Creato da spleen_dor il 04/10/2011

In punta di penna

I pensieri sono parole, come parole fluiscono, svaniscono, rinascono sotto altre forme e accostamenti.

 

 

DELUSIONE

Post n°8 pubblicato il 02 Dicembre 2013 da spleen_dor
 

Era minuta, con una faccetta su cui spiccavano due mobilissimi occhi neri.

I capelli raccolti a coda di cavallo sembravano scoppiare per i tanti ricci che l'elastico a malapena  riusciva a contenere.

Portava vestitini  semplici ma aggraziati, gonne e camicette impeccabili  sotto  morbidi gonlfini e calzava quasi esclusivamente ballerine di tutte le fogge e colori.

Mai un qualcosa fuori posto, si presentava così Beatrice.

L'avevo conosciuta dopo un cambio di casa, a due isolati dalla sua.

Mi piaceva il suo fare compìto, l'educazione, l'impegno nello studio e mi pareva avessi molto da imparare da lei che quando parlava  usava già un lessico forbito, frutto di studi classici che non esitava a ostentare.

Anche io studiavo con passione ma ero abituata a usare un linguaggio molto meno formale e contenuto,  inselvatichito da risse verbali e astuzie spesso malevole che animavano i rapporti con i miei fratelli.

Eravamo in quattro divisi su tutto ma inseparabili.

Adoravo mio fratello, e un po' lo invidiavo. A lui tutto era concesso, era un maschio e in casa regnavano   i luoghi comuni e i privilegi che mia nonna, cresciuta in un ambiente maschilista, gli riservava.

Lui barcamenava  tra scuola e strada, Kirkeegard e Otis Redding.

Aveva   una voce profonda  e roca che lo faceva assomigliare al grande soulman e con  alcuni amici aveva  formato  un complessino musicale che in men che non si dica aveva acquistato una grande popolarità.

Io, timida e sognatrice, mi innamoravo un giorno sì e l'altro pure ora del chitarrista, ora del basso, senza che loro neanche se ne accorgessero.

Di queste mie fantasticherie parlavo con  Beatrice che mi ascoltava divertita.

Un giorno, alle prove del gruppo nel garage di casa mia, rimase colpita dagli occhi incredibilmente verdi di Fabrizio che stava pizzicando la chitarra con studiata noncuranza.

Fabrizio l'attirava e  timidi e impacciati fu tutto un filtrar di sguardi e la ricerca di un contatto fisico.

Dal canto mio, mi sentivo complice di quella nascente intesa e, a suggello di un'amicizia, tra noi fiorirono i segreti.

Il giorno in cui seppi da mio fratello che dopo l'esibizione musicale ci sarebbe stata  una festa, tutta eccitata  la invitai, non avendo ancora ben chiaro come si sarebbe svolto il tutto.

Lei era al settimo cielo anche perché si trattava della sua prima uscita e il problema era convincere i genitori.

Non so come riuscì a strappare il consenso ma poi  fu tutto un parlare su come vestirci, pettinarci, che scarpe mettere,  borsetta, collana sì, collana no.

Mi abbracciava, rideva divertita, scrutava il mio volto per leggervi la stessa gioia.

Io l'ascoltavo, felice quanto lei.  

Anche per me era la prima volta  ma mi sentivo in qualche modo  responsabile delle sue aspettative visto che i suoi genitori l'avevano affidata a me.

Intanto si avvicinava il giorno dell'evento e vivevamo nella febbrile attesa.

Sarei dovuta andare a prenderla  nel primo pomeriggio e già mi immaginavo lo sconvolgimento emotivo, lo stesso che provavo io mentre davanti allo specchio osservavo il mio aspetto dopo essermi infilata un abitino di voile  color albicocca che si intonava perfettamente al mio incarnato.

I capelli, leggermente mossi mi incorniciavano il volto restituendomi un'immagine gradevole. Provai a passare sulle labbra un po' di rossetto di mia madre ma dopo qualche secondo mi passavo e ripassavo le labbra tanto che decisi di togliermelo.

Una spruzzata di lacca e via.

Mentre mi dirigevo verso la casa di Beatrice pregustavo il piacere dell'atteso pomeriggio ricamando  fantastici pensieri.

Ero bella  e corteggiata.

Intanto scorsi Beatrice che mi stava venendo incontro raggiante.

Aveva una gonna a palloncino color giallo e una camicetta bianca col collo arrotondato  che valorizzava la sua esile figura. I capelli erano stretti in uno chignon che le dava un'aria più adulta.

"Che bella che sei" le dissi mentre ci incamminavamo velocemente verso la piazza.

"Anche tu non scherzi. Sembri una  farfalla svolazzante", rispose ridendo.

Intanto eravamo arrivate e c'era una grande ressa.

Ragazzi che entravano, uscivano, spingevano.

Da dentro si sentivano i primi accordi, segno che l'inizio era vicino.

Conoscevamo quasi tutti e festosamente seguivamo  la  fila verso l'ingresso della sala.

Mano a mano che ci avvicinavamo aumentava il vociare dando la percezione di una sala gremita.

Appena dentro sprofondammo nella penombra, in attesa che si accendessero le luci sul gruppo che si intravedeva appena.

Ci appoggiammo alla parete non essendoci un posto libero ma godevamo di una bella posizione.

Beatrice cercava con lo sguardo Fabrizio ma Fabrizio non c'era.

Intanto lo scroscio di applausi accolse le prime note di Sitting on the dock of the bay che mio fratello stava intonando.

Ero presa dall'atmosfera elettrizzante di un avvenimento inedito  ma non mi sfuggì nonostante  l'oscurità lo sguardo di  delusione di Beatrice che era lì solo per lui.

Oltre che delusa era indispettita e a un certo punto si diresse verso l'uscita.

Perplessa,  la seguii per cercare di capire.

"Non erano questi i patti" mi disse nel corridoio deserto, cercando di guadagnare l'uscita.

"Quali patti? Di cosa parli?"

"Fabrizio", disse, "doveva esserci anche lui."

"Me l'avevi promesso!" La colpa è tua. Dovevi dirmelo che lui non c'era."

La rabbia le aveva appannato gli occhi.

Stava per piangere ma continuava  a inveire mentre già fuori, diretta verso casa sua,  decisi  di seguirla senza comunque riuscire  a calmarla.

Avevo cercato di spiegarle che non ne sapevo niente, che non c'entravo nulla ma lei si era trasformata in una vipera e mi stava sputando addosso tutto il veleno di cui non la credevo capace.

Mi sentii usata e provai una tristezza infinita.

Intanto era arrivata a casa e senza più parlarmi mi chiuse la porta in  faccia.

Mi guardai il vestito, le scarpe e stetti qualche istante a pensare cosa fare.

Camminavo verso la piazza mentre gli occhi bruciavano.

No, non ce la facevo a rientrare dentro. La festa era finita anche per me.

Cambiai direzione e puntai verso casa.

Ci sarebbero state altre occasioni, altri momenti, altri incontri.

Oggi no.

Oggi avevo solo voglia di piangere.

 

 
 
 

FLASHBACK

Post n°7 pubblicato il 07 Gennaio 2013 da spleen_dor
 

“Marta, ci sei?”

la voce proveniva dall’altra stanza ma era come provenisse dal  suo interno e qualcuno  l’avesse colta  sul fatto.

Era presente solo fisicamente, la mente altrove.

“Si, rispose meccanicamente, sto rifacendo il letto.” Il morbidissimo  piumino, appena poggiato su lenzuola rigorosamente in tinta, si lasciava accarezzare da sapienti mani quasi che il tocco adeguato, la piega perfetta,  le  confermassero  il giusto indirizzo dato alla sua vita.

“Sono qui, arrivo”.  Era da un po’ che lo ripeteva, in preda all’eccitazione. Non era bastato rivoltare tutto l’armadio alla ricerca di un vestito che fosse degno di quella serata, era ancora alla ricerca di un dettaglio, un fronzolo, un non so che potesse fermare per sempre l’emozione di quel momento.

“Dove andiamo pomeriggio?” la voce proveniva sempre dall’altra stanza  e le arrivava lontana, rarefatta. In realtà voleva prendere tempo, non sapeva dove voleva andare e, in fondo, non le interessava poi molto. Niente era andato come voleva, anche il piumino pendeva da una parte!

“Bè, dai, ci penseremo”. La sua voce era monocorde, diceva tutto.

“Eccomi”, si presentò raggiante sulla porta aperta alle infinite possibilità che l’aspettavano. Era la prima uscita, andava bene qualunque cosa, anche il più banalissimo film, in quel contesto, in quel momento, in quel fremito di vita. I sogni erano intatti. Bastava allungare una mano.

 

 
 
 

Nel cielo

Post n°6 pubblicato il 07 Gennaio 2013 da spleen_dor
 

L’ansia mi stava divorando. Facevo fatica a respirare, riempivo i polmoni per espellere l’aria ma nell’inspirare rimanevo a metà,  con un che di indefinito e indefinibile che raccoglieva tutte le mie impellenze senza risposta.

Un’inquietudine profonda, nata così, senza avvisaglie, goccia dopo goccia diventata un mare che mi stava sommergendo. La lotta tra come apparivo e come mi sentivo non aveva soste, l’immagine di falsa serenità era soltanto un quadretto idilliaco costruito  sulla restituzione  di  un’ immagine da tempo dimenticata.

Ero stata, non ero più.

Correvo e la mia ombra mi seguiva, non mi dava scampo, era un’appendice della quale non riuscivo a liberarmi.

Correvo, eravamo felici, la tua incoscienza e la mia fuse in un’esplosione di sentimenti e desiderio spezzarono sul nascere la nostra spinta in avanti.

Eravamo insieme quando seduti in un complice abbraccio, guardammo volare via, dopo essersi posata su di noi una piuma bianca, leggera, esitante, in alto, sempre più in alto fino a scomparire.

Il futuro era nostro ma avevamo venduto il passato, noi stessi.

Non subito, il tempo bussa sempre alla porta a reclamare i suoi debiti e il nostro, il mio, erano gli occhi che non vidi mai.

 
 
 

Tanto rumore…per nulla

Post n°5 pubblicato il 01 Aprile 2012 da spleen_dor
 

C’erano almeno tre buoni motivi
per cui mercoledì 29 febbraio,
Saverio Bortolotti di anni otto,
si trovava chiuso dentro l’armadio di camera sua.
Il primo si chiamava amore,
il secondo non ricambiato,
il terzo Susanna.

E dire che quello avrebbe dovuto essere un giorno speciale, se lo ricordava appena il suo ultimo compleanno, il 29 febbraio di quattro anni prima, che fosse un anno bisestile lo avrebbe capito col tempo,  ricordava solo che era vestito da Zorro e che alla sua festicciola, tanto rise,  che  gli occhi impiastricciati di nero,  cominciarono a bruciargli  così forte da dover ricorrere alle coccole di Su­sanna, l’amica francobollo di sua sorella, otto anni più grande di lui.

Ed ecco che a rovinargli la festa questo 29 febbraio   ci si era messa proprio  Gemma, sua sorella,  un tornado dagli occhi azzurri che aveva pensato bene, conoscendo la sua curiosità e malizia di bambino, di farlo assistere alle schermaglie amorose tra lei e Guido, suo aspirante moroso, che però non se la filava troppo  e allora si inventò un gioco scaramantico  chiudendo suo fratello nell’armadio e sperando che questa cosa, come per magia,  potesse spingere Guido a chiederle di mettersi insieme.

Saverio poteva sentire le voci dei suoi amici che si divertivano a giocare con la playstation mentre lui, in silenzio, nel buio dell’armadio, si era accucciato, per poter più comodamente assistere a una scenetta che si preannunciava gustosa non tanto però da fargliela preferire alla compagnia dei suoi amici.

“Ti piaccio?”  La voce di Gemma,  un sussurro, era rivolta  a un Guido stralunato, seduto sul letto,  le lunghe gambe abbandonate  che non sapevano trovare una posizione.

Lei, inginocchiata sul pavimento, accanto a due piedoni affondati in un paio di scarpe Nike d’ordinanza  si era fatta scivolare volutamente una spallina  della camiciola tanto che da sotto il cardigan affiorava  un filo di pizzo nero nettamente in contrasto con i colori dell’insieme. 

“Giochi a tennis?”  rispose lui con un’altra domanda, aria svagata,  occhi puntati su una racchetta appoggiata  ad  un angolo della stanza. Era visibilmente turbato ma non lo dava a vedere. Non era preparato a quella esplicitazione visiva e verbale  piombata all’improvviso, tanto più che era forte­mente preso da Susanna, l’amica, che, guarda caso, non se lo filava per niente.

Gemma, naso arricciato, visibilmente delusa, aggiustandosi la spallina, con  forzata naturalezza ri­spose acida:

“No, è di mio fratello, caspita non si capisce che è la stanza di un maschio?”

Saverio intanto, da dentro quella scatola chiusa cominciava a dare segni di irrequietezza, tanto più che la posizione innaturale e la scena insipida  non giustificavano  la sua rinuncia a cose più piace­voli.

Ma come fare, visto che quei due continuavano a confabulare, a voce bassissima ora e sua sorella probabilmente si era dimenticata di lui?

E poi, i suoi amici, a quest’ora si sarebbero dovuti accorgere che mancava e le patatine, la coca cola, la torta…

Ma dov’è Saverio?” Le parole di Susanna, entrata nella camera senza bussare li colse impreparati  e mentre Gemma con grande faccia tosta si guardava attorno stupita,  gli altri due erano usciti a cer­carlo.

Gemma intanto cercava di aprire l’armadio  sommersa dagli insulti di Saverio che le dava dell’incapace perché la chiave si era inceppata.

Il rumore metallico dei giri nella toppa e gli improperi che provenivano dall’interno  fecero accor­rere un po’ tutti ma una volta uscito Saverio non si seppe mai il perché e il per come di quel biz­zarro fuori programma.

 

 

 

 
 
 

FELICITA

Post n°4 pubblicato il 05 Febbraio 2012 da spleen_dor
 

Ciao”

“Ciao”, risposi asettica.

Ci mancava altro che chi  mi aveva rivolto il saluto,  accennando  un gran sorriso, intendesse imbastire una conversazione.

Non avevo nessuna intenzione di parlare, men che meno con una coetanea in vena di chiacchiere, realizzai da un rapido sguardo.

Ero appena uscita dallo studio del notaio che mi aveva convocato per annunciarmi che l’intero patrimonio, in immobili e denaro liquido, era stato assegnato a mia cugina, non si sa bene per quale ragione, o forse sì, pensai, con insolita cattiveria:  “senz’altro per i buoni servigi da lei recati negli  ultimi anni della  lunga malattia della zia”.

Ero indispettita e, in treno, durante il viaggio di ritorno, non riuscivo a contenere la stizza per la sorpresa inaspettata.

Mi sentivo osservata.

Evidentemente chi mi stava di fronte  si era accorta del mio nervosismo e non passò molto che mi vidi passare sotto gli occhi una scatola di cioccolatini.

 “Vuoi?”

Presi svogliatamente  una pralina dal contenitore.

“Cosa ti è successo?” “Hai una faccia da funerale!”

Certo, ne aveva di coraggio la sconosciuta viaggiatrice.

Stavo per darle una rispostaccia  quando mi fermai davanti allo sguardo più limpido e il sorriso più accattivante che avessi mai incontrato.

E mi venne naturale parlare.

Del resto la sconosciuta alla quale mi stavo raccontando di lì a poco non l’avrei più rivista, mi pareva di fare  un soliloquio.

Le lunghe estati trascorse in campagna dalla zia, io e Grazia che ci arrampicavamo sul ciliegio a raccogliere quelle grosse che stavano sempre un po’ più in alto e quella volta che:

“Grazia dove sei?”.

Correvo nell’immenso cortile della casa della zia, la cui facciata grigia e austera, nonostante i visibili rattoppi mostrava i segni del tempo.

Io e Grazia ci muovevamo per le enormi stanze che conoscevamo bene per i lunghi periodi trascorsi d’estate in quella bellissima dimora accolte dagli zii che non ebbero la fortuna di avere figli propri. 

Erano giornate di inesauribili scoperte, corse  a perdifiato nella campagna assolata  a inventare giochi sempre nuovi frutto di una fantasia fervida e colorata.

Vennero gli anni delle scelte, gli studi e l’amore mi portarono lontano, da anni correndo per lavoro su e giù per la penisola persi i contatti con il mio mondo, mamma e papà non c’erano più e solo raramente mi sentivo con gli zii e Grazia sempre più evanescente, presenza incombente nella loro vita dopo essersi persa la sua occasione di spiccare il volo.

Non è che pensassi spesso a Grazia per la verità, non la vedevo da tempo ormai ma forse, almeno per i bei ricordi che ci legavano, avrei potuto mantenere contatti meno formali se non fosse che  a un certo punto avevo voluto quasi scappare da un ambiente che mi stava stretto e non corrispondeva alle mie aspirazioni e sete di libertà.

Non tutto era andato come era nei desideri però, tranne il lavoro.

Organizzavo eventi di musica classica per una grossa agenzia di spettacolo e, entrata in punta di piedi, in breve mi ero ritagliata uno spazio di tutto rispetto.

Furono anni travolgenti anche per l’amore. Conobbi Paolo, agente di spettacolo in carriera col quale pensai di dividere tutto e per diverso tempo fu così.

Ero così impegnata e così ingenua che non mi accorsi che Paolo, da qualche mese, mi tradiva spudoratamente e nei modi più plateali possibili.

Guardavo  la mia compagna di viaggio, ora, per cogliere nel suo sguardo una qualche reazione al mio racconto ma lei fece solo un cenno con la testa come di chi si dimostra interessato a quanto stai dicendo.

E, come se mi trovassi davanti alla psicologa che da tempo seguiva i  tormenti della mia anima, le raccontai quell’episodio che fece saltare i già fragili equilibri.

Mi trovavo in città, rientrata prima del previsto quando intravidi, attraverso la vetrata di un bar piuttosto defilato, Paolo, seduto a un tavolino con una giovane in atteggiamento inequivocabile.

L’impulso fu quello di fuggire ma non riuscii a muovermi di là e anzi, come un automa mi diressi all’interno in preda a una tempesta emozionale.

Mi sedetti accanto a loro e li fissai negli occhi.

Lessi la sorpresa nei loro sguardi e dalle prime parole, occhi lucidi per il pianto trattenuto, mi resi conto di essere patetica.

“Pensavo di farti una sorpresa, ma sei tu che l’hai fatta a me,” dissi, ridendo nervosamente.

“Ma con chi sta parlando, io non la conosco neppure”rispose Paolo, voltandosi come chi si guarda alle spalle per incrociare un altro interlocutore.

“Ma sei impazzito? la voce, ora,  mi  usciva strozzata dalla gola.

“E' lei che è impazzita. Io non l'ho mai vista!"

La ragazza,  impassibile, seguiva la scena, imbarazzata e fortemente a disagio.

Io, inchiodata a quella sedia, in quella frazione di secondo realizzai la fine.

Riuscii comunque ad alzarmi, barcollante, e con le ultime briciole di dignità rimasta, prima di scappare dissi:

“Mi scusi, forse ha ragione, devo essermi sbagliata.”

Non andai a casa, mi rifugiai in un albergo dove, dopo essermi imbottita di tranquillanti, feci il sonno più lungo e travagliato della mia vita ma al risveglio, ancora svestita, chiamai al cellulare il mio avvocato.

Non lo rividi più se non in aula di tribunale per firmare gli atti della separazione.

Fu più dura di quanto pensassi. Se non avessi avuto il lavoro probabilmente non ce l’avrei fatta ma giorno dopo giorno mi accorsi che stavo ripensando alla mia vita  con sempre più leggerezza  liberandomi da angosce e senso di fallimento. Certamente la fiducia negli uomini era a quota zero e il cinismo alle stelle.

La mia interlocutrice rimasta in silenzio tutto questo tempo mi disse solo che ero una donna forte e anche la scoperta del tradimento mi aveva visto uscire vittoriosa da un scontro in cui avrei dovuto lottare contro l’inconsistenza del nulla.

Lei era felice, era naturalmente felice, non c’erano motivi particolari per esserlo o meglio oggi lo era un po’ più di sempre perché aveva appena ricevuto un’ottima notizia della quale non voleva parlare per scaramanzia ma mi disse che  di là a  tre mesi...

Era cresciuta con suo padre, di sua madre seppe solo che se ne era andata quando lei aveva due anni. Suo padre l’aveva accudita, l’aveva amata, l’aveva seguita negli studi, l’aveva accompagnata nella vita. Una vita fatta di delusioni, frustrazioni fino all’incontro con Antonio, ma lei era felice, non fosse altro che per quell’improbabile nome attribuitole alla nascita: Felicita.

Felicita e Antonio furono al settimo cielo quando seppero che avrebbero avuto un bambino. Lei gli avrebbe dato tutto ciò che le era stato sottratto per cui ogni mese  della gravidanza l’aveva vissuto con un immedesimazione totale nel miracolo che stava vivendo, e la pancia cresciuta  a dismisura racchiudeva non solo la vita di quell’esserino che di lì a poco sarebbe nato ma anche i suoi sogni, i suoi progetti, le sue sicurezze.

“E’ bellissimo  Feli” le disse suo marito curvato su di lei ancora stravolta dal parto col suo bimbo tra le braccia.

L’emozione le serrava la gola. Non riuscì a dire altro che:

“ E’ mio? ” quasi incredula che fosse potuto succedere.

Il bimbo aveva due anni ormai e lei oggi avrebbe abbracciato il mondo intero, tanto era felice.

Ci salutammo, scambiandoci indirizzi e numeri di telefono con l’intenzione di rivederci.

Passarono tre mesi.

Avevo pensato spesso a Felicita e al suo sorriso contagioso.

“Quasi, quasi le telefono” mi dissi!

Feci il numero ma mi rispose una voce estranea, non era lei.

“Felicita?” – mi rispose una voce di donna.

“Sì, Felicita”,  pensavo rispondesse lei.

 “Ma lei chi è scusi?” mi chiese la stessa voce.

“Un’amica,” risposi.

“Mi dispiace, ma, come, non sa niente?"

"Che cosa, scusi?”

 “Felicita… non c’è più”.

“Non ce l’ha fatta!”

…”E’ morta una settimana fa.”

 

 

 

 
 
 
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