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Che fine hanno fatto le promettenti scoperte sul glaucoma? - Prima parte

Rita Levi Montalcini (Torino, 1909 - Roma, 2012)   

 

Con il termine glaucoma viene identificato un gruppo di patologie oculari generate da molteplici fattori, con la caratteristica dell'aumento della pressione intraoculare (IOP), fenomeni degenerativi a carico della testa del nervo ottico e un progressivo deterioramento del campo visivo. Alcune forme di neuropatia glaucomatosa vengono tuttavia diagnosticate senza evidenza clinica di ipertensione oculare e inoltre la perdita visiva progressiva nel glaucoma può verificarsi anche con valori di IOP controllati farmacologicamente. 

La malattia è ora sempre più vista come una delle neurodegenerazioni del sistema nervoso centrale. 

Il glaucoma è caratterizzato dalla distruzione delle cellule retiniche e dalla perdita degli assoni che costituiscono il nervo ottico. Il nervo ottico è una struttura del sistema nervoso costituita dalle fibre (assoni) di particolari neuroni, chiamati cellule ganglionari retiniche, che nel glaucoma sono dapprima mal funzionanti per poi successivamente andare incontro ad apoptosi e quindi a morte programmata cellulare. 

Ricordiamo qui come il nervo ottico sia responsabile della trasmissione dei segnali luminosi dalla retina al cervello.   

 

Le cause sconosciute del glaucoma   

Come abbiamo visto, la pressione intraoculare non è l'unica causa che può scatenare il glaucoma. Esiste infatti il glaucoma a pressione normale (NTG) che si sviluppa malgrado la pressione intraoculare rimanga entro un range di normalità. Di fatto le cause che possono indurre il glaucoma sono molteplici e i meccanismi non sono del tutto noti e poco studiati. 

Risulta quindi evidente che occorrerebbe risalire alle cause scatenanti la malattia per poter intervenire in modo efficace. Purtroppo l'unico fattore di rischio che si conosce e sul quale è possibile intervenire attualmente è la pressione intraoculare. 

Nel glaucoma a pressione normale tuttavia il 12% dei pazienti continua a progredire nella malattia nonostante si intervenga con procedure di filtrazione per abbassare la pressione intraoculare entro certi limiti. L'intervento chirurgico per il glaucoma con la creazione di una bozza filtrante è riservato anche nei casi di glaucoma a pressioni elevate, allorquando le terapie mediche massimamente tollerate non siano più sufficienti a controllare adeguatamente la pressione intraoculare. 

Gli interventi chirurgici sull'occhio che creano una bozza filtrante presentano tuttavia gravi rischi. L'endoftalmite tardiva o nel breve termine è il rischio maggiormente temuto dagli oculisti e la sua incidenza complessiva può raggiungere il 9,6%. L'infezione può essere fulminante e non lasciare scampo a chi ne venga colpito, malgrado cure tempestive. La bozza filtrante espone al rischio di infezioni per tutta la vita, oltre ad essere causa di dolore, sensazione di corpo estraneo e di bruciore. Senza contare la deformazione della superficie oculare, l'alterazione della dinamica palpebrale e lo scarso risultato estetico.   

 

La chirurgia del glaucoma minimamente invasiva (MIGS)   

La comunità scientifica che si occupa di glaucoma presenta spesso in modo quasi trionfale i nuovi interventi chirurgici, definiti mininvasivi (MIGS), che negli ultimi anni sono stati sempre più praticati sui pazienti affetti da glaucoma: un tempo il trattamento chirurgico vero e proprio era considerato "l'ultima opzione" terapeutica disponibile. 

Tuttavia è necessario sottolineare che, nel caso di interventi creanti una bozza filtrante come XEN Gel Microstent, la "mininvasività" degli stessi si debba riferire solo al fatto che essi risparmiano i tessuti oculari rispetto alla convenzionale trabeculectomia, mentre permane la possibilità di gravi rischi che possono condurre fino alla perdita totale della vista.

Inoltre, benché i nuovi interventi chirurgici mirino a essere meno invasivi, molti sono stati introdotti con poche prove a sostegno da parte di studi clinici controllati e randomizzati

Con i termini "studio clinico controllato randomizzato" (RCT, randomized controlled trial) si intende un tipo di studio clinico che miri a ridurre i bias (in statistica, distorsione) durante la sperimentazione di un nuovo trattamento.   

 

XEN Gel Microstent   

XEN Gel Microstent è un dispositivo chirurgico microinvasivo sottocongiuntivale per il glaucoma sviluppato con l'obiettivo di migliorare la prevedibilità e il profilo di sicurezza delle procedure chirurgiche per il glaucoma che formano bozze filtranti. Lo stent è un tubo idrofilo composto da un gel suino reticolato con glutaraldeide con buona stabilità e biocompatibilità con minima reazione tissutale. 

Lo stent XEN Gel - secondo numerosi studi - risulta controllare la pressione intraoculare con un'efficacia pari alla trabeculectomia, intervento chirurgico per il glaucoma molto più complesso e invasivo. Ma la durata dell'efficacia di stent XEN Gel è limitata nel tempo, con un massimo documentato di quattro anni. 

XEN Gel Microstent ha ottenuto il marchio CE nel dicembre 2015 ed è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel novembre 2016. Da allora, il dispositivo è stato ampiamente disponibile e sono stati pubblicati numerosi studi. Ma è doveroso sottolineare come non siano mai stati condotti studi clinici controllati randomizzati sulla sua efficacia e sicurezza fino ad oggi

Questo dispositivo avrebbe dimostrato, secondo quanto ci riporta una revisione di Antonio Fea e colleghi nel 2020, risultati promettenti con minori rischi rispetto agli interventi chirurgici tradizionali. 

Tuttavia, secondo una recentissima revisione sistematica di Lu Gan e colleghi (su Frontiers il testo integrale), è fondamentale notare che nonostante i vantaggi dello stent XEN Gel di minimizzare i danni ai tessuti e ridurre la durata dell'intervento chirurgico, permanga un rischio di gravi complicazioni, tra cui endoftalmite, emorragia sovracoroideale (severa complicazione causata dall'accumulo di sangue tra la coroide e la sclera) e glaucoma maligno (aumento incontrollabile della pressione intraoculare). Pertanto, il follow-up postoperatorio e il riconoscimento precoce di gravi complicazioni sono essenziali per la gestione chirurgica. 

Lo stent XEN Gel viene impiantato ormai diffusamente anche in casi di glaucoma iniziale o moderato; ma le complicanze postoperatorie precoci «includono maculopatia ipotonica (1,9-4,6%), occlusione (3,9-8,8%), emorragia sovracoroideale (SCH), distacco della coroide (0-15%), erosione congiuntivale ed esposizione dello stent in Gel XEN (1,1-2,3%), perdite da ferite e bozza (2,1%) e glaucoma maligno (MG) (2,2%). Le complicazioni postoperatorie intermedie dell'impianto dello stent in Gel XEN includono migrazione di XEN (1,5%), ptosi [abbassamento della palpebra, n. d. r.] (1,2%), endoftalmite (0,4-3%), edema maculare (1,5-4,3%), bozza ipertrofica (8,8%) e frammentazione sottocongiuntivale dello stent in Gel XEN (segnalata in 2 casi). Le complicazioni postoperatorie tardive segnalate nei casi includevano dislocazione spontanea e degradazione intraoculare». 

Lo stent in gel XEN, comportando la formazione di una bozza congiuntivale filtrante, spesso richiede una gestione congiuntivale postoperatoria, differendo dall'attuale concetto rivisto di procedure minimamente invasive. Le complicazioni sono innescate nella maggior parte dei casi dall'estrusione del tubo in gel lungo 6 millimetri. Secondo uno studio retrospettivo di Raquel Burggraaf-Sanchez de Las Matas e colleghi, pubblicato su PubMed a fine 2021, l'incidenza - anche a lungo termine - di una complicanza gravissima come l'endoftalmite «mostra un tasso più elevato (1,7%) rispetto agli studi precedenti con una dimensione del campione significativa (0,4-1,4%)». 

«Dalla nostra cartella di 293 occhi operati tra novembre 2016 e novembre 2019, cinque (1,7%) pazienti hanno sviluppato endoftalmite, che si è verificata rispettivamente nei mesi 3, 4, 5, 11 e 14 dopo l'intervento. Il sessanta per cento era stato sottoposto a precedenti procedure di needling [agopuntura intorno la bozza mediante un finissimo ago, n. d. r.]. Tutti mostravano una precedente bozza piatta e avevano sviluppato una perforazione della congiuntiva causata dalla porzione distale del tubo. Un paziente è stato eviscerato precocemente a causa di un decorso fatale. Il trattamento consisteva in antibiotici intravitreali, orali e topici, nonché corticosteroidi topici. L'ottanta per cento è stato sottoposto a rimozione del dispositivo, sutura dello spazio congiuntivale, lavaggio della camera anteriore, estrazione della linguetta dell'umore acqueo (AH) (uno positivo per S. epidermidis e uno per Streptococcus agalactiae) e vitrectomia pars plana. Un secondo paziente è stato eviscerato a causa di tisi bulbare. Dei tre pazienti rimanenti, uno è stato sottoposto a vitrectomia per distacco di retina, mentre due pazienti hanno richiesto un intervento chirurgico per il glaucoma per il controllo della pressione intraoculare. La VA [acuità visiva, n. d. r.] finale è stata ≤20/125 in tutti i pazienti. 

Conclusione: il dispositivo XEN45 ® sembra innescare l'endoftalmite tramite estrusione dello stent o perdite inosservate attraverso difetti congiuntivali. Si dovrebbe prestare particolare attenzione alle bozze piatte e avascolari».

 

Un occhio destro come si presenta il giorno dopo l'impianto di Preserflo Microshunt: come si nota, la tasca sclerale (la bozza) è parzialmente coperta dalla palpebra superiore (A). Nella vista ravvicinata lo shunt raggiunge la camera anteriore senza toccare l'iride o la cornea (B). Vista della prominente tasca sclerale durante lo sguardo verso il basso (C)  

 

L'intervento chirurgico di trabeculectomia   

La trabeculectomia, intervento di chirurgia oculare ideato nei lontani anni Sessanta dall'oftalmologo britannico John Edward Cairns, continua a rimanere ancora il gold standard della terapia del glaucoma: intervento penetrante altamente invasivo, può controllare efficacemente la pressione intraoculare, sebbene i dati sul suo funzionamento a lungo termine non siano così promettenti come si ritiene comunemente. 

Si deve ricordare infatti che i dati disponibili sull'efficacia a lungo termine della trabeculectomia sono molto scarsi, anche per la difficoltà di seguire i pazienti nel tempo. Tuttavia, secondo uno dei pochi studi che hanno seguito i pazienti nel lungo termine, dopo 5 anni dall'intervento di trabeculectomia, il 10% dei pazienti si deve sottoporre a nuovo intervento filtrante; dopo 10 anni, il 25% dei pazienti deve subire un nuovo intervento; mentre dopo 15 anni, è ben il 58% la percentuale di pazienti che deve sottoporsi a nuovo intervento filtrante. 

Le complicazioni possibili - come l'endoftalmite - a seguito dell'intervento di trabeculectomia sono molto severe, tanto da far discutere molti specialisti se essa abbia ancora un futuro nei prossimi anni. Secondo quanto riporta uno fra i tanti studi che annoverano le complicanze dopo intervento di trabeculectomia, «i problemi principali includono complicazioni a breve e lungo termine come ipotonia, maculopatia ipotonica, fenomeno di wipe-out [perdita irreversibile della visione centrale, n. d. r.], perdite della bozza, cataratta, versamento coroideale ed emorragia. Queste complicazioni sono accelerate dall'uso concomitante di antifibrotici, ma senza di essi, le possibilità di fallimento a breve termine sono anche relativamente elevate». 

Gli interventi chirurgici più comuni per il glaucoma (la trabeculectomia e i dispositivi di drenaggio con shunt tubulare) abbassano la IOP deviando l'umore acqueo dalla camera anteriore allo spazio sottocongiuntivale. Occorre sottolineare come queste procedure siano soggette a ipotonia precoce (<1 mese postoperatorio) e complicazioni correlate all'ipotonia che possono causare una grave perdita della vista in almeno il 20% dei pazienti

Anche l'impianto XEN Gel è soggetto a ipotonia postoperatoria precoce e complicazioni che minacciano la vista. La miopia assiale (forma frequente di miopia caratterizzata dalla presenza di un bulbo oculare troppo lungo) è il fattore di rischio più significativo per il manifestarsi di ipotonia.   

 

La possibile perdita di acuità visiva dopo chirurgia filtrante del glaucoma   

Per quanto riguarda il temuto fenomeno del wipe out, secondo quanto ci riporta Tania Ray Bhadra e colleghi in uno studio che si occupa dell'incidenza della gravissima complicazione nel glaucoma a stadio avanzato, «alcune cause note di perdita della vista dopo chirurgia filtrante del glaucoma sono ipotonia, emorragia sovracoroideale, cataratta, edema maculare cistoide e anestesia retrobulbare che causa traumi al nervo ottico e alle strutture vascolari». 

Inoltre si deve ricordare che la chirurgia filtrante del glaucoma può causare la perdita dell'acuità visiva tramite una serie di meccanismi. Ad esserne colpiti non sono soltanto i pazienti con glaucoma avanzato, come abbiamo già visto. Tra le cause più comuni infatti si annoverano l'opacizzazione del cristallino, la maculopatia ipotonica, e il wipe out. I pazienti più anziani, quelli in cui il campo visivo preoperatoriamente mostrava una scissione maculare e quelli che avevano grave ipotonia (pressione intraoculare inferiore o uguale a 2 mmHg) il primo giorno postoperatorio a seguito di intervento di trabeculectomia, hanno maggiori probabilità di sperimentare wipe out.   

 

Un panorama sconfortante   

In questo panorama ovviamente sconfortante dal punto di vista dei pazienti, si comprende bene come diventi urgente ma anche imperativa la scoperta di nuove terapie che possano fermare o almeno rallentare efficacemente l'apoptosi (morte) programmata delle cellule ganglionari che costituiscono la retina

Ciò sarebbe fondamentale non soltanto per la terapia del glaucoma ma anche per la cura di tutte le patologie degenerative che coinvolgono la retina, come la retinite pigmentosa o la maculopatia degenerativa e per le quali finora non esistono terapie realmente efficaci. 

Eppure, nel corso di questi anni vi è stato un susseguirsi di scoperte promettenti che avrebbero meritato ulteriori approfondimenti.   

 

La scoperta di Rita Levi Montalcini   

Come ha riportato lo scorso maggio il sito Osservatorio Malattie Rare, il fattore di crescita dei nervi (NGF) è il più noto membro della famiglia delle neurotrofine, proteine che condividono un'origine comune e assolvono un ruolo indispensabile nello sviluppo di specifiche cellule. La presenza dell'NGF, ad esempio, è essenziale per la crescita e la sopravvivenza dei neuroni sensoriali periferici e simpatici, nonché di altri gruppi di neuroni specifici del sistema nervoso centrale. 

La popolarità del fattore di crescita nervoso è legata alle ricerche della celebre neurologa italiana e Premio Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini, la quale, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, giunse all'identificazione di una molecola al tempo sconosciuta, particolarmente concentrata nelle ghiandole salivari del maschio di topo. Ben presto si scoprì che quella molecola ricopriva vari ruoli, interagendo con bersagli interni ed esterni al sistema nervoso (fra cui le cellule dell'ipofisi, quelle che producono gli ormoni del sistema riproduttivo, i mastociti, i linfociti o i granulociti). Quella proteina era proprio il fattore di crescita dei nervi, che risultò poi capace di modulare una serie di meccanismi fondamentali dei sistemi neuroendocrino e immunitario. 

Grazie agli studi di Rita Levi Montalcini oggi si sa che l'NGF è presente anche nel cervello, esercita una funzione protettiva tale da garantire la sopravvivenza delle cellule nervose periferiche e concorre alla regolazione della sintesi di neurotrasmettitori e neuropeptidi nelle cellule nervose simpatiche e sensoriali. Addirittura, la quantità di NGF secreto dalle cellule bersaglio innervate da un dato neurone è fondamentale per la corretta crescita di quel neurone; per tale ragione, la ricerca scientifica si è orientata verso lo studio dell'NGF in relazione a patologie come l'Alzheimer e il Parkinson. Infatti, la scoperta di come la sintesi e il rilascio di NGF da parte dei neuroni della corteccia e delle cellule gliali possano risultare compromessi in certe patologie neurodegenerative ha condotto i medici e i ricercatori a valutare la somministrazione di NGF a queste specifiche cellule per tentare di interrompere la neurodegenerazione. Sfortunatamente, il fattore di crescita nervoso attraversa con difficoltà la barriera emato-encefalica e i risultati non sono stati quelli attesi. 

Ma se da una parte le cose non hanno preso la piega desiderata, da un'altra gli esiti della ricerca sull'NGF sono andati ben oltre l'atteso: infatti, l'utilizzo di questo fattore nel trattamento di alcune lesioni cutanee e, soprattutto, delle patologie oculari ha dato ottimi risultati.

 

Rita Levi Montalcini fotografata nel suo laboratorio  

 

Gli studi sull'NGF: soprattutto patologie oculari   

In una review pubblicata sulla rivista Current Neuropharmacology sono riassunti i risultati di alcuni studi sull'NGF riguardanti patologie come il glaucoma, la retinite pigmentosa, la maculopatia degenerativa e le ulcere della cornea. Il glaucoma è una delle più diffuse cause di cecità nel mondo. Gli scienziati hanno dimostrato che l'aggiunta di NGF in un modello animale di glaucoma comportava un arresto del processo di distruzione a cui vanno incontro le cellule gangliari della retina. In aggiunta, da altri studi era emerso che dopo l'applicazione di NGF la qualità della visione migliorava, come pure la funzionalità del nervo ottico. 

Era noto fin dagli anni Settanta che la somministrazione intraoculare di fattore di crescita nervoso può ridurre i danni di natura ischemica e meccanica nel nervo ottico e nei neuroni gangliari della retina. Questo ha indotto gli scienziati a valutare l'approccio con NGF per il trattamento delle retinopatie. A metà degli anni Novanta sono stati pubblicati i risultati di una ricerca, condotta su modello murino di retinite pigmentosa, che dimostrava come l'iniezione intravitreale di NGF riuscisse ad arrestare la degenerazione dei fotorecettori. La retinite pigmentosa è una patologia genetica caratterizzata dalla compromissione delle delicate strutture retiniche tramite cui l'occhio percepisce lo stimolo luminoso, perciò è causa di cecità e alterazione del campo visivo. Dallo studio in questione è emerso che il fattore di crescita nervoso sembra stimolare la proliferazione delle cellule dell'epitelio pigmentato della retina. 

L'uso dell'NGF è stato anche segnalato nel caso di un'anziana signora affetta da una forma di maculopatia degenerativa refrattaria alle terapie: il trattamento continuato con NGF ha condotto a un incremento dell'acuità visiva già dopo alcune settimane dalla prima somministrazione.

 

La colorazione con ematossilina/eosina delle retine di occhi glaucomatosi non trattati ( A ) e trattati con NGF ( B ) ha mostrato una perdita significativamente inferiore ( P < 0,05) di RGC [cellule ganglionari retiniche, n. d. r. (frecce)] negli animali che hanno ricevuto 200 μg/mL di collirio NGF ( C ). L'immunocolorazione anti-TUNEL delle retine di occhi glaucomatosi non trattati ( D ) e trattati con NGF ( E ) ha mostrato una quantità significativamente inferiore ( P < 0,05) di RGC apoptotiche [che vanno incontro a morte programmata, n. d. r. (frecce)] negli animali che hanno ricevuto NGF ( F ). L'analisi molecolare ha mostrato un'espressione di mRNA significativamente inferiore di Bax (un biomarcatore dell'apoptosi cellulare) associata a una maggiore espressione di Bcl2 (un biomarcatore per la sopravvivenza cellulare), come illustrato dal rapporto Bcl-2/Bax ( G ), negli occhi glaucomatosi trattati con NGF rispetto agli occhi glaucomatosi non trattati. L'analisi Western blot di Bcl e 2/Bax ( H ) ha confermato questo effetto protettivo dell'NGF  

 

La svolta: un collirio per la cheratite neurotrofica   

La scoperta effettuata settant'anni fa da Rita Levi Montalcini, con gli studi che ne sono conseguiti, ha comunque già portato allo sviluppo della prima vera e propria terapia basata sul fattore di crescita nervoso, ad oggi utilizzata per il ripristino dell'integrità della cornea in pazienti affetti da cheratite neurotrofica, e ancora una volta l'importante traguardo è stato raggiunto grazie agli sforzi della ricerca italiana. Sempre a metà degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, i professori Alessandro Lambiase e Paolo Rama hanno avuto l'intuizione di proporre ai genitori di una bambina affetta da una grave forma di ulcera corneale un innovativo trattamento a base di NGF: fu un successo che, successivamente, i due ricercatori confermarono in un'ampia casistica di pazienti e che condusse all'approvazione di un farmaco, un collirio a base di NGF, oggi destinato alle persone affette da cheratite neurotrofica.      

 

Gli inquietanti interrogativi che circondano di mistero il collirio   

Ma cosa ne sarà mai stato di questo collirio? 

Sembra una domanda assurda, ma la risposta non è affatto scontata. Questo collirio è stato approvato per la cheratite neurotrofica ma è facile comprendere, in assenza di cure alternative efficaci, come molti pazienti possano nutrire speranze per la sua efficacia anche in altre patologie oculari. 

Così nei forum di medicina si può trovare la domanda, rivolta all'oculista, se sia possibile usare questo collirio per curare una donna ancora giovane e quasi cieca affetta da retinite pigmentosa. La risposta è sì, a patto che la farmacia ospedaliera lo fornisca per uno scopo diverso da quello per il quale è stato approvato, a patto che la paziente sia in grado di spendere 3.500 euro per una confezione della durata di soli 7 giorni, e a patto di trovare un oculista che voglia seguire la paziente nella prova. 

Perché, al di là dei comprensibili entusiasmi, il collirio in questione, di nome Oxervate e prodotto in Italia dalla Dompé farmaceutici, costava anni fa la cifra di ben 3.507 euro a confezione. Per una terapia della durata di due mesi, come consigliato in caso di cheratite neurotrofica, il costo ammontava a ben 28.000 euro. 

Quisquilie per chi li ha. Ma per chi non li aveva, si trattava di un ostacolo insormontabile, visto che il farmaco è registrato in classe C a totale carico del paziente. 

Ma non finisce qui. Se prima abbiamo parlato al passato, c'è una ragione. Il costo del farmaco infatti, guarda caso nel periodo COVID, è salito, anzi lievitato enormemente e inspiegabilmente: non bastano più 3.507 euro; da allora ce ne vogliono 17.536 euro a confezione, della durata di soli 7 giorni. 

Non osiamo nemmeno fare il calcolo per una terapia di due mesi, come consigliato per la cheratite neurotrofica. 

Il motivo dell'aumento: si tratta senz'altro di un mistero ancor più difficile da chiarire delle cause sconosciute della degenerazione delle cellule ganglionari retiniche. 

Non bastava già che il farmaco in questione non fosse in vendita al pubblico nelle farmacie ordinarie e costasse già 3.507 euro a carico soltanto del paziente. 

A questo, si deve aggiungere un ultimo plateale colpo di scena. Ci siamo informati in una farmacia estera per sapere l'effettiva reperibilità del collirio Oxervate: dopo le dovute informazioni da parte del farmacista, la risposta del fornitore è stata che "non lo fanno più".

E i pazienti affetti da cheratite neurotrofica per i quali non esiste cura? Sembra proprio che possano "attaccarsi al tram". 

In questi anni si è parlato ancora della scoperta di fattori di crescita di origine naturale che potrebbero fermare la degenerazione delle delicate fibre nervose che compongono la retina e che sono all'origine di molte patologie oculari che non lasciano scampo a chi ne è colpito.      

 

 

Fine prima parte. Qui la seconda parte dell'articolo.

 
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