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Post n°84 pubblicato il 25 Gennaio 2008 da fernet_e_cola
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Post n°83 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da fernet_e_cola
Fu vedendo il padre sulla forca, che, nel 1979, l'allora ventiseienne Benazir Bhutto, decise di intraprendere la carriera politica. Pur avendo studiato scienze politiche ed economia, ammetteva di non voler assolutamente intraprendere la carriera del padre, Zulfiqar Ali. Solo quando il dittatore Mohammed Zia ul-Haq condannò a morte il genitore qualcosa cambiò nella mente di Benazir. Nel 1988, in un misterioso incidente aereo il generale Zia perse la vita: l'ultimo atto per il ritorno della famiglia Bhutto al potere era compiuto. Benazir rientrò dal suo esilio e si presentò alla guida del Partito Popolare Pakistano. Il suo Paese la premiò, facendola diventare la prima donna alla guida di un Paese musulmano. Tuttavia, solo due anni dopo a causa di scandalo per corruzione, fu costretta a dimettersi. L'Afghanistan: un vicino troppo scomodo Siamo all'indomani della caduta del Muro di Berlino, l'armata rossa ha lasciato l'Afghanistan, i mujhaiddin, che dal Pakistan partivano per combattere l'infedele comunista adesso non hanno più un nemico preciso. Kabul è in preda alla guerra civile, le ripercussioni su Islamabad sono devastanti. Il mercato nero che attraversa gli inesistenti confini fra i due stati mette in ginocchio l'economia pakistana. Il traffico di armi e di droga dilagano e con loro la criminalità. Karachi e il suo porto ne rappresentano l'esempio lampante. È proprio in quegli anni che, all'interno dell'ISI (i servizi segreti pakistani), nasce l'idea di affidare ad un gruppo di persone vicine al Pakistan il dominio dell'Afghanistan. Con il tacito assenso della stessa Bhutto, che nel frattempo è tornata al potere (1993) grazie all'alleanza con gli islamisti della Jui (l'associazione degli ulema islamici), i Taliban vengono finanziati e armati dai servizi segreti e grazie a questi aiuti riescono di lì al 1996 a conquistare il potere a Kabul. Sarà probabilmente il più grande errore di valutazione del Pakistan dai tempi della sua fondazione. Nel 1996 però, un nuovo scandalo di corruzione costringe la leader a dimettersi e a rifugiarsi a Dubai per sfuggire alle sentenze che la volevano colpevole. Il suo posto verrà preso da Nawaz Sharif, un civile che all'interno della grande Lega dei Musulmani si oppone al potere dei militari. Durerà al potere solo due anni prima di essere rovesciato da un colpo di stato militare ad opera di Parvez Musharraf, che si dichiarerà da subito alleato degli Usa, una mossa azzardata, considerato che gli Statunitensi hanno intrapreso una guerra contro i Taliban, che molto spesso provengono dal Pakistan. Due strani amici: ISI e estremisti islamici È in questo contesto che vanno visti i fatti di questi giorni. Un Musharraf ormai impresentabile, per i suoi collegamenti troppo stretti con l'ISI, ma anche con gli Usa e con gli estremisti. Una Bhutto che, giurando fedeltà a Washington ancor prima di avere preso il potere, si candidava a rappresentare il ritorno della democrazia. Uno Sharif, anch'egli di rientro dall'esilio, che veniva così privato di ogni appeal e di ogni possibilità di contrastare la rivale. Altri due attori non vanno però dimenticati. La componente islamista più estremista e i servizi segreti. Se è plausibile considerare corresponsabile l’ISI dell'assasinio, vista la facilità con cui il kamikaze si è liberato delle maglie di sicurezza, i primi sono coloro che da questa operazione traggono il più grande vantaggio. Al di là della immediata e poco attendibile rivendicazione di al Qaeda (sulla falsa riga dell'Eta per gli attentati di Madrid), gli estremisti con un solo gesto si sono liberati di una figura scomoda come la Bhutto, che, grazie all'appoggio Usa, li avrebbe presto combattuti, ma hanno anche e definitivamente privato di credibilità Musharraf, dimostrando al mondo che sono in grado di azioni eclatanti contro chiunque. Adesso per il Pakistan si aprono ore terribili. La rabbia dei dimostranti sembra lanciarsi verso il governo ritenuto responsabile dell'omicidio. L'esercito risponderà alle provocazioni? E i sevizi segreti avranno in canna qualche altro colpo da sparare? Vorranno direttamente il potere come ai tempi del generale Zia o si limiteranno a muovere i fili? Il Direttore |
Post n°82 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da fernet_e_cola
Per la diciasettesima volta dal 14 Febbraio del 2005, giorno della morte dell'allora Primo Ministro, Rafik Hariri, il Libano piange per un nuovo attentato. Da quella data il popolo libanese ha visto crescere la tensione su tutto il suo territorio. L'esplosione di mercoledì, nella quale ha perso la vita il comandante Francois al-Hajj, non è che un altro tassello che va a comporre il puzzle in attesa delle elezioni presidenziali del 17 Dicembre. Il Libano è spezzettato in tutti i sensi: si contrappongono filosiriani e filoccidentali, ma si contrappone anche una popolazione stanca, che fatica a capire il perché dei giochi di potere e degli attentati e una classe politica sempre più distante. Le responsabilità Francois al-Hajj era il più probabile sostituito del comandante in capo dell'esercito Sulaiman, cioè colui che avrebbe preso il posto al Ministero della Difesa del possibile futuro Presidente del Paese. E allora chi ha messo i trentacinque chili di tritolo davanti al municipio di Baadba, sul tragitto che la vittima percorreva per recarsi al suo ufficio? Nell'interpretazione del gesto, il Libano si divide in due tronconi. Per il Governo di Siniora è l'ennesimo atto di interferenza di Damasco contro la pace a Beirut: “il vicepresidente sirano Faruk al Sharaa aveva garantito che la Siria era ancora più fortemente presente in Libano rispetto ad una volta e l'ha dimostrato”. Per l'opposizione, Israele aveva già minacciato il comandante durante la guerra del 2006, a causa del sostegno dell'esercito alla resistenza Hezbollah e con questa mossa si è voluta liberare di un personaggio scomodo. La dicotomia ancora una volta è insanabile. Il terzo incomodo Oltre il consueto e reciproco accusarsi delle due fazioni in campo, però, spunta una terza via. Il comandante al-Hajj aveva combattuto un'aspra battaglia, durata quasi quattro mesi, contro i guerriglieri di Fatah al-Islam, in un campo profughi a Nord della capitale. L'attentato che è costato la vita al comandante potrebbe essere il colpo di coda della formazione sconfitta, che avrebbe voluto così vendicarsi delle perdite subite. Si apre così la strada del regolamento di conti personale, che, per quanto possa apparire la meno credibile, allontanerebbe lo spettro della guerra civile. Il Direttore |
Post n°81 pubblicato il 11 Dicembre 2007 da fernet_e_cola
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Post n°80 pubblicato il 05 Dicembre 2007 da fernet_e_cola
Il popolo venezuelano ha bocciato la proposta di riforma della Costituzione. Il voto ha sancito, seppur con un risicatissimo margine, che il Venezuela vuole com'è. Non vuole un Presidente rieleggibile all'infinito, non vuol perdere l'autonomia della Banca Centrale, ma non vuole neanche la riduzione dell'orario di lavoro. Per Hugo Chavez è la prima sconfitta elettorale da quando, nel dicembre del 1998, fu eletto presidente della Repubblica venezuelana. È una sconfitta che dimostra come il processo del cosiddetto “socialismo del XXI secolo” non sia così semplice come si poteva pensare ma è stata anche una prova importante per il Paese, per l'opposizione e per il Presidente stesso che ha definito la sua sconfitta come “un esercizio di democrazia”. L'astensione, il vero ago della bilancia La vera chiave di volta, non è stata tanto quella manciata di voti che ha permesso all'opposizione di arrivare alla vittoria, quanto un'astensione che si aggira intorno al 44% e che ha dimostrato come anche fra le file dei chavisti non tutti fossero convinti che vincere sarebbe stata la miglior cosa. Per l'opposizione invece è stato il primo trionfo dopo quasi dieci anni di sconfitte. Dopo aver sbagliato in molte occasioni, gli avversari del Presidente si sono presentati uniti, anche se continua loro a mancare una leadership forte e credibile agli occhi del popolo venezuelano. Infine per Chavez, la consultazione ha l'amaro sapore della realtà: la sua gente non è disposta a seguirlo ovunque. Il Direttore |
Post n°79 pubblicato il 05 Dicembre 2007 da fernet_e_cola
Il 13 settembre 1993, Arafat e Rabin si stringevano la mano, davanti ad un sorridente Clinton. La pace sembrava ormai ad un passo. Quattordici anni dopo, Abu Mazen e Olmert si incontrano di nuovo davanti a un tavolo per cercare di venire a capo a una situzione sempre più complessa. Annapolis è stata la città designata ad ospitare l'incontro che ha il sapore di ultimo appello per i due litiganti. Il meeting però non è soltanto il tentativo ultimo di ricucire strappi storici e ammansire antichi odi. Rappresenta anche un momento intenso di comunicazione per tutti coloro che vi partecipano e anche per coloro che, volenti o nolenti, non sono stati invitati. Bush, Olmert e Abu Mazen Per l'amministrazione Bush, vicina alla fine del mandato, la conferenza di pace potrebbe servire a ripulire, almeno in parte, l'immagine negativa che il mondo può avere di lei. Dopo essersi compromesso con due guerre, questo tentativo appare per il Presidente statunitense l'ultima possibilità di togliersi di dosso l'etichetta di guerrafondaio. Le “dolorose concessioni” di cui parla Olmert probabilmente non avverranno ad Annapolis, ma chi si gioca davvero una grossa fetta di credibilità politica sono proprio i due rappresentanti di Israele e Palestina. Entrambi hanno bisogno di risultati da poter sventolare al rientro a casa, ma entrambi hanno ad attenderli un'opposizione che non farà sconti per le “dolorose concessioni”. Abu Mazen e Olmert hanno in sostanza le mani piuttosto legate. Hamas e Iran La situazione cambia se si osserva chi manca al tavolo delle trattative. Due nomi saltano subito agli occhi Hamas e Iran. La scelta USA di non aprire le porte al partito vincitore delle elezioni palestinesi ha compattato i ceti che lo sostengono. Le manifestazioni in Palestina ne sono l'esempio. Da questa sorta di scomunica, Hamas ricava un'investitura agli occhi di tutti i musulmani che non si trovano sulle posizioni di Washington, screditando invece Fatah. Per quanto riguarda l'Iran non essere ad Annapolis significa una volta di più diventare il nuovo antagonista agli Usa e contrapporsi fortemente a Paesi come Arabia Saudita ed Egitto, che da sempre le contendono l'egemonia sulla regione. Il Direttore |
Post n°78 pubblicato il 25 Novembre 2007 da fernet_e_cola
Gli avvenimenti che stanno sconvolgendo il Pakistan nelle ultime settimane hanno radici lontane. Pakistan è un gioco di parole. Pak in urdu (la lingua dei musulmani indiani, in contrapposizione all'hindi, la lingua degli indù) significa puro. Ma il termine Pakistan è anche una sigla, coniata nel 1947, anno di nascita del Paese, da un nazionalista musulmano, Rahmat Ali (Punjab, Afghania, Kashmir, Iran, Sindh, Turkharistan, Afghanistan, BalocistaN). Il termine è poi entrato nell'uso comune per definire il Paese e connotarlo in chiave islamica. Ma cosa rende il Pakistan una pedina fondamentale negli equilibri mondiali? È indiscutibile la sua importanza geopolitica: testa di ponte fra Medio ed Estremo Oriente, passaggio certo dei gasdotti che dalle ex repubbliche sovietiche porteranno il gas fino ai porti dell'Oceano Indiano, ma non solo. Il Pakistan è anche uno dei pochi Paesi al mondo a possedere l'atomica ed è da sempre in guerra contro l'India per la questione del Kashmir. Infine, la forte componente islamica crea tradizionalmente una sacca di rigetto nei confronti delle politiche filostatunitensi che da quindici anni guidano le azioni dei vertici alti. La vicinanza di Teheran e di Kabul porta anch'essa notevoli scompensi. Contro la prima c'è da sempre una lotta per la supremazia nell'area, che si colora molto spesso di scontro confessionale fra sciiti e sunniti. Da Kabul arrivano invece venti di guerra ormai da quando i carrarmati sovietici varcarono i confini afghani. Ma i problemi sono anche interni al Paese. La decisione di privatizzare il sistema scolastico ha lasciato migliaia di ragazzi senza possibilità di studiare ed ha spalancato loro le porte di piccole scuole religiose, le madrasa, dove insegnanti poco più che alfabetizzati danno interpretazioni religiose molto integraliste. Per completare il quadro e cercare di comprendere quali siano le effetive difficoltà nel governare il Pakistan, si deve ricordare che alcune zone periferiche, quali il Belucistan o la Provincia di Nord Ovest, vivono in una specie di limbo e di semindipendenza. Il Direttore |
Post n°77 pubblicato il 07 Novembre 2007 da fernet_e_cola
Dalla redazione di AlterTg ci stupiamo molto degli accadimenti in Pakistan. Ci stupiamo della scarsa memoria dei lettori, ci stupiamo di come personaggi passino dal ruolo di cattivo al ruolo di difensore della democrazia nel giro di pochi mesi. Una cosa è certa, gli Stati Uniti hanno scaricato Parvez Musharraf. Tutto sta a capire se l'hanno scaricato perché troppo morbido con gli islamici o perché Benazir Bhutto è considerata dai think tank occidentali, più adatta a governare il Pakistan di un militare golpista. Bush urla al vecchio amico "Si torni alla democrazia", ma di quale democrazia sta parlando? Della democrazia di un militare che va a finte elezioni e che ha conquistato il potere in maniera illegale, allo stesso modo del tanto odiato (da Bush e da Musharraff stesso, generale Zia). Forse si riferisce a quella democrazia che la figlia del povero Zulfikar Ali Bhutto, impiccato dal generale Zia, ha conquistato negli ultimi anni ottanta e primi anni novanta grazie all'appoggio del partito degli ulema?Non erano forse le madrasa di quegli ulema, quelle dalle quali uscivano i taliban?Non ci scordiamo che sono stati i pakistani ad "inventare" i taliban ed è stata Benazir Bhutto d'accordo con l'ISI (il servizio segreto pakistano) a favorire, nel 1996, l'ascesa del gruppo intregralista. E gli Usa?Guardavano alla finestra benedicenti, nella speranza che i taliban compattassero quello che per loro era un'infinita ma potenziale fonte di profitti. Più facile contrattare con un gruppo, per quanto pericoloso, di islamici, che trovare l'accordo con migliaia di gruppuscoli che dominavano piccole zone dell'Afghanistan. Come convinverli tutti a cedere appalti e materie prime alle ditte americane?Meglio parlare ad un solo rappresentante. Ma il governo di Benazir Bhutto viene travolto dalla corruzione e verso la fine degli anni novanta viene sostituito da Nawaz Sharif. Solo tre anni dopo, il falco degli Usa, Parvez Musharraf arriva a normalizzare la regione. Ma il Pakistan è una bomba ad orologeria. Troppo forte la componente islamica, troppo lasciata a se stessa, senza regole, in una grande povertà che ha generato un terreno fertilissimo per l'islamismo radicale. In più ha vicini scomodi, vedi l'odiata India, la sciita Iran, il desolante Afghanistan. Per finire possiede la bomba atomica. Musharraf, apprendista stregone, è riuscito a mescolare gli ingredienti fino a qualche mese fa. Adesso la maionese è impazzita e il leader è stato scaricato. Sul modello Saddam, si cerca un nuovo leader (la Bhutto) che serva a legittimare di nuovo, dove Musharaf non era più credibile. Ma fidarci della Bhutto a occhi chiusi è pericoloso come far finta di non vedere che Musharraf si è sempre comportato così. Nubi nere aleggiano sul futuro del Pakistan. |
Post n°76 pubblicato il 03 Novembre 2007 da fernet_e_cola
Esce l'utlimo pezzo su Al Zawahiri ed è un panino di errori, ma davvero ci meritiamo questo dal nostro più grande quotidiano? Questo Times "de noartri", scrive "Bouteflica", ma andare su google e controllare che si scrive con la "k" sarebbe troppo? Ora si possono capire i problemi di transcodifica dall'arabo, ma il nome del presidente del Paese arabo più vicino all'Italia andrebbe saputo. Poi "Ummah" si scrive senza "h". "Jihad" è sempre maschile, non cambia, nonostante in Italia, lo si traduca guerra santa, in arabo è maschile. Lasciamo perdere la storia di Al Andalus che scendiamo nel patetico. VERGOGNA Il Direttore |
L'idea nasce dall'esigenza di districarsi davanti a fenomeni apparentemente semplici, ma che nascondono insidie e complicazioni notevoli, che portano a travisare o almeno a non interpretare correttamente i fatti. L'applicazione delle medesime categorie per tutti i luoghi e in tutti i tempi non può che portare ad una conoscenza parziale e limitata. Iniziamo con due macroargomenti, Islam e America Latina, sperando di riuscire a andare nello specifico e proporre particolari temi. Inutile ricordare quanto l'aiuto dei nostri lettori sarà indispensabile, sia per ampliare le sezioni, che per indirizzarsi verso certi argomenti specifici. Il Direttore |
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