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Siamo ombre: le nostre anime sono morte (prima parte)

Post n°36 pubblicato il 29 Aprile 2021 da daniela.g0
 

Gulbahar Haitiwaji (Foto: Emmanuelle Marchadour)          

 

L'arresto di Jimmy Lai e il silenzio del Vaticano         

Lo scorso 2 dicembre è stato arrestato ad Hong Kong il noto imprenditore, giornalista ed attivista Jimmy Lai (pseudonimo di Lai Chee-Ying), 73 anni, uno dei più noti sostenitori del movimento a favore della democrazia della grande metropoli. L'accusa che gli è stata mossa è quella di aver presumibilmente commesso una frode relativa all'uso illecito dei beni della sua azienda. E' già la seconda volta durante il 2020 che Lai viene arrestato dalle autorità locali in circostanze sospette. La prima volta, è stato accusato dalle autorità di aver violato le sezioni della legge sulla sicurezza nazionale recentemente approvata. Rilasciato su cauzione subito dopo il primo arresto, al noto magnate dei media è stata invece negata la libertà su cauzione per le nuove accuse di frode ed incarcerato il giorno dopo, in quanto costituirebbe un rischio per la sicurezza nazionale.      

Molti attivisti, politici e giornalisti hanno espresso profondo rammarico per la notizia dell'arresto di Jimmy Lai, fondatore dell'Apple Daily, uno dei quotidiani più popolari di Hong Kong: il ministro degli Esteri del Regno Unito, Dominic Raab, ha chiesto che "le autorità di Hong Kong e Pechino pongano fine alla loro battaglia per soffocare l'opposizione". Anche il Segretario di Stato Mike Pompeo e il sovietico Natan Sharansky hanno condannato l'arresto del giornalista, mentre Sarah Champion del partito laburista inglese, insieme ad altri membri del Parlamento, hanno sollevato la situazione di Lai alla Camera dei Comuni britannica, come ha riportato il 7 dicembre dello scorso anno un articolo della grande testata americana Wall Street Journal, a firma del giornalista William McGurn. L'arresto del magnate era stato preceduto dall'arresto, nei giorni precedenti, da altri tre eminenti attivisti di Hong Kong.      

Il giornalista americano, nel darne notizia pone una sconcertante considerazione, che non è passata inosservata anche in altre testate americane:      

 

"Ma c'è un posto in cui la prepotenza cinese suscita solo silenzio: il Vaticano. Il che è strano, perché Jimmy Lai non è solo il più noto sostenitore della democrazia di Hong Kong; è anche il cattolico laico più eminente del luogo."        

 

A metà aprile 2021 Jimmy Lai è stato condannato a un anno di carcere per aver organizzato e partecipato a una marcia di protesta non autorizzata nel 2019. Per Lai, che si trova in carcere già da dicembre, è la prima condanna per il suo ruolo nelle manifestazioni a favore della democrazia.       

A processo insieme a Lai c'erano in tutto 9 attivisti per la democrazia. Quattro di loro hanno ricevuto pene che vanno tra gli 8 e i 18 mesi di carcere, mentre altri quattro sono stati condannati, ma la loro pena è stata sospesa: tra questi ultimi ci sono gli ex parlamentari Martin Lee, 82 anni, un rispettato avvocato noto come "il padre della democrazia" a Hong Kong, considerato uno dei fondatori del movimento, e l'avvocato Margaret Ng. E' quanto ha riportato il sito Aljazeera, il 16 aprile.        

 

Il genocidio degli Uiguri in Cina             

Dalle vicende accadute ad Hong Kong ci spostiamo quindi alla vecchia Europa dove, il 25 febbraio scorso, il parlamento olandese ha approvato una mozione non vincolante che definisce "genocidio" i crimini contro gli uiguri in Cina. La mozione è stata presentata da Sjoerd Sjoerdsma, del partito di centrosinistra Democraten 66, il quale ha proposto inoltre di porre pressioni sul Comitato Olimpico Internazionale allo scopo di spostare le Olimpiadi invernali del 2022 fuori dalla Cina. La mozione afferma che "misure intese a prevenire le nascite" e "avere campi di punizione" rientrano nella risoluzione 260 delle Nazioni Unite, nota in generale come convenzione sul genocidio. Lo ha scritto Marco Respinti sulla rivista Bitter winter. Il testo della mozione olandese afferma senza ombra di dubbio che "in Cina si sta verificando un genocidio contro la minoranza uigura". Mentre, dall'alto lato dell'oceano, la Camera dei Comuni del Parlamento canadese ha votato - il 22 febbraio scorso - a sostegno di una mozione che ha riconosciuto in modo formale i crimini del PCC (Partito Comunista Cinese) come genocidio.      

L'ambasciata cinese nei Paesi Bassi ha risposto definendo il genocidio nello Xinjiang "una vera e propria menzogna", diffusa con "totale disprezzo dei fatti e del buon senso", attraverso una mozione che "ha deliberatamente imbrattato la Cina e interferito grossolanamente negli affari interni della Cina". Marco Respinti, caporedattore di International Family News, scrive: «Corteggiando il ridicolo, l'ambasciata cinese ha anche aggiunto che "[negli] ultimi anni, la popolazione uigura nello Xinjiang ha goduto di una crescita costante e il loro tenore di vita ha visto un miglioramento significativo", ribadendo la classica menzogna negazionista del regime: "Le questioni relative allo Xinjiang non riguardano mai diritti umani, etnia o religione, ma sulla lotta al terrorismo violento e alla secessione". Indubbiamente, questa reazione ha confermato che i sostenitori della mozione hanno colpito il PCC dove fa male».          

Secondo quanto ha riportato il quotidiano britannico The Guardian lo scorso 22 marzo, anche Stati Uniti, insieme a Canada, Regno Unito e Unione Europea si sono avviati quindi verso un'azione congiunta per imporre sanzioni verso gli alti funzionari cinesi coinvolti nell'internamento di massa dei musulmani uiguri della provincia dello Xinjiang. E' la prima volta da trent'anni che Regno Unito o Unione Europea abbiano punito la Cina per aver violato i diritti umani.         

In una dichiarazione, la Cina ha affermato: «La parte cinese esorta la parte dell'UE a riflettere su se stessa, ad affrontare apertamente la gravità del suo errore e a rimediare. Deve smetterla di dare lezioni ad altri sui diritti umani e di interferire nei loro affari interni. Deve porre fine alla pratica ipocrita dei doppi standard».           

Mente l'eurodeputato Guy Verhofstadt ha dichiarato: «La Cina ha appena ucciso l'accordo di investimento UE-Cina sanzionando le persone che criticano il lavoro schiavo e il genocidio nello Xinjiang. Come potremmo mai fidarci di loro per migliorare la situazione dei diritti umani degli uiguri se le chiamano semplicemente "fake news"?».           

Molti attivisti ed esperti delle Nazioni Unite hanno affermato che almeno un milione di musulmani sono detenuti nei campi dello Xinjiang. La Cina tuttavia nega le violazioni dei diritti umani e afferma che i suoi campi forniscono formazione professionale e si rendono necessari per combattere l'estremismo.             

 

L'influenza di Pechino sulle università occidentali              

Intanto il settimanale francese Le Point ha pubblicato, lo scorso 26 febbraio, un'indagine clamorosa sulle modalità in cui la Cina sta procurandosi il favore delle università occidentali. Molte scuole inglesi sono ormai sotto la marcata influenza e la propaganda di Pechino. Nigel Farage, il leader del Reform UK Party britannico, ha recentemente twittato che "i miliardari cinesi con collegamenti diretti al PCC stanno comprando le scuole britanniche - e inondando il curriculum con la loro propaganda". Farage ha poi elencato i nomi di alcuni nel Regno Unito "sotto il controllo cinese": Abbots Bromley School, Bournemouth College, Saint Michael School, Bosworth College, Bedstone College, Ipswich High School, Kingsley School, Heathfield Knoll School, Thetford Grammar, Wisbech Grammar, Riddlesworth Hall, Myddelton College, GATTI College.           

Anche il Daily Mail, in un'inchiesta, conferma come molti istituti prestigiosi britannici siano finiti in mano cinese, fornendo in tal modo un'istruzione secondo le linee approvate dal regime comunista. In grave crisi finanziaria innescata dal CoVID, a causa della diminuzione delle iscrizioni o dall'abbassamento delle tasse per la mancata frequenza fisica degli studenti, gli istituti privati - per riempire le casse ormai languenti - hanno accettato di passare sotto il controllo di Pechino, ricevendo in cambio lauti finanziamenti. In quattro anni sono stati conclusi ben 17 accordi tra istituti britannici e società cinesi, molte delle quali sono riconducibili ad alti funzionari del Partito Comunista cinese. Gli studenti cinesi, appartenenti a facoltose famiglie con legami al Partito Comunista, beneficiano di corridoi privilegiati per accedere a queste prestigiose scuole.      

E' evidente come ormai per Pechino l'istruzione - opportunamente orientata - stia divenendo strategica, affiancando tecnologie, risorse minerarie e infrastrutture.       

Fabio Massimo Parenti, professore associato dell'Istituto Internazionale "Lorenzo de Medici" di Firenze, è stato ospite nello Xinjiang, dove si stima che fino a due milioni di uiguri siano stati rinchiusi in "campi di rieducazione". E' quanto ha riportato il sito Scenarieconomici, in un articolo a firma di Giuseppina Perlasca.      

Da settembre 2019, a Urumqi, capitale della regione uigura dello Xinjiang nella Cina occidentale, Christian Mestre, decano onorario della facoltà di giurisprudenza dell'Università di Strasburgo, ha partecipato a un "seminario internazionale sulla lotta al terrorismo, alla deradicalizzazione e la tutela dei diritti umani". Il seminario è stato organizzato dalla Repubblica Popolare Cinese. Le dichiarazioni di Mestre sono state trascritte dai media statali, dall'agenzia di stampa Xinhua e dal quotidiano nazionalista Global Times. Sembra che i metodi usati in Cina piacciano agli accademici francesi; il professore ha affermato infatti: "Spero che la Francia ed altri Paesi europei possano adottare le risposte fornite dallo Xinjiang". Mestre ha fatto riferimento ai "centri di formazione professionale", il nome dato dalla Cina ai suoi campi di rieducazione. "Queste persone non sono in carcere", ha affermato il professore, "ma mandate alla scuola dell'obbligo".           

 

La terribile prigionia di Gulbahar Haitiwaji          

Appartenente alla minoranza islamica uiguri, Gulbahar Haitiwaji viveva in Francia da dieci anni insieme con il marito Kerim e le loro due figlie: erano entrambi uiguri dello Xinjiang. 

La loro vita era scorsa tranquillamente nel loro appartamento di Boulogne, quando Gulbahar riceve all'improvviso una telefonata dalla Cina: l'uomo al telefono dice di chiamare per conto della compagnia petrolifera in cui lei e suo marito avevano trovato il primo impiego come ingegneri, e le chiede di tornare a Karamay per firmare dei documenti. Gulbahar non vuole tornare a Karamay, la città nella provincia cinese occidentale dello Xinjiang dove aveva lavorato per la compagnia petrolifera per più di 20 anni. Ha un brutto presentimento e chiede la possibilità che un amico possa occuparsi dei suoi affari per procura. L'uomo le risponde che l'avrebbe richiamata tra due giorni, dopo aver esaminato la possibilità che un amico di Gulbahar agisse per suo conto. Due giorni dopo, l'uomo richiama la donna dicendole: "La concessione della procura non sarà possibile, madame Haitiwaji. Dovrà venire a Karamay di persona".       

Karamay era il luogo che Gulbahar e il marito Kerim si erano lasciati alle spalle, era il luogo dove si leggeva "niente uiguri" alla fine degli annunci di lavoro, il luogo dove le minoranze riscuotevano buste paga rosse, meno pesanti delle paghe dei colleghi Han, il gruppo etnico dominante. Kerim tuttavia si sforza di tranquillizzare la moglie e alla fine Gulbahar decide di partire. Al suo arrivo si reca presso l'ufficio della compagnia petrolifera a Karamay per firmare i decantati documenti relativi al suo imminente pensionamento. «Nell'ufficio dalle pareti scrostate sedevano il contabile, un Han dalla voce aspra e la sua segretaria, curvi dietro un paravento», scriverà ricordando - anni dopo - Gulbahar.     

«La tappa successiva si è svolta nella stazione di polizia di Kunlun, a 10 minuti di auto dalla sede dell'azienda. Lungo la strada, ho preparato le mie risposte alle domande che probabilmente mi sarebbero state poste. Ho cercato di farmi forza. Dopo aver lasciato le mie cose alla reception, sono stata condotta in una stanza stretta e senz'anima: la stanza degli interrogatori. Non vi ero mai stata prima. Un tavolo separava le due sedie dei poliziotti dalle mie. Il ronzio silenzioso della stufa, la lavagna mal pulita, l'illuminazione pallida: tutto questo catturava il mio sguardo e creava atmosfera. Abbiamo discusso i motivi per cui sono partita per la Francia, il mio lavoro in un panificio e in una caffetteria nel quartiere degli affari di Parigi, La Défense».                  

Ricorda, ancora molto nitidamente, Gulbahar:         

«Poi uno degli agenti mi ha infilato una foto sotto il naso. Mi sono sentita allora ribollire il sangue nelle vene: era un viso che conoscevo bene quanto il mio: quelle guance piene, quel naso sottile. Era mia figlia Gulhumar. Era in posa davanti a Place du Trocadéro a Parigi, infagottata nel suo cappotto nero, quello che le avevo regalato. Nella foto, stava sorridendo, una bandiera in miniatura del Turkestan orientale in mano, una bandiera che il governo cinese aveva vietato. Per gli uiguri, quella bandiera simboleggia il movimento per l'indipendenza della regione. L'occasione è stata una delle manifestazioni organizzate dalla sezione francese del Congresso mondiale degli uiguri, che rappresenta gli uiguri in esilio e si pronuncia contro la repressione cinese nello Xinjiang.      

 

 

Una manifestazione a favore degli uiguri a Hong Kong nel 2019 (Foto: Jérôme Favre / EPA)      

 

Che tu sia politicizzato o meno, questi raduni in Francia sono soprattutto un'opportunità per la comunità di riunirsi, proprio come i compleanni, l'Eid e la festa di primavera di Nowruz. Puoi andare a protestare contro la repressione nello Xinjiang, ma anche, come ha fatto Gulhumar, a vedere amici e raggiungere la comunità degli esiliati. A quel tempo, Kerim era un assiduo frequentatore. Le ragazze saranno andate una o due volte. Io non l'avevo mai fatto, la politica non fa per me. Da quando avevo lasciato lo Xinjiang, ero solo meno interessata.        

All'improvviso, l'ufficiale ha sbattuto il pugno sul tavolo.
"La conosci, vero?"     

"Sì. È mia figlia."     

"Tua figlia è una terrorista!"     

"No. Non so perché si trovasse a quella dimostrazione."       

Continuavo a ripetere: "Non lo so, non so cosa ci facesse lì, non stava facendo niente di male, lo giuro! Mia figlia non è una terrorista! Nemmeno mio marito!"      

Non ricordo il resto dell'interrogatorio. Tutto quello che ricordo è quella foto, le loro domande aggressive e le mie futili risposte. Non so per quanto tempo tutto questo sia andato avanti. Ricordo che quando finì dissi, irritata:     

"Posso andare adesso? Abbiamo finito qui?". Poi uno di loro mi disse: "No, Gulbahar Haitiwaji, non abbiamo finito."»                          

 

Fine prima parte.      

Qui la seconda parte dell'articolo.

 

 

 
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