con un calcio scaravento quella pinza dall'altra parte della camera operatoria.

 
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Post N° 49

Post n°49 pubblicato il 28 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
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Le labbra piene di rossetto, i capelli scorticati dalla decolorazione...
Si stringe nella giacchetta sintetica, tira a sè la sua valigia troppo grande, sente che quell'uomo la sta giudicando.
Guarda la testa curva dietro il banco, e forse si è già pentita di essere venuta.
Attraversa la hall con un'espressione sfrontata, quasi ostile.
I suoi tratti sembrano più rozzi perchè dentro il suo animo è cupo.
Si sta difendendo.
Saliamo insieme in ascensore.
Siamo soli eppure non la sfioro.
Ora mi fa pena, cammina nel corridoio con i suoi tacconi storpi e mi fa pena.
Le camere sono sullo stesso piano.
Non c'è nessuno in giro.
Italia entra da me.
Rimane in piedi senza nemmeno guardarsi intorno, si rosica le mani.
Il congresso va avanti per quattro giorni, conferenze riunioni, corsi di aggiornamento.
Italia non cuole uscire dall'albergo, resta sul letto a guardare la televisione, le ordino qualcosa da mangiare e glielo faccio portare in camera.
Io ceno nel ristorante dell'hotel con gli altri colleghi.
Non ho fretta, gusto il cibo, parlo, scherzo.
Dentro di me sciaborda un piacere sottile.
Lei è di sopra, nascosta, pronta a scivolare nelle mie braccia.
Mi aspetta, è chiusa dentro a chiave.
Ogni volta che busso sento i suoi passi scalzi, affrettarsi, sulla moquette.
Parla a bassa voce, ha sempre paura che qualcuno possa sentirci.
Le dispiace per quell'altra camera che rimane vuota, ha letto il prezzo dietro la porta, è diventata rossa.
Non prende nemmeno l'acqua dal frigo bar, beve dal rubinetto, io mi arrabbio ma lei si ostina.
Non esce neppure quando vengono le cameriere a rifare la stanza, si siede in un angolo e le guarda.
Di notte ci amiano per ore, non ci addormentiamo mai.
Italia torce il collo oltre il cuscino, la sua gola freme, i capelli piovono in terra.
E' come se cercasse qualcosa oltre di me, un luogo dove ricongiungersi con una parte smarrita di se stessa.
Fugge, pezzi di lei sfuggono dalle mie mani.
I suoi occhi guardano la finestra dove riverberano le luci della corte interna dell'hotel.
Lì sotto c'è una fontana che a una certa ora viene spenta.
Italia si alza dal letto per assistere a quello spegnimento, le piace quello spruzzo che finisce.
Parla poco, non reclama un posto, sa di non essere una sposa in viaggio di nozze.
Non saprò mai quanti uomini l'hanno amata prima di me, ma so che ognuno di loro, accudendola o scalfendola. ha contribuito a plasmarla, a farla così com'è.
La seconda sera usciamo nel cuore della notte, lasciamo le chiave e scivoliamo fuori dalla hall.
Le ho regalato un paio di scarpe bianche, le ho viste in una vetrina e le ho prese.
Sono più grandi dei suoi piedi, Italia ha spinto nelle punte un pò di carta igienica.
La cittadina è tutta in salita, vicoli dentro vicoli, e case di pietra greggia.
I talloni di Italia escono dalle scarpe tropo larghe.
Ci inerpichiamo fino alla rocca, oltre il palazzo del comune.
Affacciati al belvedere, guardiamo in basso la piana notturna costellata di luci.
Scendiamo pochi gradini e ci troviamo in uno slargo di ciottoli, al centro qualche gioco da bambino.
Un'altalena cigola mossa dalla brezza che batte quell'altura, c'è buio, solo il campanile dalle guglie romaniche spunta illuminato tra i tetti neri.
Seduti su una panca di pietra, guardiamo davanti a noi il cavallo di legno con una grossa molla al posto delle zampe, e un pò di melanconia scolora nella nosta clandestinità.
Quei giochi senza bambini ci rattristano.
L'altalena che non vuole smetterla di cigolare ci guasta l'umore.
Italia si alza, va a sedersi sul seggiolino di ferro, si dà una spinta, poi un'altra.
Le sue gambe si piegano nell'aria, la sua schiena va e torna.
Le scarpe bianche da sposa sono cadute dai suoi piedi, lei non le ha trattenute.

 
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Post N° 48

Post n°48 pubblicato il 25 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Abbiamo fatto l'amore, poi non ci siamo più mossi, ascoltiamo il rumore delle macchine sul viadotto, così vicine che sembrano passare sul tetto.
Devo vestirmi e tornare a casa, ma fatico a lasciare quella pece che ci tiene prigionieri.
Dove sono i calzini, i pantaloni, le chiavi della macchina...
Ma intanto resto fermo.
Domani parto, devo intervenire a un congresso di chirurgia oncologica, non ho nessuna voglia di andarci.
Italia mi accarezza un braccio lentamente, sta misurando la solitudine che le resterà addosso.
Visualizzo il salone della conferenza, i miei occhiali, il mio viso dietro al mio nome stampato, i colleghi con la foto plastificata appesa alla giacca, l'accappatoio dell'hotel, il frigo bar nella notte...
"Vieni con me."
Si gira sul cuscino, ha gli occhil arghi, incredibili.
"Vieni."
Scuote la testa.
"No, no."
"Perchè?"
"Non so cosa mettermi."
"Vieni in mutande, stai benissimo in mutande."
E più tardi, nel cuore della notte, sto correggendo la mia relazione, la scorro, vado avanti e indietro con una lapis rosso, sottolineo, casso, aggiungo, le telefono.
"Stavi dormendo?"
"E' meglio che non vengo, vero?"
"Passo alle sei. E' troppo presto?"
"Se ci ripensi non ti preoccupare."
E alle sei del mattino è già in strada, già truccata.
Un pagliaccio nel grigio.
La bacio, ha la pelle ghiaccia.
"Da quanto tempo aspetti?"
"Sono appena scesa."
Invece è gelata.
Ha una giacca con le spalle troppo imbottite che le salgono sul collo, nera a maniche corte.
La pelle delle braccia è chiazzata come marmo.
Si strofina le mani nella fessura tra le gambe.
Accendo il riscaldamento al massimo, voglio che abbia subito caldo.
Ha una faccia spiritata, persino gli occhi hanno freddo.
Sul sedile non si muove, non si aggiusta, rimane così, rigida, con il busto leggermente discosto dal sedile.
Poi il caldo la fa rilassare, mentre l'auto fugge verso la striscia deserta dell'autostrada.
Le tocco la punta del naso.
"Va meglio?"
Lei sorride, annuisce.
"Ciao" dico.
"Ciao" risponde.
"Come stai?" e le infilo una mano tra le gambe.
E' una cittadina di tufo e sensi unici e frecce che ti rimandano sempre nella stessa rotonda.
Lascio la macchina in un parcheggio.
Ne abbiamo parlato, ho prenotato una stanza a suo nome.
Non posso correre rischi, al congresso partecipano molti colleghi, ci sarà anche Manlio.
Per strada restiamo un pò discosti.
Italia è più preoccupata di me, non sa dove andare ma cammina impettita.
Si è portata una valigia a rotelle, troppo grande per pochi giorni.
Mezza vuota, le cammina storta accanto.
Io invece sono abituato ai viaggi brevi, ho una sacca di pelle, piccola, funzionale, elegante, un regalo di Elsa.
Stamattina non ho la pancia, ho stretto di un buco al cintura.
Avanzo leggero, di ottimo umore, mi sento un ragazzo in gita scolastica.
Da dietro le tocco il sedere.
"Pardon, signorina."
Lei è seria, non si volta a guardarmi, sa di essere un'intrusa.
Indossa quella misera giacca per essere meno vistosa.
La chiave mi arriva subito nelle mani.
Italia parla con l'uomo dietro il banco della reception.
Due colleghi mi raggiungono, ci salutiamo.
"La sauna è già calda o bisogna aspettare?" chiedo alla ragazza in gilet blu che registra il documento, una scusa per attardarmi lì accanto.
L'uomo davanti a Italia ha una matita in mano e scorre l'elenco delle prenotazioni.
Lei si volta verso di me con uno sguardo sperduto.
Mi avvicino.
"C'è qualche problema qui per la mia collega?"
L'uomo alza gli occhi e mi guarda, poi lancia un'occhiata stravagante a Italia.
"Stiamo vedendo di sistemarla, la signora non è accreditata."

 
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Post N° 47

Post n°47 pubblicato il 25 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Mi ero affacciato alla finestra.
Il sole friggeva sul viadotto, gracchiava sui campi di sterpi.
Accanto a una roulotte una donna zingara stendeva il bucato.
Tre galline nane con i ciuffi ritti delle code camminavano una in fila all'altra accanto all'orto che aveva le zolle scure, innaffiate da poco.
Italia non ha toccato i miei soldi, li ha accettati e cacciati in quel barattolo.
Mi feci una doccia, poi con l'accappatoio di Italia addosso, e le maniche che mi arrivavano al gomito, racolsi il telefono e mi sedetti sul letto.
Dissi a tua madre che quel fine settimana non l'avrei raggiunta.
"Come mai?"
"Sono reperibile in ospedale."
Sul muro la scimmia mi guardava e io guardavo lei.
Sentii girare la chiave nella toppa.
"Ci sei ancora?"
"Certo che ci sono."
L'abbracciai.
Aveva addosso un odore diverso, di mura diverse.
"Dove sei stata?"
"A lavorare."
"Che lavoro fai?"
"Sono stagionale in un albergo, faccio le camere."
Era un odore di autobus quello che aveva addosso, di folla.
All'imbrunire uscimmo.
Camminammo mano nella mano dentro quel suburbio spettrale, quasi sempre in silenzio, ascoltando il suono dei nostri passi, affidando a quel mondo notturno i nostri pensieri.
Non allentai mai la presa della mia mano, e lei non allentò la sua.
Mi pareva strano avere accanto quella donna che non conoscevo troppo bene, e che pure sentivo così intima.
Si era truccata per uscire.
L'avevo spiata china su un boccone di specchio, mentre in fretta ricalcava i contorni di quei lineamenti che dovevano sembrarle troppo fragili.
Quel belletto, gli zatteroni dove si era arrampicata, i capelli decolorati...
Non c'era una sola cosa in lei che corrispondesse ai miei gusti.
Eppure era lei, Italia, e mi piaceva tutto di lei.
Senza saperne la ragione.
In quella notte lei era tutto ciò che desideravo.
"Corriamo!" gridò.
E corremmo, e inciampammo l'uno nell'altra, e ridemmo, e ci abbracciammo contro un muro.
Facemmo tutte le cose prive di senso che gli amanti fanno.
Il giorno dopo, quando ci salutammo, Italia tremava di nuovo.
Mi aveva preparato una frittata con le uova delle sue galline, mi aveva lavato e stirato la camicia, e adesso tremava mentre la baciavo, mentre le voltavo la schiena.
Gli amori nuovi sono pieni di paure, Angela, non hanno un posto nel mondo e non hanno capolinea.
Il cellulare vibra.
L'ho posato sul davanzale perchè lì la ricezione è migliore.
Non rispondo subito, spalanco la finestra, poi spingo il tasto verde.
Ho bisogno di aria.
La voce di tua madre p incredibilmente presente, non c'è nessun trambusto aeroportuale intorno a lei, nessun annuncio di voli in arrivo, in partenza.
"Timo, sei tu?"
"Si."
"Mi hanno detto..."
"Che ti hanno detto?"
"Che è successo un incidente a qualcuno della mia famiglia...ho in mano un biglietto di ritorno."
"Si."
"E' Angela?"
"Si."
"Cos'ha?"
"E' caduta con il motorino, la stanno operando."
"Stanno operando cosa?"
"Il cervello."
Non piange, raglia nella cornetta come se qualcuno la stesse facendo a pezzi.
Il rantolo cessa di colpo e torna la sua voce, sommessa, stonata.
"Sei in ospedale?"
"Si."
"Che hanno detto? Che dicono?"
"Sono fiduciosi, sì..."
"E tu? Tu che dici?"
"Io dico che..."
Un rutto di pianto mi si è infilato nella bocca, ma non voglio piangere.
"...Speriamo, Elsa, speriamo."
Mi curvo nelle spalle, mi sporgo fuori dalla finestra...
Perchè non cado?
Perchè non cado laggiù in basso, dove ora passeggiano due malati con il cappotto sul pigiama?
"Quando parti?"
"Tra dieci minuti con la British."
"Ti aspetto."
"Ma il casco? Non ce l'aveva il casco?"
"Non l'aveva allacciato."
"Come? Come, non l'aveva allacciato?"
Perchè non hai rispettato i patti, Angela?
Perchè la giovinezza è questa disattenzione?
Un sorriso nel vento e vaffanculo, mamma.
Le hai tagliato le gambe, la testa.
Come farai a chiederle scusa, adesso?
"Timo?"
"Si?"
"Giurami su Angela che Angela non è morta."
"Te lo giuro. Su Angela."
I malati in basso si sono fermati, fumano, seduti su una panchina.
Accanto alle aiuole sta passando una donna di mezza età con un cappotto color mattone.
L'umanità, figlila mia, l'umanità che brulica, si arrampica.
L'umanità che continua.
Cosa sarà di noi, di me e di tua madre?
Cosa sarà della tua chitarra?

 
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Post N° 46

Post n°46 pubblicato il 23 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Era di nuovo sera, ero di nuovo solo in città.
Svuotai sul piano del mio scrittoio un cassetto colmo di fotografie.
Mi venne tra le mani un'immagine di me adolescente con un paio di pantaloni corti, e una faccia piena di ombre.
Ero grasso, non ricordavo di esserlo stato.
Pochi anni dopo ero già magrissimo, come testimoniava una foto da matricola universitaria.
Alla curiosità poco alla volta subentrò uno strano sconcerto.
Mi accorgevo di una latitanza.
La mia vita era lì, potevo scorrerla sotto le dita nella carta lucida, fino alle immagini più recenti, dove io comparivo di rado, mai al centro dell'inquadratura, gli occhi abbagliati, sorpreso per caso.
In quel progressivo esodo forse era nascosta una mappa segreta.
Volutamente ero sfuggito alla prigionia dei ricordi.
Se fossi morto di colpo, pensai, Elsa avrebbe faticato a trovare una mia fotografia recente da mettere sulla lapide.
Questo pensiero non mi rattristò, anzi mi consolò.
Non avevo testimoni.
Forse era stato lo sdegno verso il patetico egocentrismo di mio padre a condurmi nell'ombra, un'ombra dove abitava un narciso molto più subdolo.
Forse anche nella vita, nelle relazioni più intense, avevo finto.
Avevo preparato l'immagine, poi ero uscito dal campo e avevo scattato.
Era accesa solo l'abat-jour, mi tolsi gli occhiali e affacciai lo sguardo nello spazio buio davanti a me.
Spalancai la porta finestra del mio studio e approdai sul terrazzo.
Piascai sulle piante, guardando il vapore caldo che risaliva da quella terra addomesticata nei vasi.
Il telefono squillò, rientrai.
"Elsa, sei tu?"
Nessuna risposta.
"Elsa..."
Poi, in fondo alla cornetta un fiato grigio che riconoscevo.
Appena la raggiunsi la strinsi, la imprigionai con mio abbraccio.
Respirava addosso a me.
Restammo così, non so per quanto tempo, immobili e stretti.
"Ho avuto paura."
"Di cosa?"
"Che non venivi più..."
Tremava contro il mio collo.
Sprofondai il naso nella scriminatura nera dei suoi capelli albini, avevo urgenza di tirarmi dentro l'odore della sua testa.
L'unica cosa di cui avevo bisogno.
E finalmente stavo bene.
La sua bocca era scivolata fino al mio petto.
La tirai su per le braccia.
"Guardami, ti prego, guardami."
Cominciò a sbottonarsi la camicia, rapidi i bottoni uscivano dalle asole di lurex, correvano sotto le sue dita come un rosario.
E apparve il suo piccolo seno.
Le fermai la mano.
"No, non così."
La presi in braccio e la portai sul letto in camera sua.
La spogliai lentamente, muovendomi intorno a lei senza affanno, con mani oculate, come se stessi preparando un corpo per un'autopsia.
Lei mi lasciava fare, cedevole.
Quando rimase completamente nuda, mi allontanai per guardarla.
Italia abbozzò un sorriso pieno di imbarazzo.
Si portò le mani sul pube.
"Sono troppo brutta, ti prego..."
Ma io gliele presi quelle mani e le condussi in alto, oltre la testa, oltre i capelli sparsi sul copriletto di ciniglia.
"Non ti muovere."
Camminai lentamente con gli occhi lungo il suo corpo, lo solcai pezzo a pezzo.
Poi anch'io mi spogliai, completamente, come non avevo mai fatto davanti a lei.
E anch'io non ero bello, avevo le braccia troppo sottili, un pò di pancia, e quella canna sbieca appesa tra i peli, e anch'io provai vergogna.
Ma volevo che fossimo così, nudi e poco attraenti.
Uno di fronte all'altra, senza fretta, senza foga, immersi nel tempo.
Quando le fui addosso, rimasi dentro di lei a lungo senza muovermi guardandola negli occhi chiari e sfatti.
Restammo così, fermi in quel campo di fuoco.
Una lacrima le scese sulla tempia, la raccolsi con le labbra.
Non avevo più paura di lei, le pesavo addosso come un uomo, come un figlio.
"Ora sei mia, solo mia."
Più tardi, accovacciata in fondo al letto, mi tagliava le unghie dei piedi con una piccola forbice.
"Quanti anni hai?"
"Quanti ne dimostro?"
Ci addormentammo incollati.
Le carezzavo la testa e solo il sonno fermò la mia mano.
E quando mi svegliai, Italia non era più accanto a me.
Trovai un biglietto sul tavolo.
Faccio prima che posso.
La macchinetta del caffè è già pronta.
In fondo al biglietto c'era un bacio lasciato con il rossetto.
Baciai quel bacio.
Andai in cucina e accesi il gas sotto il caffè.
Aprii un pensile e scrutai con quale ordine aveva disposto le cose all'interno, i piatti impilati, i bicchieri piccoli, quelli più grandi, il pacco dello zucchero e della farina chiusi da una molletta di legno per i panni.
Nascosto dietro la porta vidi un calendario a pagina unica.
Nei due mesi appena trascorsi, quà e là, c'era un segno, una piccola croce.
Corsi a ritroso con la memoria, e non ce n'era bisogno, lo sapevo già, erano le date dei nostri incontri.
Feci un'altra scoperta, sopra il frigorifero.
Chiuse dentro un barattolo di vetro, trovai alcune banconote, certe stropicciate, altre semplicemente piegate.
Contai, non mancava nemmeno una lira.

 
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Post N° 45

Post n°45 pubblicato il 23 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Il mio membro era già piccolissimo, ingoiato dentro le cosce.
Vano come quello di un bambino.
Mi guardò, la resina dentro i suoi occhi si era fatta più spessa.
Ora aspettavo che mi chiedesse qualcosa.
Mi passò una mano sulla faccia per strapazzarmi, per disturbare quel mio sguardo bisognoso fisso nel suo.
No, non aveva nessuna voglia di complicarsi quel momento di abbandono.
Di lì a poco si addormentò.
Rimasi a fissare il soffitto di legno, senza rimpianti.
Avevo condotto mia moglie oltre le rapide dei miei fantasmi, fino alla sponda di rena calda dove si era sciolto il suo piacere.
Ora lei riposava, sarei andato a camminare lungo la strada di roccia.
L'indomani, in una mattina di cristallo, entreremo insieme in un negozio con una piccola donna davanti a un grande telaio.
Tua madre sceglierà i fili viola e porpora per la sua sciarpa, li vedrà avvolgersi sul subbio di legno.
La porterà per tutta la vacanza, la guarderà nella luce, e nella notte, per vedere come cambiano i colori.
Navigherà nella nostra vita quella sciarpa, scordata, ripresa, finchè un giorno, Angela, finirà intorno al tuo collo, s'infitterà del tuo odore.
Al rientro, quando scendemmo dall'aereo, ritrovammo quell'aria infuocata.
Elsa posò la valigia, s'infilò il costume e nuotò verso Raffaella.
In quei giorni cruciali di agosto, il paese si popolava senza criterio in maniera convulsa, e tutti, anche il nostro alimentarista, o il giornalaio, perdevano un pò della loro cortesia.
Solo un bar rimaneva quasi spopolato, una baracca con un tetto di iuta e pochi tavoli sparsi sulla sabbia.
Era attaccato alla foce, dove il mare puzzava e per questa ragione la spiaggia era deserta dai bagnanti.
Il proprietario si faceva chiamare Gae, un vecchio ragazzo con un corpo da Cristo coperto solo di un pareo stinto.
Era stata una scoperta casuale di quell'estate durante una passeggiata fino alla foce.
Non c'era altro che un cantiere di rimessaggio per le barche, con due polacchi sudici che smontavano i motori, poi la spiaggia finiva.
Elsa aveva trovato quella baracca deprimente e poco pulita.
Io le avevo dato ragione, ma poi avevo preso l'abitudine di spingermi laggiù quasi ogni giorno.
Al mattino prendevo un caffè e leggevo il giornale.
Al tramonto Gae si scapricciava nella preparazione di aperitivi densi e alcolici, che dopo pochi sorsi ti lasciavano stordito.
La compagnia era modesta, i polacchi si ubriacavano, parlavano a voce alta, Gae si sedeva al mio tavolo e mi offriva uno spinello che io rifiutavo.
Eppure mi piaceva quel posto.
Lì il mare, forse a causa del fondo algoso, acquistava dei riverberi diversi.
Un pomeriggio mi trovai circondato da una colonia di handicappati che, con l'aiuto di grucce o spinti in sedia a rotelle, sbucarono sulla spiaggia lasciando sulla sabbia i solchi del loro passaggio faticoso.
Occuparono i pochi tavoli del baretto e ordinarono delle bibite.
Uno degli accompagnatori cavò fuori dal una sacca una radio, e nel giro di pochi minuti si diffuse nell'aria un sapore di sagra paesana.
Una donna anziana con una faccia da oppossum e le spalle grassocce scottate dal sole si mise a ballare sulla sabbia.
Provai un senso di disagio, mi alzai e mi diressi verso la baracca per pagare la consumazione e andarmene.
Ma poi il mio sguardo corse su un ragazzo con un viso ebete, le braccia magrissime irrigidite in uno spasmo, le dita allargate a rastrello.
Muoveva il capo al ritmo della musica per quanto gli riusciva, e intanto guardava una compagna in carrozzella che gli sorrideva con denti aguzzi e isolati come quelli di un pesce.
La ragazza aveva nel viso il segno di una vita ottusa che procedeva adagio, e sui lobi due orecchini di plastica.
Ricambiava lo sguardo dello spastico in un modo che mi tolse il fiato.
Non badava alla sue movenze strappate, lo guardava negli occhi.
Lo amava, semplicemente lo amava.
Dovevo sbrigarmi, il sole era già tramontato, Elsa mi aspettava per la cena, avevo bevuto almeno mezzo bicchiere di uno di quei micidiali aperitivi di Gae, contavo di smaltirlo nella passeggiata di ritorno.
Ma, con il gomito appoggiato al banco e diecimila lire in mano, penso che volentieri lascerei il mio posto nella schiera dei sani per essere guardato così, come quella povera offesa guardava lo spastico, almeno una volta nella mia vita.
Allora, figlia mia, Italia fece un breve ingresso nella mia pancia, l'attraversò come un sommergibile.

 
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Post N° 44

Post n°44 pubblicato il 22 Ottobre 2005 da unaqualunque_s
Foto di unaqualunque_s

Dimmelo che non è vero, dimmelo che solo con me ti torci, e diventi grigia e vecchia come un serpe moribondo, solo con me hai il coraggio di morire.
Crevalcore le aveva rubato una delle sue pantofole fucsia e adesso la teneva in bocca senza morderla.
"Scusa."
Ma lei non mi ascoltava più.
Forse un giorno si ucciderà, forse si toglierà dal mondo, non per me, ma per un altro simile a me, per un predatore che atterrerà sul suo corpo con la stessa voracità, con lo stesso disamore.
"Devi andartene" disse, "devo andare a lavorare."
"Che lavoro fai?"
"La puttana."
E adesso era vuota come la scoglia di un serpe dopo la muta.
Ho negli occhi il viola di quella sciarpa cangiante che ti giri intorno al collo, Angela, quella che rubi a tua madre, è di lana che resiste agli anni, è più vecchia di te, la comprammo in Norvegia.
Sul traghetto verso le isole Lofoten lei rimase all'interno a sorseggiare un tè con le mani incollate al bicchiere di vetro bollente, mentre io mi attardavo sul ponte nonostante le raffiche gelate del vento che trascinavano il mare in alto.
Il traghetto, screpolato come i fiordi che si allontanavano alle nostre spalle, era deserto di turisti, ma gremita di ruvida gente locale, pescatori, commercianti di pesce.
Nell'aria bianca e ventosa non s'intravedeva altro che il disordine del mare.
Il cambio di colori, di clima, il golf doppio che indossavo, il puzzo di pesce sotto sale che veniva su dalla stiva m'incoraggiavano a sentirmi un uomo diverso, come spesso accade in vacanza.
Ero felice di essere solo, felice che il maltempo non spingesse tua madre a raggiungermi lì fuori.
Un marinaio con un mantello di tela cerata risalì il ponte a fatica e passandomi accanto gridò qualcosa d'incomprensibile, indicava la porta per farmi capire che era meglio che tornassi dentro.
L'acqua mi gocciolava nel collo del maglione, scrollai la testa.
Sorrisi.
"It's okay" gridai.
Sorrise anche lui.
Era giovane, ma aveva la pelle del viso già segnata da quel mestiere di vento, puzzava di alcol.
Alzò le braccia al cielo.
"God! God!" e si allontanò verso prua.
Un uccello si è posato accanto a me, improvviso, non l'ho sentito arrivare.
Il piumaggio di un sudicio colore tra il grigio e il verde, le zampe palmate strette intorno al ferro della balaustra, come piccole mani.
E' uno strano incrocio tra un martin pescatore e una cicogna nera.
Il suo ventre si gonfia e si sgonfia sistematicamente.
Deve aver retto la fatica di un volo difficoltoso per raggiungere questo trespolo galleggiante.
Non è affatto mite, fa quasi paura.
Scruta il mare con gli occhi rapaci orlati di pelle rossa, sembra cercare lo spazio per il prossimo volo.
Ha un becco da uccello mitologico e qualcosa di umano nello sguardo.
E' perchè mi viene da pensare, una creatura così piccola accetta senza tregua le sfide che la natura le impone, mentre noi ci ritraiamo di fronte a uno spruzzo di mare, noi con le nostre scarpe, i nostri golf, perchè siamo così privi di coraggio?
Credo che tua madre abbia avvertito qualcosa durante quella vacanza, guardando la mia schiena che avanzava a pochi passi da lei, lungo i sentieri di roccia a strapiombo sul mare, durante quelle passeggiate in cui io mi assentavo.
Ma non disse nulla.
La sera ci stringevamo insieme ad altri commensali sullo stesso tavolo oblungo in un locale di legno e mattoni rossi, a mangiare pesce e patate, davanti a un boccale di birra.
Lei allungava una mano, la posava sopra la mia, e mi offriva uno dei suoi sorridi, straripanti di grazia, di calore.
Mi lasciavo catturare dalla sua allegria.
L'abbracciavo tra quella gente sconosciuta, in quel locale pieno di fumo e di musica.
E quando tornai a posare le mani sul suo corpo, lo feci con assoluta devozione.
Fui inaspettatamente generoso nell'amore, Elsa se ne accorse.
"Ti amo." mi disse più volte nella penombra, carezzandomi i capelli.
Forse nei giorni precedenti aveva avuto paura, quando avevo insistito per portarla via dalla casa al mare.
Paura di noi due soli insieme.
L'accompagnai con dolcezza fino all'ultimo sussulto, poi mi allungai accanto a lei.
L'appagamento le aveva smosso neglio occhi una resina dolce.
Tese un braccio sfibrato verso di me.
"E tu?"
Raccolsi la sua mano, sfiorai con le labbra la fede nuziale.
"Io sono felice così."

 
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