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***PARACLAUSITURON***Dopo quasi due anni, tornano i racconti di Fragolozza. Una sigaretta accesa per distruggermi i polmoni era il chiaroscuro lanciato dalle labbra alle cosce, tramite le mie dita molli, per guardare meglio all'orizzonte. Respiravo a fatica, ma ero così felice che quattro lune e una stella cometa brillavano sullo sfondo della mia prospettiva ubriaca. Dietro, dove le montagne si piegavano ad abbracciare i brandelli di cielo sfuggiti agli squarci delle nuvole, il silenzio dava l'assenso a tutto quanto il mio cuore diceva. Dentro, quando la cicca era abbastanza consumata e corta da intiepidire le falangi, il paesaggio circostante era metaforicamente lo stesso ma asimmetricamente disposto. Quelle sere, in cui ogni gesto si inseriva in un rituale insolito ma ben collaudato e di cui ormai ero esperta, dimenticavo chi ero e su quell'oblio fondavo l'impianto di una personalità diversa. Credo che ciò dipendesse dalla difficoltà a convincermi di andarti bene com'ero. Hai mai avuto una spiegazione per tutto questo? Non te lo chiedevo, perché non volevo parlassi. La riservatezza delle tue sensazioni garantiva quiete alle mie preoccupazioni e poi mi era più facile puntare tutto scommettendo sul silenzio, quando solo le civette potevano gufarmi contro. Nascosti o sotto il sole, in solitudine o altrove, ti cercavo quando non mi restava niente da chiedere al giorno e tu ti lasciavi trovare quando non avevi niente di meglio da fare. Diametralmente opposti anche nelle reazioni , a me bastavano tre minuti per provare il morboso desiderio di mangiarti le labbra e tu aspettavi sempre tre ore prima di deciderti a spogliarmi. E'difficile stabilire se nella nostra mancanza di sincronia, fosse più rilevante il fatto che tu mi piacessi troppo o che io ti piacessi troppo poco. Sapresti trovare un altro nome? La tua arte di non avere arte, esplicitata dai continui sbadigli, mi faceva sentire un'artista talentuosa, sprovveduta, ma viva. I tuoi vuoti mi riempivano di contenuti e ti avrei dimostrato il mio valore in mille disegni e mille racconti, se per un solo istante avessi dato credito alla mia fantasia. Ma era una fantasia, cui non credevi, lo stesso ritrovarci con le braccia intrecciate e le pance appiattite, con le schiene stropicciate dalla tappezzeria dei sedili e i piedi scalzi, negli abitacoli che s'improvvisavano alcove dai vetri appannati coi nostri respiri aromatizzati alla birra. Ricordi ancora quel sapore? Avevi una strana risata, perciò non facevo battute e rimanevo seria anche quando, con un'espressione falsamente assorta, sorvolavo l'arco preciso dei tuoi denti per osservarti dritto in gola e capire quanto la tua anima mentiva, quando finalmente mi dicevi che ero tutto quello che volevi. Poi accendevo un'altra sigaretta. Al di là del tabacco da ardere e della nicotina da aspirare, mi sembrava il modo più opportuno per scandire le pause, quando le ombre ci disegnavano addosso nuovi vestiti e la nudità smetteva di essere un pretesto per rotolarci nel buio. Meccanicamente ripristinavo l'ipnotico movimento dalle cosce alle labbra. Nel buio più luminoso rasentavi l'ideale perfetto dell'uomo perfetto, ma la sigaretta si consumava in fretta, la buttavo fuori dal finestrino e, prima che la brace smettesse di brillare, la nudità tornava ad essere un buon pretesto per rotolarci ancora. Sarebbe bastato poco per dare un senso a quel fremito dei sensi, anche solo il coraggio, ma i tuoi peli sullo stomaco non erano abbastanza perché riuscissimo ad andare oltre. Il mio limite era la verginità, il tuo l'astinenza. L'unico gaudio da percezione immensa scaturiva dalla misurazione delle differenze, non quantificabile in cifra, ma senza dubbio evidente nella distanza tra i nostri corpi, che prima di ogni contatto elettrizzava la mia pelle. Ma hai mai conosciuto una passione più intensa? Una ciocca di capelli biondi scivolava sulla mia fronte e rendeva il mio sguardo più sexy, perché mi costringeva a tenere abbassate le palpebre, quando la tua ansia da non prestazione mal si distingueva dalle mie smanie di manutenzione per un corpo che sotto le tue mani sembrava incendiarsi. Tu adoravi le mie gambe, io annusavo le tue braccia e nel farlo pensavo con rammarico al tempo sufficiente che mai avrei avuto per analizzare ogni tua singola cellula. E tempo sufficiente non avrei mai avuto, nemmeno perché quelle notti smettessero di sembrarmi tanto corte. Io per prima mi tiravo su di scatto, fulminea, e raccoglievo i pezzi che avevo sparso nell'abitacolo. L'inventario bislacco, cavato a forza dalla memoria fallace, includeva anche due gambaletti appaiati e nascosti sotto il sedile di guida. Era difficile trovarli, ma ci riuscivo e quando li infilavo, dopo averne prima vagliato l'integrità, mi sentivo come se stessi impacchettando e preservando in vista di futuri e nuovi slanci, l'unica parte di me di cui ti importasse qualcosa. Nel ricompormi mi sentivo a pezzi. Sbrindellava l'integrità della mia coscienza, accorgermi che tu, meglio di me, intuivi che non c'è disaccordo peggiore del non trovare accordo in un'emozione comune. Di questa intuizione, senza farne vanto, avevi fatto forza, relegandomi nell'angolo proprio di una supplice astante, che sa di non avere, ma che comunque chiede. Non mi chiedevi di restare e ti eclissavi, trascinandoti dietro le stelle più belle. Lo sguardo, più diretto ma ostile, era come di chi volesse costringermi a tornare troppo presto a casa. Io mi aggrappavo ad ogni possibile corrimano per non inciampare o addirittura svenire al pensiero di perderti, per poi realizzare che, se fossi caduta, avresti forse proteso una mano a stringere la mia. Ma nessun'unghia mi ha mai graffiato il palmo. Solo ferro grezzo e polvere raccolta sulla parete sporca. Dopo l'ultimo gradino, un corridoio si snodava a dorso di serpente. La porta, inevitabilmente blindata, era chiusa dal di dentro e non avevo le chiavi. Non aprivi. Non hai mai aperto, per quanto forte io abbia bussato. Il tuo cuore era un ostello che solo saltuariamente avrebbe potuto alloggiarmi.
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Nickname: fragolozza
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POETRY
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a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.
Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.
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