Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

P o e t i c a

P o e s i a - L e t t e r a t u r a - S t o r i a - M u s i c a

 

 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°226 pubblicato il 20 Maggio 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Gondola veneziana.

… la gondola scivolava rapida nel silenzio…

 

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… Seguito SECONDA PARTE

***

Capitolo VI (seguito del post 225)

Ogni volta che Loredana doveva traversare la folla, si sentiva stringere il cuore. La folla era mutata da qualche tempo per lei; aveva compreso ch'ella non era più una signorina come tante altre, e la guardava con sorrisi sguaiati e con occhi insolenti. Gli uomini pensavano che poiché la fanciulla si dava a qualcuno, poteva darsi a tutti; era una femmina da prendere e da trattare senza scrupoli. Questo concetto, che nessuno le aveva spiegato, ma che Loredana aveva sicuramente intuito in coloro ch'ella conosceva e nei molti che non conosceva se non di vista, o non conosceva affatto, le aveva messo in cuore un grande spavento. Anche l'ammirazione onde si sentiva circondata, diversa da quella che si tributava ad altre donne, trovava espressioni petulanti, esclamazioni ciniche ed oltraggiose, che facevano fremere la giovane. Quando lo spettacolo fu finito e Berto le ebbe avvolto intorno il lungo mantello di panno bianco, Loredana disse al suo cavaliere:

- Mi stia vicino, la prego; no, non mi dia braccio; mi stia al fianco.

E uscirono seguiti da Clarice.

Nei corridoi la folla procedeva adagio; l'apparizione di Loredana fu salutata da un mormorio, e qualcuno si destreggiò in modo da farlesi accosto e da squadrarla a un palmo di distanza, perchè s'era detto ch'era dipinta in volto. Un gruppo di nomini che le stava innanzi, s'aperse e le diede passo, per osservarla meglio; alcuni abbozzarono un sorriso, ma vedendo che il Candriani l'accompagnava, ripresero il loro contegno serio.

- Bella, non vi pare? - chiese una voce.

- Carne di lusso, - rispose un altro.

Berto si rivolse prontamente, ma non poté comprendere da chi venisse la frase villana. Tutti guardavano a terra, perchè erano giunti alle scale e studiavano dove mettere il piede. Le scale anche rigurgitavano di gente; si camminava assai lentamente, e Loredana s'irritava in silenzio, parendole di non poter mai uscire da quella stretta, liberarsi da quei contatti. Mentre cominciava a scendere, un'altra voce risuonò:

- È la mantenuta, del conte Vagli.

Loredana a stento riuscì a trattenere un grido; la definizione le aveva traversato il cuore come una pugnalata; cercò Berto con gli occhi, ma questi l'aveva lasciata d'un balzo, era risalito, urtando i più vicini, s'era gettato tra gli uomini di cui aveva notato poco prima il contegno insolente. Essi parvero sorpresi della sua furia ed evitarono di guardarlo, facendogli largo con premura cortese; egli capì che sarebbe stato assurdo accusar l'uno o l'altro alla cieca, e chiedere ragione di parole delle quali nessuno pareva conoscere la provenienza. Tornò indietro, raggiunse Loredana, le offerse il braccio e, attraversato rapidamente l'atrio, la condusse alla gondola. Era una gondola col felze, due gondolieri. La giovane vi entrò, si abbandonò sul cuscino di destra, e non appena si sentì libera e sicura in quella penombra, proruppe a piangere.

Berto che le sedeva a fianco, era desolato; le prese una mano e gliel'accarezzò cautamente.

- È la canaglia, - disse. - È la canaglia anonima, che non sa come sfogare la sua invidia. Non pianga, Loredana.

La signora Teobaldi non aveva parola per l'indignazione che le serrava la strozza; ella faceva grandi gesti, tenendo in mano il fazzoletto e il ventaglio, e alzando ora l'uno, ora l'altro in segno di protesta. Finalmente riuscì a esprimere il suo pensiero:

- Ma il sindaco, - dichiarò, - dovrebbe fare una legge, una severissima legge contro quelli che insultano le donne!

- Che c'entra il sindaco! - esclamò Berto, alzando le spalle.

- Il sindaco dovrebbe cacciare dalla città tutti i mascalzoni! - insistette la signora Teobaldi.

- Così Venezia resterebbe vuota! - disse il Candriani, che in quel momento non aveva voglia di distinguere.

- Povera piccina, povero tesoro bello, non pianga! - riprese Clarice, volgendosi a Loredana, la quale rimaneva nell'ombra, e liberata la mano dalle mani di Berto, andava singhiozzando col fazzoletto sulla bocca.

Fa un triste viaggio fino a casa. La gondola scivolava rapida nel silenzio, che la voce del gondoliere di poppa rompeva di tanto in tanto col grido d'avvertimento; s'udiva il tuffo dei remi e lo sgocciolio dell'acqua.

Nessuno parlava più; il Candriani pensava che non v'era modo di consolare la giovane, perchè sarebbe sfato ridicolo aprire una discussione sulle mantenute e metterle a confronto con lei; bisognava attendere ch'ella stessa, giudicando l'inanità dell'accusa, potesse disprezzarla; ma Berto doveva confessarsi che a tanto dolore non era sola causa l'ingiuria triviale e ch'egli forse, con la sua leggerezza, col suo racconto indiscreto, con le rivelazioni intorno alla Fioresi, aveva fatto il possibile per avvelenare a Loredana quell'ora di svago; e molestato da questo pensiero, si sentiva goffo e nervoso. La Teobaldi andava dicendosi che le cose da qualche tempo si guastavano e che Loredana, la sua Loredana, era troppo spesso malinconica; avrebbe dato il sangue per quel «tesoro di Dio», per renderle il bel sorriso e la pazza allegria dei giorni, pur così vicini e già così lontani, in cui erano andate ad abitare alle Zattere. Bisognava accomodare, bisognava trovar qualche cosa per renderla ancora felice, ma non sapeva che cosa, e si struggeva guardando quell'ombra nell'ombra, udendo quel singhiozzo sommesso; a poco a poco, anch'essa, Clarice, si sentì inumidir gli occhi e lasciò scorrere le lagrime, con un gran desiderio di stringere la fanciulla tra le braccia e di accarezzarne la bella faccia dolorosa.

L'episodio della contessina, le imprudenze del Candriani erano ormai dimenticati dalla giovane; ella si ripeteva mentalmente la parola «mantenuta» fin quasi a smarrirne il significato; non aveva fatto altro dacché era salita in gondola, non ad altro aveva potuto pensare. Comprendeva d'un tratto il perchè dei sorrisi e degli sguardi procaci che la perseguitavano, del mormorio che l'accompagnava se compariva in pubblico: era giudicata, classificata, bollata; non poteva difendersi; non poteva gridar per le vie il suo amore, le sue illusioni, la sua fede; credevano che avesse patteggiato e si fosse venduta; era povera un giorno ed oggi aveva gondola, casa, dama di compagnia, tre persone di servizio, abiti eleganti, denaro, gioielli. Non aveva chiesto nulla, ma non importava; era l'amante d'un signore; carne di lusso, avevano detto, e poi mantenuta; non viveva nel lusso? non s'era accorta del mutamento? a che valevano le scuse?

In verità non s'era accorta di nulla, perchè il suo piacere era tutto nell'amar Filippo e nell'esserne amata, e l'avrebbe amato nel lusso o nella miseria, e agli agi della vita non aveva dato alcun peso. Ma questo non contava per gli altri. Gli altri? Chi erano gli altri? Erano uomini che la volevano e le serbavano rancore perchè non si dava; erano donne che la odiavano pel gusto di odiare, come odiano le donne. Essi avevano ragione perchè le apparenze erano contro di lei; s'era abbandonata totalmente a Filippo, il quale avrebbe potuto metterla su un trono o relegarla in un abbaino, senza ch'ella chiedesse perchè; la presenza di lui era il perchè d'ogni cosa, ed egli faceva ciò che doveva, e ciò ch'egli faceva era ben fatto. Ma a queste dedizioni intere e profonde, nessuno presta credito; e il mondo diceva «carne di lusso», «mantenuta»!

Con gli occhi sbarrati nella penombra, dimentica di quelli che le stavano vicino, la fanciulla si lasciava cullar dalla gondola, rivolgendo questi pensieri in mente, e torturandosi senza posa; allorché la gondola si fermò, ella diede un sobbalzo e s'afferrò al braccio di Berto, come fosse repentinamente caduta da un'altura.

- Siamo a casa? - domandò.

- Siamo a casa, - ripeté Clarice; e col fazzoletto le asciugò gli occhi perchè i servi non vedessero, e poi le diede un bacio sulla fronte. - Tesoro caro!...

Mentre Clarice s'avviava, chinandosi per uscir dal felze, seguita da Loredana e da Berto, sulla fondamenta, risuonò la voce allegra di Filippo.

- A quest'ora? - egli disse ridendo. - Siete state a teatro? E c'è anche Berto? Ma è un complotto, allora, una grossa bricconata!

Loredana uscì in fretta, si fece presso a Filippo, con un movimento rapido e timoroso, quasi cercasse protezione. Era felice di vederlo e di udirne la voce. Ella disse:

- Siamo state al Goldoni, abbiamo trovato il conte, che ci ha ricondotte.

- Potenza dell'amore! - pensò Clarice. - È già consolata! ha la sua voce solita.

Berto si grattò la nuca ricciuta. L'incontro con Filippo imbrogliava le cose: bisognava raccontargli ciò ch'era avvenuto a teatro, o tacere?

- Io non racconto nulla! - egli decise tra di sé . - Ci penseranno le signore se vorranno!

- Sono stato al «Grand Hôtel», - disse Filippo, mentre tutti si fermavano presso la porta di casa. - C'era anche lo zio Roberto... E ti sei divertita, Lori? Che cosa davano al Goldoni?

- Sì, mi sono divertita molto! - esclamò Loredana, presto. - Davano il «Boccaccio».

- Non racconta nulla! - pensò il Candriani. - Le confidenze gliele farà quando saranno a letto...

Egli si scoperse il capo per prendere congedo, ma Filippo lo fermò:

- Non andartene; vieni su. Ti offro una coppa di sciampagna.

- Se paghi da bere... - disse Berto ridendo ed entrando in casa egli pure.

- Sì, pago da bere! - rispose Filippo allegramente. - Dobbiamo bere. Come si dice? nunc est bibendum? Me n'è capitata una graziosissima.

- Ahi! - pensò Berto. - Una graziosissima, anche a lui!

Erano nell'anticamera; senza badare se Berto vedesse o no, senza curarsi di Piero, che stava in un angolo ad aspettare ordini, Loredana si gettò improvvisamente tra le braccia di Filippo e lo baciò sulla bocca.

- Gran Dio, quale passione! - esclamò Filippo stupito. - Scusami, Berto!

Il giovane aveva voltato la faccia contro uno specchio e faceva dei gesti comici, che potevano essere di protesta o d'assoluzione. La signora Clarice diede in una risata. Loredana, sorpresa ella stessa e tornata calma, arrossì fino ai capelli.

 

Capitolo VII

 

Quando furono nel salottino, mentre le signore s'erano ritirate un istante per togliersi i mantelli, Filippo disse a Berto Candriani:

- Mi son giuocato più di due milioni.

Berto fece un balzo sulla poltrona, nella quale aveva preso posto.

- Sei matto! - esclamò. - Da quando in qua ti sei messo a giocare?

- Eh no! - disse Filippo ridendo e accendendo una sigaretta. - Non li ho giocati a macao o a faraone; li ho giocati a parole, con lo zio. Egli mi ha fatto comprendere, anzi mi ha detto chiaro e tondo che se non lascio Loredana e se non sposo Giselda, non vedrò un centesimo del suo patrimonio. Io gli ho risposto che se lo tenga, che faccia della beneficenza, che vada al diavolo. E così, l'affare è liquidato! Che te ne pare? Non è il caso di bere un goccio di sciampagna alla salute dei parenti?

Berto Candriani non rispose subito; pareva guardasse le vecchie stampe lascivette appese alla parete, raffiguranti il bagno di Diana cacciatrice, l'incontro con Atteone, Diana e le Ninfe.

- È un grosso pasticcio, - egli sentenziò infine. - Ma tu credi che le decisioni di tuo zio siano inappellabili?

- Senza dubbio, anche perchè mia madre soffia sul fuoco. Mia madre ha preso partito per la Fioresi, e tu sai quanto sia risoluta e tenace. Se Roberto volesse scendere a più miti consigli, dovrebbe lottare con mia madre, dalla quale gli è venuto certo il suggerimento di queste minacce. E figurati se lo zio vuol perdere tempo e fiato a discutere!..

In quell'istante comparve il domestico, il quale recava lo sciampagna, le coppe, il servizio col tè: dispose tutto sopra un tavolino e si ritirò silenziosamente.

- E vuoi raccontar questo alla signorina? - domandò Berto.

- Non ho ragioni per nasconderlo, - disse Filippo.

Berto gli fe' cenno di tacere: s'udiva nella camera prossima il fruscìo d'una gonna. Egli sussurrò prestamente:

- Non dirle nulla! È troppo agitata stasera.

E si alzò per andare incontro a Loredana, che entrava sorridendo.

- Come siamo eleganti, eh? - disse il Candriani, guardandola così svelta e bianca.

Filippo fissò la giovane e le si avvicinò.

- È strano! - esclamò. - Ora che ti vedo bene, mi sembri molto pallida; si direbbe che tu abbia pianto...

Loredana s'appressò al tavolino e si dispose a preparare il tè, cercando di darsi un contegno e di sfuggire alle indagini di Filippo; ella era inquieta, come se l'amante avesse scoperto qualche grave fallo.

- No, sai? - ella balbettò. - Non ho pianto...

- Che cosa è avvenuto? - domandò Filippo al Candriani. – Perché non volete dirmelo?

Il Candriani era tornato a sedersi, ma presso il tavolino; aveva preso da un canestro alcuni biscotti che andava mangiando con pacata attenzione, e guardava le belle mani della giovane affaccendata intorno alla teiera e al bricco dell'acqua bollente.

- Glielo diciamo? - egli chiese ridendo a Loredana. - Bisogna dirglielo, altrimenti crederà che sono stato io a farla piangere... Ecco, Flopi, ascolta...

Filippo sedette egli pure vicino a Berto, e sedette anche Loredana, dopo avere offerto ai due uomini la tazza di tè.

 

Fine Prima parte Capitolo VII

Buona lettura

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°225 pubblicato il 13 Maggio 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore Luciano Zuccoli.

 

Immagine: Palchetto di teatro…

Descrizione: … nel quale i “nobili” (???) si nutrono di maldicenza!.

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… seguito PARTE SECONDA

***

… seguito Capitolo IV (seguito del post 224)

- Tua madre ha ragione, - dichiarò il conte Roberto, per tornare all'argomento. – Ella vorrebbe che tu sposassi quella piccola Giselda, la Fioresi…

- Ma se non mi piace! - esclamò Filippo.

- Non ti piace, non ti piace!... È impossibile che non ti piaccia; una ragazza come la Fioresi deve piacere a un uomo di buon gusto. Bella, educazione squisita, intelligenza pronta, nome, titolo, patrimonio sicuri, ecco la vera contessa Vagli di domani. Io ne sarei contentissimo, per te e per tua madre... E sai che cosa vuol dire far contento lo zio?

Filippo non rispose; procedeva a capo basso, le mani dietro la schiena, guardando le liste bianche della pietra sul selciato. Era la prima volta che il conte Roberto faceva allusione all'eredità e al denaro, quantunque assai discretamente; Filippo stette silenzioso ad ascoltare.

- Lo zio ha molti quattrini inutili, - seguitava Roberto, in tono fra lo scherzoso e il grave; - molti quattrini inutili, bene impiegati, che danno una rendita larga e certa. E se sarà contento, lascerà tutto a Flopi, a sua moglie, ai piccoli «flopini», e creperà tranquillo, da buon vecchione semplice e onesto. Ma se lo zio non sarà contento, parola d'onore, Flopi rimarrà senza un soldo: zero via zero!...

Filippo alzò il capo: non si aspettava una dichiarazione così esplicita, e se ne sentiva offeso e annoiato. Guardò in faccia Roberto e disse con accento reciso:

- Non ti ho mai chiesto nulla, zio: non ho mai domandato quali fossero le tue intenzioni, e mi dispiace che tu confonda una questione di sentimento con un affare d'eredità. Io devo disingannarti subito: non farò nulla, non farò nulla mai per allungar la mano sul tuo denaro.

- Ma no, - interruppe Roberto stupito. - Che cosa dici? Mi sono espresso male: non ti credo capace d'un calcolo. Volevo dirti che la Fioresi sarebbe una buona moglie per te, e che io vorrei sentirmi tranquillo circa il tuo avvenire...

- Lasciamo, lasciamo, - fece bruscamente Filippo. - Abbiamo già parlato troppo. Oggi è di moda la beneficenza, e tu puoi regalare i tuoi quattrini inutili a qualche istituto umanitario. Ma io mi terrò Loredana.... Anzi, per soprammercato potresti regalare all'istituto anche quella maledetta Fioresi perchè la sposassero a qualcuno, tanto da togliermela di tra i piedi...

Il conte Roberto crollò il capo, disapprovando quel tono impertinente; poi si fece forza, e disse con rammarico: - Non ci comprendiamo.

- Non ci comprendiamo, - ripeté Filippo.

I due uomini tacquero un istante, poi arrivati in fondo alla Piazza, all'angolo della Merceria dell'Orologio, si strinsero la mano e si lasciarono freddamente.

Capitolo V

Berto Candriani, che quella sera medesima si era recato al teatro Goldoni, per veder chi ci fosse e per far qualche visita nei palchi, non appena fu in platea ed ebbe girato intorno lo sguardo, si rallegrò seco stesso della sua buona idea.

- Com'è bella! - egli borbottò, senza badare a quelli che gli stavano addosso e lo urgevano da tutti i lati. In un palchetto di primo ordine aveva subito scorto Loredana, alla quale era di fronte Clarice. Il teatro era stipato; nelle poltrone molte signore; molte dame nei palchi, le quali avevano abiti chiari; in platea non v'era modo di muoversi; nella penombra che avvolgeva il vaso, per dare maggior forza alla luce e ai colori chiassosi del palcoscenico, si vedevano tuttavia parecchi binocoli rivolti al palco di Loredana; uomini e donne la fissavano con curiosità e si scambiavano sottovoce qualche osservazione.

Berto non attese che l'atto finisse; uscì dalla platea, corse per le scale, aperse l'uscio del palco...

- Oh come mi fa piacere! - esclamò Loredana ingenuamente, al veder Berto che inoltrava, col cappello nella sinistra.

- Fa più piacere a me! - egli rispose ridendo e chinandosi a baciar la mano della giovane.

Clarice voleva lasciare il posto a Berto, ma questi la inchiodò con un'occhiata.

- Mi metto qui, - egli disse, - a fianco della signorina; si sta meglio. Non c'è Flopi?

- No, - rispose Loredana. - È al «Grand Hôtel», credo, a fare una visita. Tornerà tardi.

Uno zittio improvviso le troncò la parola in bocca; gli spettatori della platea non volevano essere disturbati, e alcuni guardavano in su con espressione di sdegno. Loredana si mise a ridere sommessamente: poi sommessamente continuò a parlare.

- Ha fatto bene a venire a trovarci, - ella disse. - Se rimane fino alla fine, ci può riaccompagnare a casa: io ho la gondola.

- Ma io rimango fino all'alba! - dichiarò Berto, guardando Loredana.

Essa indossava un abito di panno bianco, con la sottana a pieghe verticali e la camicetta di trine; un gran cappello nero dalle lunghe piume posava sulla testolina, dandole un'espressione graziosamente spavalda. Berto si sforzò a immaginare sotto l'abito il bel corpo nitido e giovanile, il tesoro di voluttà che quella eleganza semplice e degna avvolgeva misteriosamente; e vicino a lei, con la spalla destra che sfiorava la sinistra della ragazza, aspirò il profumo che sorgeva dalla gonna e dal collo.

Forse qualche cosa avvertì Loredana dei pensieri che galoppavano per il cervello del suo visitatore, qualche lampo nello sguardo di lui, l'istinto che parla presto e sicuramente nell'anima della donna; essa non gli volse più gli occhi e si rabbuiò in viso.

- Lei ha un trionfo, questa sera! - mormorò Berto. - Veda quanti binocoli sono diretti qui!

- Non è vero? - disse Clarice. - L' ho osservato io pure; ma la contessa non vuol sentirselo dire.

- Hanno ragione, quegli stupidi, - continuò il giovane. - La signorina è deliziosa; non c'è una, in tutto il teatro, che possa starle a paragone. Flopi è ben fortunato!

Loredana lo guardò duramente.

- Lei è molto strambo, - disse. - Non mi ha mai fatto complimenti di questo genere...

- Ho avuto torto, e riguadagno il tempo perduto, - rispose Berto sorridendo.

- No, la prego: questi discorsi mi affliggono. E voi, Clarice, non dite altre sciocchezze!

La signora Teobaldi dimenò il ventaglio in tutta furia, dolentissima del rimbrotto, che la impacciava davanti al Candriani.

- Io vorrei sapere, - riprese questi, ostinatamente, - perchè l'affligga un'espressione di lode sincera. Io l'ammiro e glielo dico; lei è molto bella, stasera, e glielo dico; lei veste con molta eleganza, e glielo dico...

- Perché ? - interruppe Loredana, che aveva sentito una vampa infiammarle il viso. – Perché tutti me lo dicono, ecco; per le calli, pei negozi, sui vaporetti, dovunque io vada, son le solite frasi: a Venezia, gli uomini non fanno altro, come non avessero mai visto una donna giovane che non sia un mostro. Io credeva che lei non fosse così. E poi, aspetti a dirmi che sono molto bella quando c'è Flopi. Perché non me lo dice quando c'è Flopi?

- Già! - esclamò Berto. - Come se Flopi avesse bisogno di apprenderlo da me! E del resto, se aspetto che ci sia Flopi, devo aspettare un pezzo, perchè mi sembra che Flopi non ci sia mai...

Il giovane s'interruppe e si morse le labbra. Un velo d'angoscia, era calato repentinamente sul viso della ragazza e le aveva dato un'espressione di tanto dolore, che Berto dovette confessarsi d'essere stato villano e maligno.

- Come canta bene quella nanerottola! - disse, accennando del capo alla prima donna, con la speranza di sviare il discorso.

Ma Loredana non rispose. Le parole di Berto l'avevano toccata profondamente: anche gli altri, dunque, notavano che Flopi sembrava trascurarla per vivere la sua maledetta vita mondana? E quelle donne, quegli uomini che glielo toglievano per godere essi la sua compagnia, quanto erano odiosi ed egoisti! Nei palchi tutt'intorno v'erano parecchie di quelle donne con le quali Filippo aveva dimestichezza, e Loredana le avrebbe avvelenate dello sguardo; esse invece la fissavano insolentemente col binocolo, sussurrando poi qualche parola, e insistendo così che si sarebbe detto facessero a bella posta per irritarla.

Da quando Berto Candriani s'era mostrato nel palco, la curiosità era cresciuta; molte signore che conoscevano il Candriani, si ripromettevano d'interrogarlo con affettata indifferenza. Le più sapevano che quella ragazza era l'amante di qualcuno; altre, che avevano un migliore servizio di pettegolezzi, sapevano che era l'amante di Filippo Vagli; e i commenti non erano favorevoli: tutte dicevano che il cappello era troppo grande; e che Loredana aveva soltanto la bellezza dell'asino; la camicetta di trine di Burano era pretenziosa; pareva che scherzasse volentieri, la piccina, con quel maleducato Candriani; se Filippo fosse stato in un cauto, non avrebbe avuto a felicitarsi né dell'amico, né dell'amica! Nell'intermezzo, Berto si studiò di riparare alla sua sventataggine.

- Povero Flopi, - disse, - io credo che sia sullo spine, a quest'ora. Egli è costretto a una vita d'apparenza; ci siamo costretti tutti, e tutti ci annoiamo; nessuno ha il coraggio di vivere per conto proprio, liberamente. Il mondo non l'abbiamo creato noi!

- Conte, non faccia, complimenti, - disse Loredana. - Lei vorrà render visita a qualche signora: può tornare a prenderci più tardi. Io mi trattengo fino alla fine, perchè Flopi rientrerà a notte.

- Lei vuol mandarmi via? - chiese Berto con simulata umiltà.

- No, no, rimanga, se non si annoia! - disse Loredana sorridendo.

- Rimango, sa? - dichiarò il giovane. - Prima di tutto, perchè non saprei allontanarmi...

- La prego! - -interruppe Loredana.

- Ho già finito!... E poi perchè è bene si sappia da quelle signore che io ho buon gusto; a furia di far loro la corte, mi son rovinato la reputazione. Lei le conosce?

- Non tutte.

- Ma esse conoscono lei, lo giuro, - dichiarò Berto. - Non è la prima volta che si parla di lei in società.

- Lo credo bene, - esclamò Clarice. - La contessa non può passare inosservata!

- Una volta ho parlato io a lungo di lei e di Flopi con una signorina. La contessina... Aspetti; non c'è; credevo fosse giù a «pepiano».... Vede quella rossa laggiù, di fronte alla signora dai capelli tutti bianchi? Non è lei, ma le somiglia.

- Una signorina? – ripeté Loredana. - Che cosa poteva importarle di me?

- Oh molto! - esclamò Berto. - Credo sia innamorata di Flopi...

- Ah! - disse Loredana con voce spenta. - Egli non me ne ha mai parlato!

- Benone! - pensò Berto. - Ecco un'altra «brioche». Questa sera sono fertile!

E ad alta voce soggiunse:

- È naturale ch'egli non gliene abbia mai parlato: credo non si sia mai accorto che la ragazza sospira per lui. Me ne sono accorto io, perchè io mi accorgo di tutto, e perchè la contessina m'interroga sempre intorno a Flopi. Del resto, sono sciocchezze, le solite scalmane delle fanciulle, che oggi hanno una simpatia per l'uno, domani per l'altro; niente di serio, effetto dell'ozio, nulla più...

Ma, quantunque seguitasse ancora su quel tono, Berto s'avvide che Loredana soffriva orribilmente; era diventata pallida e le sue mani s'erano chiuse per lo spasimo. Anche sul volto di Clarice, Berto ravvisò un'espressione di corruccio, che gli fece comprendere la gravità della sua indiscrezione.

- Non cerchi d'ingannarmi, conte, - disse Loredana con voce grave. - Mi dica tutto, con lealtà; ormai il peggio lo so, e le parole non servono.

- Sono una bestia! - dichiarò il giovane. - Lei deve credere a chi sa quali misteri, mentre tutto si riduce a quanto le ho già detto: una fanciulla ha qualche simpatia per Filippo...

- Come si chiama? - interrogò risolutamente Loredana.

- È la contessina Fioresi, Giselda Fioresi: magra, snella, coi capelli rossi...

- È da molta tempo innamorata di Flopi?

- Dio sa! Chi può dirlo? Ma non è innamorata: vorrebbe sposarsi, forse, come tutte le ragazze di questo mondo.

- Ora capisco, - dichiarò Loredana sottovoce, quasi parlando da sola. - I parenti di Flopi devono saperne qualche cosa, e vedrebbero volentieri questo matrimonio. Mi dica tutto, conte; non abbia paura.

- Ma io non ho altro da dirle, cara amica! - esclamò il giovane.

- Non vorrà darmi a credere che Filippo ignori ogni cosa. La Fioresi si sarà fatta comprendere, magari involontariamente! E che cosa vuole da me? Io non sapeva che lei amava Flopi, io credeva di potergli appartenere senza far male ad alcuno...

- E infatti, - disse il Candriani, - la Fioresi mi ha chiesto di lei per semplice curiosità, ma si è guardata dall'esprimere un giudizio.

- Lo spero: non ha diritto a giudicarmi, perchè il mio amore è diverso dal suo, e la contessina non potrà mai capire questo, - enunziò bruscamente Loredana.

In quel punto l'orchestra attaccò il secondo atto; la luce in teatro fu abbassata, e Berto respirò meglio, perchè la conversazione cessava.

- A che pensa? - domandò Loredana.

- Questa volta non glielo dico! - esclamò Berto.

La fanciulla scosse il capo, infastidita.

Fine V Capitolo.

Buona lettura

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°224 pubblicato il 06 Maggio 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Venezia.

Descrizione dell’immagine: Procuratie Piazza San Marco.

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… seguito II PARTE

***

Capitolo IV

Quando, la sera stessa, Loredana gli domandò qualche notizia di quella festa, Filippo fu insolitamente loquace.

Il salottino nel quale si trovavano era per tutta la parte superiore immerso nell'oscurità; dalla tavola di mezzo la lampada, coperta con un paralume rosso, proiettava la luce sul capo di Loredana, che stava un po' curva a ricamare; e Filippo, sdraiato in una poltrona nell'angolo, s'intravedeva appena. Egli era ancor tutto vibrante per le impressioni della giornata, e fu felice di parlarne; disse a Loredana di quella cerimonia straordinaria e si fece a descrivere i particolari che meglio avevano attratto il suo sguardo.

- Ah quei teschi, quei teschi! - esclamò. - Che eloquenza viene dalle cose! Io, vedi, non avevo mai capito, anzi dirò che non avevo mai apprezzato lo zio; ci voleva San Martino, ci voleva l'Ossario perchè comprendessi finalmente Roberto e imparassi ad amarlo. È un uomo semplice e buono, ed è un valoroso. Prima m'infischiavo di lui: oggi in verità, non vorrei dispiacergli per nulla al mondo.

Loredana tacque: il fervore inusato dell'uomo le giungeva nuovissimo, e non sapeva come spiegarne la causa.

- Ho sentito, - continuò Filippo, - quanto io sono miserabile al confronto di quei vecchi.

C'era il generale Cucchiari, te l' ho detto? Guardandolo, ho pensato ch'egli ha visto cose e provato emozioni che io non potrò mai nemmeno sognare. Io sono un piccolo uomo impegolato in una piccola guerra di pettegolezzi; e tra me e quei vecchi c'è la stessa differenza che tra il pettegolezzo e un colpo di cannone.

- Quale piccola guerra di pettegolezzi? - domandò Loredana, senza alzare il capo dal suo lavoro.

- Ma sì, la solita musica! - disse Filippo. - Voglio dire, tutte le chiacchiere che si fanno intorno a me, e intorno a te, e le ire dei parenti, di mia madre, di mia sorella, di mio cognato e anche dello zio.

- Ma allo zio non vorresti spiacere! - osservò Loredana. - E se ti pregasse di lasciarmi, allora mi lasceresti subito?

Le parole furono dette con accento così teneramente dubbioso, che Filippo balzò in piedi ridendo, e corse a baciar la testa curva, dell'amante.

- Sono uno sciocco! - esclamò. - Anche tu sei una sciocca, a farmi queste domande. Su, alzati, su, viperetta!

Loredana si alzò lentamente, e senza comprendere depose il ricamo sulla tavola; ma Filippo l'afferrò pel busto e la trascinò ballando.

- Su, su! - diceva. - Dobbiamo ballare; non essere triste per queste sciocchezze...

La giovane, abbandonata fra le braccia del suo Flopi, cominciò a ridere, lasciandosi trasportare; ma a poco a poco, perchè egli insisteva, si mosse con giusto ritmo; e la signora Teobaldi, che entrava in quel punto con un mazzo di carte per il suo abituale solitario, restò a bocca aperta, vedendo i due amanti che ballavano un valzer in silenzio nella camera penombrosa.

- Quale spettacolo! - disse ammirata, disegnando nell'aria un gesto solenne. – Quale spettacolo d'amore perfetto!

Loredana diede in una risata; ma il cuore le martellava dalla gioia; una fanciullaggine di Filippo, un suo atto gentile, un pensiero di sollecitudine le snebbiavano dall'anima quelle ore di trepidanza che la vita mondana di lui le cagionava.

Non era più la vita dei salotti; l'autunno aveva ormai circoscritto i convegni, e la società elegante si ritrovava nelle sale dei grandi alberghi sulla Riva degli Schiavoni o lungo il Canalazzo.

Ivi i ricchi stranieri che avevano amicizia con l'aristocrazia veneziana, davano pranzi e feste: e le riunioni erano tanto curiose e vivaci, quanto e meglio che quelle della società consueta. Gli stranieri si dilettavano di recarsi dopo pranzo in gondola alle serenate, per udir le canzoni e per vedere i palloncini che si riflettevano dalle barche dei cantanti nell'acqua scura.

Filippo, che a quei pranzi doveva spesso partecipare, si destreggiava sempre in maniera da evitare il supplizio delle canzoni, e tornava presto a Loredana per uscir con lei in gondola, lontano, nell'ombra del Canal della Giudecca, dove il silenzio era stupendo. A una di quelle feste date da stranieri in un grande albergo, Filippo non fu poco sorpreso di trovare lo zio Roberto.

- Tu qui? - gli disse Filippo, con espressione di piacere.

- Ti dirò poi; usciremo insieme, - rispose il vecchio.

Alla festa erano intervenuti madame Lodge, una parigina bionda (bionda o tinta?) e una mistress Stewart col marito, il signor Stewart, il quale era un grande cacciatore di galli di

montagna. V'era la principessa Stephen, una viennese di trent'anni, che girava il mondo; suo marito girava il mondo dall'altra parte e non s'incontravano mai. La principessa parlava costantemente dell'anima e si faceva corteggiare di preferenza dagli ufficiali. Ella era tutta vestita di bianco, tre giri di grosse perle al collo, merletti bianchi sullo strascico; ma aveva le scarpette d'oro come mademoiselle de Toulouse.

Mademoiselle Lucienne de Toulouse, di passaggio a Venezia con la madre, abitava a Singapore, aveva diciotto anni, sapeva quattro lingue ed era molto insolente; non la si vedeva mai senza il portasigarette d'argento stellato di turchesi e una piccola borsa a maglie d'oro. Parlava di tutto, a grande velocità. Il conte Roberto stava ad udirla con una maraviglia così schietta, che Filippo scorgendolo non poté trattenersi dal ridere. Egli conosceva bene quei convegni di gente venuta da tutte le parti del globo, non legata che da vincoli di cortesia, pronta a ripartire domani per il Polo Nord o per l'Africa o per qualunque paese dove la noia fosse minore e la moda imperasse; di volta in volta ricomparivano vecchie conoscenze e si ingrossava la schiera delle nuove.

Il signor Stewart, ad esempio, passava a Venezia quindici giorni ogni anno, da trent'anni; e Filippo l'aveva sempre udito parlar della caccia al gallo di montagna; sopra gli altri argomenti il signor Stewart non nutriva alcuna opinione; onde Filippo aveva preso tanto in uggia il gallo di montagna, che avrebbe dato la caccia al cacciatore.

Ma in quelle riunioni di stranieri infierivano l'amoretto, il piccolo intrigo, ciò che le persone bennate chiamano flirt, e mademoiselle de Toulouse e la principessa Stephen avevano un flirt a ogni angolo della sala; e abitualmente a Vienna, a Biarritz, a Zermatt, al Cairo, ad Aix-les-Bains, ovunque le signore si recassero, il flirt si ripeteva con altri personaggi e con lo stesso effetto; Filippo, sapendo il giuoco, vi si prestava per cortesia, senza mettervi alcun impegno, come chi arrischia una partita per ingannare il tempo.

Egli fu molto gentile con la principessa Stephen, la quale desiderava, civettando con Filippo, d'indispettire il capitano Ketwort, che nel flirt non era sufficientemente destro e si appassionava in modo pericoloso; ma quando Filippo s'accorse che negli occhi del giovane capitano balenavano lampi d'odio, smise subito, fece un lieve cenno al conte Roberto e insieme con lui si congedò.

Era ormai la mezzanotte; i due uomini percorsero in silenzio la riva degli Schiavoni battuta dalla luna; l'isola di San Giorgio era così bianca sotto il raggio, che la chiesa e il campanile parevano di gesso. Dietro l'isola si effondevano densi cirri color d'argento. Roberto si fermò d'un tratto e disse:

- Volevo chiederti una spiegazione.

Dal tono, Filippo sentì che si trattava d'un argomento inusitato, e aspettò.

- Volevo chiederti quante sono a Venezia le contesse Vagli.

- Non capisco, - disse Filippo, guardando stupito lo zio.

- Ecco; oggi ero in un negozio a comprarmi qualche cianfrusaglia, quando è entrata una ragazza, un cosino, un diavolino alto quattro spanne, che rivolgendosi al commesso ha detto:

«Quella roba per la contessa Vagli non è ancor pronta?» Io ho guardato la ragazza, ma non la conoscevo. Il commesso ha risposto: «Sì, è pronta!» E volgendosi al facchino, e consegnandogli un involto, ha soggiunto: «Porta subito alla contessa Vagli, sulle Zattere!» Ora io ti domando di nuovo: quante sono a Venezia le contesse Vagli?...

Filippo non rispose: era annichilito. La descrizione del cosino, del diavolino alto quattro spanne, gli aveva fatto subito comprendere che si trattava della cameriera di Loredana, e le osservazioni di Roberto lo avevano colpito in pieno petto.

- Di contesse Vagli, io non ne conosco che una! - seguitò lo zio: - tua madre, mia cognata. Se ve n'è un'altra sulle Zattere, ti prego di presentarmi, perchè avrò piacere di vederla in faccia.

Filippo continuò a tacere; e come se il silenzio di lui lo inacerbisse, il conte Roberto riprese alzando la voce:

- Si tratta di quella solita birichina che ho visto a Sirmione. Io non ne ho più parlato perché non volevo annoiare me e te. Ma ormai le cose prendono proporzioni fantastiche: non posso permettere, nessuno può permettere che usurpi un nome e un titolo, i quali non solo non le appartengono...

Filippo diede rapidamente un'occhiata intorno: sulla Riva i passanti erano radi e non parevano badare ai due uomini, che si fermavano di tratto in tratto.

- ....ma appartengono a tua madre, la quale è una dama, una vera dama, esempio d'ogni virtù! Che cosa sarebbe avvenuto se quel diavolino di quattro spanne si fosse trovato nel negozio con tua madre? Che cosa avrebbe pensato di te quella povera donna?

- Permettimi! - interruppe Filippo, tanto per interrompere. - Tu ti arrabbi troppo per la storditaggine d'una cameriera...

- Ah no, poi! - esclamò il conte Roberto, fermandosi. - Non verrai a dirmi che è un capriccio della cameriera: la cameriera non può inventarsi un titolo; se lo inventa, la si redarguisce; ma essa ne usa, invece, e ne abusa, perchè sa che quest'abitudine riesce gradita alla tua monella e fors'anco a te...

- Io? - disse Filippo, mentendo come un ragazzo. - Io non ne sapeva niente.

- Tu non ne sapevi niente, è inteso! – ripeté il conte Roberto con sarcasmo. - In casa, pei negozi, tra pettegole, per le vie, tutti la chiamano contessa Vagli, e tu non ne sai niente, tu vivi nelle nuvole, tu non hai orecchie per udire... Questo è deplorevole, Flopi; bisogna saper udire e vedere, specialmente quando si ha a fare con donne, le quali, da ciò che ho appreso, non hanno scrupoli.... Qui si tratta d'una vera e propria usurpazione di titoli, non solo, ma anche di nomi. Certo, quella ragazza non è di nostra famiglia; certo, non è contessa... Questa commedia, insomma, deve finire...

- Finirà, - disse Filippo seccamente, sperando che lo zio si arrendesse.

Ma Roberto, forse animato dalla brezza che soffiava piacevolmente e dall'ora calma che incitava a lunghi discorsi, volle continuare:

- Tutto potevo aspettarmi da te, all'infuori di questa mancanza che è quasi una mancanza contro l'onore....

- Zio, non dire spropositi! - rimbeccò Filippo.

- Dico quasi: quasi una mancanza contro l'onore, - insistette il conte Roberto. - Hai dato in balia d'una ragazza un nome e un titolo illustri, che a noi devono essere sacri; hai permesso che i servi e le serve se ne gonfino la bocca e forse ridano alle vostre spalle, sapendo magnificamente che nome e titolo sono falsi, messi insieme per divertire la tua mantenuta...

- Ma che mantenuta! - esclamò Filippo, irritato. - È la mia amante!

- Amante e mantenuta sono sinonimi in certi casi, - dichiarò inappellabilmente Roberto. – La birichina non ha una posizione sociale che le permetta di vivere senza il tuo aiuto; e dunque tu la mantieni, e dunque è la tua mantenuta...

- La mantenuta è un altro tipo di donna, - osservò Filippo. - Fa dell'amore un reddito e un mestiere, allogandosi presso l'uno o presso l'altro; è un oggetto di piacere che si noleggia per un dato tempo. Il caso di Loredana è ben diverso...

- Loredana! – ripeté il conte Roberto. - Si chiama anche Loredana, nome patrizio e storico...

- Non pretenderai mica di toglierle il nome di battesimo? - osservò Filippo ironicamente.

- Ma è suo? È veramente suo? Non sarà posticcio come il titolo di contessa? – domandò Roberto con inquietudine.

Per tutta risposta, Filippo alzò le spalle.

- E si deve chiamar Loredana! - seguitò Roberto, quasi parlando tra di sé . - Una volta si era più guardinghi nella scelta dei nomi, e si rispettavano quelli che il patriziato rendeva famosi...

- Oggi non si rispetta più nulla, - osservò Filippo con lieve canzonatura.

- Tu giudichi queste cose con troppa leggerezza, - disse il conte Roberto. - Sei molto cambiato da qualche tempo, e non hai più le nostre idee...

- Quali idee?

- Le idee della nostra classe. Ogni classe sociale deve avere le sue idee e difenderle, - sentenziò il vecchio. - Ne ha il popolo, ne ha la borghesia, ne ha l'aristocrazia, e dal conflitto nasce la vita, sorge il progresso. Quando una classe rinunzia alle sue idee e non le difende o comincia a dubitarne, è perduta. Mi dispiace sempre vedere che i giovani moderni ridono d'ogni cosa; noi eravamo assurdi, forse, eravamo troppo rigidi, ma abbiamo difeso il tesoro d'idee lasciatoci dai vecchi, e abbiamo ritardato il trionfo dell'anarchia.

- Che c'entra tutto questo con Loredana? - chiese Filippo.

I due uomini passeggiavano in lungo e in largo per la Piazza deserta a quell'ora; la Basilica aveva alla sommità, tra gli archi, le cupole, le croci bizantine, ancora qualche pallido sprazzo d'oro; e dalle Procuratie prorompeva qua e là, in diversi toni di giallo sul grigio, la luce dei caffè aperti. Così spopolata, con le infinite finestre delle Procuratie, tutte chiuse, la Piazza sembrava immensa.

Fine prima parte Capitolo IV

BUOBA LETTURA!


 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°223 pubblicato il 29 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Immagine: San Martino

Battaglia di San Martino e Solferino.

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… seguito PARTE SECONDA

***

… seguito Capitolo III

Fu il conte Vagli di poi alla battaglia di San Martino con quegli squadroni d'Aosta, di Saluzzo e d'Alessandria, che sciabolando ripetutamente il nemico, l'obbligarono a ripiegare verso Pozzolengo. Bella battaglia, ideata e svoltasi alla vecchia, con accanitaggine testarda, con episodi di rabbia incredibile; e l'eco ne giunse tosto a Venezia, dove nessuno osò per quella vampa di gloria e d'entusiasmo inanimire il popolo e dare al vento il vessillo italiano.

Il conte Roberto Vagli si sentiva certo meglio di suo nipote Flopi, gettando uno sguardo al passato, benché la famiglia fosse stata sempre più incline a censurare le mende dei numerosi scapestrati onde s'ornava l'albero genealogico, che non a compensar le gesta dei pochi valorosi i quali avevano compiuto il loro obbligo. Si sentiva certo meglio, il conte Roberto, dei suoi coetanei, ch'egli non aveva incontrato né tra i lancieri d'Aosta, né tra gli ussari austriaci, né tra nemici, né tra commilitoni.

Egli fu candidamente felice di poter far parte di quel Comitato che nell'anno 1893, sotto la presidenza del cavalier Breda, aveva preparato l'inaugurazione della Torre di San Martino della Battaglia; e mentre la cognata andava snocciolandogli la litania dei vizi e degli stravizi di Flopi, e degli amori con la sbarazzina e della necessità di qualche grave minaccia, il conte Roberto, fattole comprendere d'averne abbastanza, riviveva le belle memorie, tutto chiuso in pensieri più alti e più gravi che non fosse l'avvenire del nipote.

Frugava tra carte vecchie, contemplava i vecchi ritratti degli ufficiali di cavalleria e di quelli dei bersaglieri, che avevano caninamente disputato il terreno agli austriaci, battendoli passo per passo, da una casupola a un cimitero, da un albero all'altro; e sentiva quasi sul volto un alito fresco, certamente nelle vene un sangue gagliardo scorrere, e voleva ridere di piacere per i giorni gloriosi, che nessuno poteva cancellare più.

Quel 15 ottobre 1893, in cui la Torre venne finalmente inaugurata alla presenza d'Umberto e di Margherita, tra una folla di settantamila persone onde furono allagati i bei viali di cipressi e la pianura, sotto un mirifico sole, il conte Roberto fu tutto preso da una tenera gioia e da un'ombra di malinconia, rivedendo parecchi dei vecchi combattenti e rammentando i molti scomparsi.

Filippo gli era al fianco; a lui quel tuffo in un'epoca vicina e pur così diversa da quella in cui viveva, diede subito una specie di sbalordimento. Lo stesso zio Roberto ch'egli si dipingeva, sempre al pensiero come un brav'uomo bizzarro, gli apparve fermo, giovane, sereno. Ne aveva un poco riso la sera prima, senza malizia, con Loredana la viperetta; e il mattino, innanzi alla torre storica, vedendolo tutto lieto, il petto fregiato di belle medaglie conquistate tra lo sciabolare dei nemici furiosi e vinti, Filippo ebbe quasi un fremito d'invidia e di rispetto.

Quando il cavalier Breda lo chiamò e lo presentò al Re dall'occhio fulmineo, dicendo a Sua Maestà nel placido dialetto, a cui il commendatore non aveva voluto rinunziare neppure in quell'ora solenne:

- «La permeta che ghe fazza conossar sto bravo giovine....»

Filippo, inchinandosi profondamente, si chiese perchè lo presentassero al Re e perchè egli fosse un bravo giovane; forse non per altro, se non perchè nipote del conte Roberto.

La folla bisbigliava facendo ala ai Sovrani per vedere la Regina, augusta bellezza nell'abito violetto, col cappello nero piumato sulla massa della chioma d'oro; e Filippo, rimasto a pochi passi dal Re, sentiva gli sguardi avidi fissare il gruppo dei generali, cercar fra questi il vecchio Cucchiari, e diffondersi il sussurro, diventar grido e tumulto, perdersi lontano dove ondeggiava un mare di teste.

Più tardi, durante la visita all'Ossario, Filippo guardò i teschi degli ufficiali italiani e austriaci, raccolti e disposti nella scansia circolare. Pel vialetto di cipressi che adduceva a quel funereo reliquario, la battaglia era stata atroce; i colpi di fucile avevano sloggiato i nemici a uno a uno, quasi in un duello di soldati contro soldati; qua e là l'iscrizione breve d'una pietra rozza fitta in terra indicava la zolla su cui un ufficiale italiano era caduto durante la rapida caccia; e la terra pareva diversa da quella di tutti gli altri campi, quasi il sangue onde s'era abbeverata l'avesse fatta più grigia e più triste.

Ma Filippo osservò attentamente i teschi raccolti nell'Ossario. Il conte Roberto, senza parlare, gliene segnò alcuni col dito, gl'indicò il cartellino col nome; dalle occhiaie e dalle suture sconnesse di alcuni pendeva per una cordicella il pezzo di piombo che aveva traversato il cranio o spaccato il cuore; e toccando quei frantumi di proiettili e di mitraglia, Filippo vide fuggire lungo i palchetti della scansia qualche scolopendra che aveva preso albergo nei teschi dei valorosi.

Egli guardò Roberto, che sorrise tranquillo.

- È un altr'uomo! - pensò Filippo. - La morte non gli desta alcun orrore; egli vede i teschi dei commilitoni come fossero ancora animati, e avessero occhi e carni. Poteva essere lui nell'Ossario; io non l'avrei conosciuto e non avrei compreso il suo sacrificio.

Roberto lo toccò nel gomito. I due Sovrani uscivano scambiando qualche parola con gli ufficiali ch'erano intorno; tutto il sèguito si muoveva. Roberto disse:

- Ebbene, che pensi? Ti piace?

Filippo non poté trattenersi dal ridere sommessamente.

- Che verbo strano tu hai scelto! - egli rispose. - Se mi piace! Come fossimo a un ballo!

- A me piace molto, - disse lo zio con semplicità. - Ogni passo su questo terreno mi fa rivivere. Non è stata una grande battaglia, sai? E si sono commessi spropositi da cavallo; tuttavia è andata bene. A Montebello ci eravamo divertiti meglio; gli Ussari erano magnifici; bei soldati gli Ussari; ma qui abbiamo picchiato più forte, più deciso. Tu avessi visto il cimitero! Un carnaio; si dovette conquistarlo a mitraglia e a fucilate come una fortezza. E la villa Tracagne, presa e ripresa sei volte? Ha nella fronte ancora diciotto palle da cannone...

Tacque un istante, gli occhi nel vuoto, sopra le teste della folla che egli non guardava e che guardava lui. Aggiunse, col sorriso pacifico:

- Ci siamo divertiti! Bah! Non potere tornar daccapo!...

Filippo voleva dire qualche cosa; voleva dirgli che lo amava assai in quel momento, che gli pareva nobile ed alto; ma si rattenne non trovando la parola discreta, e sorrise egli pure. Il resto della cerimonia, la messa, il banchetto nel padiglione reale, non ebbero per Filippo alcun significato; la festa si vestiva ormai della sua veste ufficiale.

Davanti alla Torre, i due cannoni che la presidiavano con le bocche rivolte al viale, attrassero l'occhio di Filippo, che pensò i due vecchi arnesi della guerra già antica serrassero qualche cosa in sé dell'anima di Roberto; egli era della stessa tempra ingenua e salda. Ma l'immagine che rimase nitidissima fra tutte nella mente di Filippo fu quella dei teschi, dei frantumi di mitraglia, delle scolopendre che correvano smarrite.

Rivide il vialetto dei cipressi già imbevuto di sangue, e si provò a sognar quell'episodio di furore, la corsa, il crepitio delle fucilate; udì quasi l'ansimar dei soldati sotto la tempesta di ferro, e questo e quello vide cadere, squarciato il viso, rotto il fianco. Il conte Roberto eccolo alla testa d'un plotone di lancieri sbucare di repente tra quell'inferno, urlando e sciabolando coi suoi cavalieri indemoniati; e il sibilo della mitraglia raddoppiare: cavalli impennati, uomini precipitati di sella; e dietro, altri plotoni e altri, e lampeggiar di lame e di lance: cavalleggeri Saluzzo, lancieri Aosta, cavalleggeri Monferrato, tutti addosso al nemico che balena. Poi, d'un tratto l'uragano scoppia; la furia del cielo si mesce alla furia degli uomini, violentissima, e al fragore delle armi si unisce il guizzo dei fulmini e lo scroscio della bufera.

- Torni a Venezia? - domandò il conte Roberto.

Filippo sussultò in modo, che il vecchio si mise a ridere.

- A che pensavi? - disse.

L'altro si passò una mano sul viso come trasognato. Erano tutti in piedi, al finir del banchetto. Si fece un gran silenzio: i Sovrani si congedavano; e a Umberto piacque salutare affettuosamente il conte Roberto Vagli.

- Arrivederci, - gli disse, stringendogli la mano e fissandolo con gli occhi acuti. – Sono contento d'aver conosciuto ancora un valoroso...

Strinse la mano pure a Filippo, con un breve sorriso.

Sul volto di Roberto s'era diffusa una espressione di compiacimento quasi fanciullesco, alle parole di Umberto; e il vecchio restò a guardare il Re che s'allontanava con Margherita, stretti intorno dagli alti funzionari Filippo gli domandò:

- Sei soddisfatto? Umberto è stato molto gentile con te.

- Molto, molto! - esclamò il vecchio con gioia. - Non potevo desiderare di più. È stato troppo buono, e mi ha confuso. Per quattro sciabolate!... In verità mi rammarico del poco che ho potuto fare!... Quattro sciabolate! Ma se torno daccapo...

S'interruppe e si mise a ridere.

- Oggi mi son fitto in testa di far la guerra, * - disse poi. - Si vede che ho la febbre. Ma ti assicuro che farei meglio, farei pazzie!..

Drizzò la bella persona, quasi immaginando di rotear la sciabola contro un nemico invisibile; ed era in quella sua fantasia così fiero e deciso, che Filippo lo guardò ammirato. Risuonava il terreno per un galoppo sordo e continuo; la folla sterminata correva a veder la partenza dei Sovrani, a prender d'assalto i treni; e spinta innanzi dalla curiosità e dalla fretta, innalzava un convocìo incessante che a poco a poco diventava un urlo rauco, quasi il soffio di una procella vicina.

Più volte Roberto e Filippo vennero urtati; ma essi procedevano adagio e in silenzio, ciascuno abbandonato all'onda dei propri pensieri, i quali erano tanto dissimili chi si sarebbe detto i due uomini appartenessero a due mondi piuttosto che a due epoche diverse.

Roberto ebbe ancora qualche esclamazione:

- Buon Re! - disse, quasi parlando da solo. - Egli ha conosciuto la guerra e la battaglia; le sue parole mi son più care.

Rintronava il galoppo; passavano intere famiglie, seguite dalla domestica che recava sulle braccia i canestri vuoti della colazione, e tutti della famigliuola correvano, chiamandosi e incitandosi ad alta voce; qualche volta, rapido al par del fulmine, appariva e spariva un cane, abbaiando per cercare il padrone; di quando in quando passava una carrozzella, zeppa di gente così da far pensare che la molle stessero per cedere e il cavallo per rimanere stecchito; e di nuovo la folla sparsa, una tempesta di ombrellini aperti con colori strani, con le forme più varie, dal minuscolo all'enorme; e gruppi che procedevano lenti, a squadre, alternando l'inno di Garibaldi con l'inno di Mameli. I due uomini seguitavano a camminare adagio, in silenzio, urtati e stretti, col pensiero lontano.

Fine del III Capitolo

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°222 pubblicato il 21 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore Luciano Zuccoli

 

 

Immagine:

Uno dei laghi lombardi: il “Lario” Bellagio – (Centro lago)

 

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… seguito SECONDA PARTE

 

***

 

…Seguito capitolo II

 

Al ritorno dall'escursione dai laghi lombardi, Filippo chiamava Loredana «la viperetta» ed ella sorrideva misteriosamente. Quel che di più gaio, di più sano e di più forte era nella sua anima veneziana, sfolgorava nella passione libera, così che nessun dono era per la giovane premio più ambito che un'ora di baci e di carezze.

Baci e carezze di Filippo; mai non aveva pensato potessero essere d'altri; mai non aveva guardato i facili ammiratori che, protetti dall'angustia e dalla cattiva luce delle calli, la seguivano, fosse sola per correre dalla mamma, o fosse accompagnata da Clarice, e le sussurravano, passando, brevi frasi, e osavano qualche sorriso e le ronzavano intorno.

Ella aveva per Filippo una gratitudine cieca, una specie di religione; ma lungi dall'essere timorosa, era lieta ed uguale; risuonava il suo canto la mattina, nel torrente di luce che invadeva le camere; e tutto il giorno Loredana viveva con piacere, occupandosi con Clarice delle compere, dando ordini alla cuoca ed alla cameriera, riempiendo la casa delle sue corse, delle sue risatine, facendo ammattire la povera dama di compagnia, della quale imitava i gesti al piano e le stonature e il modo di camminare e il dialetto veronese, con tanto impeto, che Clarice finiva per riderne.

Filippo si recava tutti i giorni dall'amante, vi si tratteneva a colazione spesso, a pranzo quasi sempre, e per lunghe ore nella serata. Ancora non s'era fatto veder per la strada con la ragazza; gli spiaceva l'ostentazione dei suoi amori, quantunque nessuno potesse ormai ignorarli. Egli aveva pensato di vivere con Loredana lungi da Venezia, in qualche città dove, per esser la vita larga e rapida, la curiosità è meno molesta. Ma in quei giorni appunto le diatribe coi parenti s'erano fatte acute.

La contessa Bianca aveva minacciato Filippo di farlo diseredare dallo zio Roberto; occorreva una punizione materiale, poiché i concetti d'onesto vivere e il senso del decoro non avevano presa su di lui; e in verità la perdita d'un patrimonio che, come quello dello zio Roberto, si aggirava intorno ai due milioni, non poteva non impensierire Filippo, il quale non possedeva nemmeno un terzo di quella ricchezza. Allontanarsi decisamente da Venezia e con Loredana in un frangente simile, sarebbe stata imprudenza grave, anche perché la minaccia non era venuta sino allora che dalla contessa Bianca e nulla diceva nel contegno dello zio Roberto ch'egli pensasse a tanto estremo. Anzi, di Loredana non aveva più parlato.

La contessa Bianca, infatti, s'era avveduta presto che di Flopi, dello scandalo, della «monella», dei soliti discorsi, il cognato era arcistufo; poteva egli bensì dare un consiglio, ma considerava i consigli a guisa dei denari, dei quali se si regalano o se si prestano, non è lecito al donatore invigilare l'uso e rinfacciar la prestanza.

Prudentemente, la contessa Bianca smise d'intrattenere il cognato sulle follie di Filippo, ripromettendosi di tornar daccapo ad occasione propizia; e dopo un ultimo colloquio breve, secco, perentorio, col figlio che si mostrò rispettoso e cocciuto, ella si ridusse nella sua campagna di San Donà.

Ciò che la contessa aveva previsto, si avverava fatalmente: il vincolo tra Flopi e Lori si era fatto via via più saldo; non era Loredana l'amante, né la mantenuta, ma qualche cosa tra la moglie e l'amica, qualche cosa che non si vende e non si compera, che si può abbandonare ma che non si dimentica più, che con rapidità propaga il suo dominio dai sensi al cervello e dal cervello al cuore. Si trattava d'un caso d'amor libero, che talune condizioni potevano spezzar da un giorno all'altro, e che talune, più probabili, potevano un giorno trasformare in un matrimonio.

Filippo, tutto preso dalla «viperetta», dimenticò finalmente la prudenza e andrò a vivere egli pure nell'appartamento sulle Zattere, che per Loredana era troppo grande; la camera attigua a quella in cui dormiva la giovane fu ridotta, da salottino, in camera da letto per Filippo; e tra l'una e l'altra si aprì una porta di comunicazione. Il conte fece trasportar mobili, libri, oggetti suoi nella nuova dimora; vi condusse anche Piero, il domestico silenzioso, e si ripromise di vivere da quel giorno, ora in casa di Loredana, ora nel suo palazzo, secondo che le convenienze e gli obblighi sociali avrebbero permesso.

Loredana non aveva chiesto mai nulla, e tutto le veniva profferto spontaneamente, con fresco entusiasmo, con incredibile audacia da quello stesso uomo, che andava sostenendo tanta guerra per il suo amore. Ad ogni piccola novità, ella rideva nervosamente, quasi smarrita, rilevando che la casa si trasformava, si faceva bella e intima, che Filippo le dava a poco a poco una sua impronta personale.

- «Folletto», che ne dite? - chiedeva Loredana qualche volta alla Teobaldi.

«Folletto» era il nomignolo che Loredana aveva scelto per Clarice in memoria del famoso galop di Sirmione.

- Dico che è magnifico! - rispondeva il grosso folletto, guardandosi intorno a gustar meglio l'intimità aristocratica dei luogo, e a salutar con un sorriso certi oggetti, come quel legno policromo del 600, i quali significavano per lei qualche ricordo. - Dico, - seguitava, - che a Sirmione deve avermi spinta il mio angelo custode; e pensi, contessa, che vi sono andata a caso, senza voglia...

Ma Loredana interrompeva con un gesto la storia risaputa.

- Non tornerete daccapo? - domandava ridendo.

Dacché viveva con la giovane signora, Clarice aveva sentito il dovere di renderle il titolo di contessa, che a Sirmione le aveva lesinato; i servi imitavano in questo la dama di compagnia, quantunque nessuno ignorasse da qual vincolo Loredana era legata al conte; e Filippo, non senza riconoscere la fastidiosa gravità del fatto, s'era guardato dal muovere osservazioni, che sarebbero state, del resto, assai difficili e spiacevoli.

Berto Candriani aveva raccontato alla contessina Fioresi ch'egli era fra i pochi i quali frequentavano la casa della bella amante, e aveva detto il vero; anzi era il solo che Filippo si conducesse qualche volta a pranzo.

Aveva cominciato quasi involontariamente, perché Berto gli si era messo un giorno alle calcagna, essendosi fitto in capo di pranzare con Filippo, dovunque quel giorno e con chiunque Filippo avesse dovuto trovarsi; e quest'ultimo, o perché di buon umore, o disperando di levarselo d'intorno, se l'era condotto seco e l'aveva presentato a Loredana e anche alla signora Clarice Teobaldi.

Loredana n'era rimasta sgomenta e sospettosa; ma passato il primo impaccio, Berto s'era mostrato così accorto, così savio, così elegante nelle maniere, pur essendo loquace e malizioso, che a poco a poco Loredana s'era rimessa dal sospetto e da quel sottile pudore che l'avevano dapprima turbata. Clarice dichiarò netto che dopo il conte Vagli, il conte Candriani era il gentiluomo più compito del mondo, forse perché , invece di far complimenti usuali alla bella amante, egli aveva rivolto la sua galanteria scherzosa alla cantatrice, la quale n'era rimasta ammiratissima.

Berto non abusò del privilegio e non si recò mai da Loredana se non accompagnando Filippo. Egli pure aveva fiutato in aria che si trattava d'un legame serio, non indegno di qualche rispetto; parlava bene di Loredana a Filippo e di Filippo a Loredana, ma chiedeva a se stesso dove quei due sarebbero andati a parare.

Frattanto, perché la contessa, Lombardi e altre dame s'indugiavano in città, prolungando oltre il consueto la stagione dei bagni, Filippo aveva dovuto riprendere quella «vita per la platea» della quale era abituato a vivere. Si recava spesso a Lido, nelle capanne delle amiche.

Il Lido piaceva a lui, come a tutti i veneziani, per agonia di luce, di verde, di spazio, d'aria diffusa; anch'egli si contentava dei pochi viali fiancheggiati da villini brutti, e s'era avvezzo alle costruzioni terribilmente antipatiche di quegli alberghi nei quali si mangiava malissimo e dai quali si vedeva una sfilata di capanne tozze, una spiaggia arida, qualche disegno di giardino con gli alberetti ancor giovani, sarcasticamente dimentichi di protegger gli uomini dal sole. Anche a Filippo la terrazza dei bagni pareva una stupenda costruzione d'arte; la vita e i colori glieli prestavano le oziose belle e gli oziosi eleganti in abiti vivacissimi, cosicché quella baracca era come un animale indecente coperto da parassiti variopinti che ne nascondevano la sgraziataggine.

Con le dame, con gli ufficiali di marina, coi gentiluomini che a quelle facevano codazzo e corona, Filippo si lasciò trascinare a gite frequenti; talora prendeva parte alle «sauteries», che nel linguaggio barbarico dell'aristocrazia dovevano significare balli modesti, fra amici.

Egli aveva il proprio pensiero rivolto a Loredana anche in quelle ore, ma la dimestichezza antica con le famiglie patrizie, la necessità di rispondere alle cortesie, la germinazione continua di visite da visite, di pranzi da pranzi, di gite da gite, la rete sottile e densa della vita mondana, che o si fugge interamente o interamente vi afferra, per lunghi giorni lo avevano costretto ad abbandonare l'appartamento segreto e caro delle Zattere, dove non si riduceva che a notte tarda, con la furia di ricomprarsi il tempo perduto e di compensarne l'amante.

Loredana, che di rimbrotti non era capace, sentì bruscamente d'odiare quelle donne, quegli uomini, quei ritrovi, quegli spassi; non solo perché interrompevano la sua bella esistenza d'amore, a più perché la mettevano innanzi a una barriera.

C'erano dunque famiglie ch'ella «non poteva» conoscere, e donne che «non dovevano» salutarla? Si era data con ingenua lealtà, fidando, senza un calcolo, per impeto d'amore; e niente la salvava dalla riprovazione arcigna del mondo? Ella aveva contro di sè la piccola società borghese alla quale apparteneva, e la società aristocratica alla quale non poteva appartenere; l'una e l'altra s'accordavano in un sol punto, nel biasimarla.

La fanciulla evitò di metter piede a Lido, temendo che la sua mala sorte la facesse incontrar con Filippo e obbligasse l'uno e l'altra alla commedia di scambiare un saluto appena percettibile; ma se lo sguardo le cadeva sui giornali cittadini, vedeva il nome di Flopi nel resoconto delle feste accomunato con quello di Berto Candriani, del tenente Orseolo, del marchese di Spinea, e due righe sopra una sfilata di dame, dalla contessa Osvaldi alla duchessa di Torrecusa, dalla contessina Fioresi alla contessa Lombardi. Erano sempre le medesime, accompagnate dai medesimi aggettivi, disposte nel medesimo ordine; e venivano poi i nomi di signore esotiche, le quali almeno, sparivano e ricomparivano con maggior varietà.

Che cosa faceva Flopi, come poteva non annoiarsi tra quelle donne, ch'egli vedeva tutti i giorni, da anni?

Berto Candriani, una sera a pranzo, aveva detto sbadatamente, innanzi a Loredana, che non si può vincere la noia in società se non a patto di andarvi per corteggiare una donna, per trovar l'amore o per condurre un flirt. E aveva svelato i piccoli intrighi, che legavan questo a quella, sfilando una corona di allegri pettegolezzi ed esagerando molto.

Loredana aveva dato un valore d'assioma alle parole del Candriani, e aveva guardato Filippo impallidendo; ma Filippo, quella sera medesima sul tardi s'era recato a una delle solite «sauteries» spinto dalla curiosità di veder dappresso il famoso Milan Obrenovich, del quale si narrava in quei giorni la riconciliazione con la regina Natalia. La giovane s'era coricata subito, per piangere, e nel cupo silenzio della notte veneziana, a lungo aveva dovuto aspettare il ritorno di Flopi.

Distesa sul letto, i capelli raccolti in fascio dietro la nuca, guardava tra le lacrime la sua camera e gli oggetti intorno, che le eran tanto cari. Una lampada ardeva sul tavolino; il letto chiuso nei veli della zanzariera, che tenevano Loredana come in un'ampia rete, e i mobili di mogano lucido sui quali splendevano le serrature e le borchie d'argento, e le due finestre debolmente illuminate dalla fiammella del lampione ch'era innanzi alla casa, e le poltrone di stoffa a larghi fiori di velluto in rilievo, tutto era accarezzato come da un raggio lunare, per la lampada che aveva il globo intensamente azzurro.

Il valzer in casa Lombardi cantava intanto: «Abbandonatevi a queste gioie malinconiche, a quest'onda invisibile, e sognate tutti i vostri sogni, prima che l'alba vi risvegli....»

 

III

 

Di quel patriziato veneziano del quale le storie del 1848 non dicono nulla, quelle del '59 non dicono niente e quelle del '66 dicono poco, il conte Roberto Vagli era stato ai suoi tempi una fortunata eccezione.

Come ufficiale di cavalleria, aveva preso parte al combattimento di Montebello, che viene giudicato dai tecnici il primo scontro importante del 1859; e terribile, perché secondo alcuni autori, metà della cavalleria piemontese - lancieri Aosta, lancieri Novara, cavalleggeri Monferrato vi rimase distrutta, essendosi urtata con gli Ussari Haller sotto la fucilata implacabile dei battaglioni austriaci; e stupendo per l'impareggiabile pertinacia dei cavalieri italiani che si lanciarono più volte alla carica con una furia, la quale il fuoco e il piombo non poterono arrestare.

 

 

Fine prima parte capitolo III

Buona lettura.

 

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°221 pubblicato il 10 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
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L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

Immagine: Sirmione.

Grotte di Catullo.

 

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... seguito SECONDA PARTE

 

***

 

... seguito Capitolo 1

 

Il maggiordomo comparve a un tratto nella sala rossa, si presentò alla contessa Lombardi, le disse qualche parola inchinandosi. La contessa ebbe un sorriso e mosse lentamente verso la porta d'entrata, mentre un sussurrio di curiosità ai propagava, nella sala tra i gruppi degli invitati che avevano preferito la conversazione alla danza.

Quasi contemporaneamente un signore non alto di statura, largo di spalle, con lunghi favoriti biondi, varcava il limitare e dirigendosi rapidamente incontro alla contessa, le prendeva la mano, così da impedirle l'inchino che la dama aveva abbozzato. S'udì la voce dell'uomo, una bella voce molle:

- «Je vous suis bien reconnaissant, comtesse», - egli diceva, baciando la sottile mano inguantata.

- Chi è? - -domandò Berto Candriani.

- Non lo conosci? - disse il tenente di vascello Paolo Orseolo. - È Milan, l'ex-re di Serbia.

- Oh guarda! - esclamò Berto. - Si muove bene in un salotto, meglio che sul trono, l'animale...

Il conte Orseolo diede una gomitata a Berto.

Milan s'inoltrava, tenendo al braccio la contessa Lombardi, che gli presentò gli invitati.

Berto aveva ragione: Milan aveva piuttosto l'aria d'un gran signore annoiato che non l'aspetto d'un Sovrano. I favoriti e i baffi biondi contrastavano con l'espressione di lassezza diffusa sul volto; e dentro gli occhi grigi e freddi passavano talora lampi improvvisi, come per effetto d'un pensiero che sopraggiungesse e illuminasse o facesse tremare quell'anima.

Egli disse qualche complimento alle dame intorno, con misura e con gusto, sorridendo e socchiudendo gli occhi.

A Berto Candriani domandò:

- «Est-ce que vous êtes du Rowing-Club, comte?»

- «Mais sans doute, Altesse!» - rispose Berto Candriani prontamente.

Milan gli sorrise soddisfatto; e mentre egli si allontanava con la contessa per dirigersi alla sala da ballo, Berto soggiunse a bassa voce con Paolo Orseolo:

- Mai visto il Rowing-Club! E tu?

Il conte Orseolo si mise a ridere.

Milan era giunto a Venezia in quei giorni, proveniente da Abbazia, dove aveva passato qualche settimana col giovane re Alessandro, suo figlio. I giornali avevano anzi parlato d'un tentativo d'avvelenamento commesso dai nemici degli Obrenovich contro Alessandro; e Milan, che in quell'epoca dimostrava pel figliuolo una vera tenerezza, ne era rimasto foscamente impressionato.

Era sceso all'«Hôtel d'Europa»; la contessa Lombardi, che l'aveva conosciuto alcuni anni prima a Biarritz, l'aveva invitato alla sua sauterie.

Berto Candriani stava per seguirlo a distanza e per gustar le altre presentazioni, ma vide entrare in quel punto Filippo Vagli, e gli corse incontro. Filippo lo guardò interrogativamente.

- C'è Milan, - annunziò Berto.

- C'è già? - disse Filippo. - È simpatico?

- Un tozzo di pane. Ti domanderà se sei del Rowing-Club. Ti prego di dirgli di sì, perché ciò gli fa piacere.

- Va bene. E la contessa è con lui?

- Naturalmente. Adesso che ha una specie di re per le mani, tu puoi risparmiar di salutarla, perché conti anche meno del solito.

I due amici s'avviarono ridendo verso la sala rossa.

- A proposito, - soggiunse Berto. - Ti ho reso un piccolo servizio, questa sera.

- Mi fai tremare! - esclamò Filippo.

- Coraggio! C'era la Fioresi che schiattava dalla voglia di saper che cosa fai, come vivi, dove ti nascondi. Io le ho raccontato tutto.

- Le hai parlato di Loredana? - esclamò Filippo, arrestandosi.

- No. Le ho parlato di te, della tua passione, delle baruffe con la tua famiglia; quadro completo, insomma!

- E lo chiami un piccolo servizio, questo? - disse Filippo, stringendo la mano di Berto. - Ma è un servizio impareggiabile, prezioso, magnifico....

- Un servizio per dodici persone, - mormorò Berto.

- Proprio! Così avrò costei sulle braccia, come non bastassero tutte le altre! - concluse Filippo. - Ma dove hai la testa? Quando imparerai, tu, a essere discreto?...

Berto era un po' confuso; aveva creduto, dapprincipio, che Filippo lo ringraziasse e gli stringesse la mano per davvero; ed ecco che tanta gratitudine si risolveva in un rimbrotto.

- Non ti arrabbiare, Flopi, - egli disse. - Alla fin fine, che cosa avverrà? Che la Fioresi non ti annoierà più coi sospiri e gli sguardi languidi....

- Ma ti prego di credere che la Fioresi non ha mai fatto nulla di simile, caro mio, e che queste son fantasie del tuo cervello ozioso....

Berto non poté replicare.

Giunti nella sala rossa, videro nel bel mezzo Milan Obrenovich che parlava con la duchessa di Torrecusa.

- «Nous avons fait un pari, la comtesse et moi,» - diceva. - «La comtesse disait que vous avez les yeux gris clairs, moi je disais que vous les avez verts, ce qui vous sied excessivement bien.

Et voilà, j'ai gagné!»

La duchessa sorrideva, un po' impacciata, sotto la fiamma che sfolgorarono a un tratto gli sguardi di Milan. Si sarebbe detto ch'egli avesse voluto bere la luce che sorgeva dal corpo sottile, dalla carnagione rosata, dai capelli aurei della giovane dama.

Gli altri tutt'intorno sentirono quella vampa di desiderio, che il re del tappeto verde e delle alcove aveva recato con sè, e tolsero gli occhi dalla coppia e seguitarono per discrezione i loro discorsi.

- Oh perché non si ricoverano dietro il paravento? - mormorò Berto, con un'occhiata al principe. - Se vuole io gli insegno i buchi, a Milan....

- Quali buchi? - domandò Filippo stupito.

- I buchi del paravento. Li ha trovati comodissimi anche la Fioresi. Vieni, che ti faccio vedere; è un segreto, il segreto che si rivela a un gentiluomo...

In quel punto, la Fioresi, giungendo dalla sala da ballo con passo svelto, alta la testa, un tranquillo sorriso sulle labbra, fermò Filippo, stendendogli la mano.

- Buona sera! - ella, disse. - Si disperava di vederla tra di noi...

Berto Candriani rattenne un ghigno di malizia, ma Giselda lo indovinò più che non lo vedesse.

- Mi dia il braccio! - ella soggiunse a Filippo. - Facciamo un giro, lontano da questo re che non mi piace!

Filippo le diede il braccio e s'avviò presto con lei fuori della sala.

- Ha ragione se non le piace quel re, - disse. – Perché pensava che io non sarei venuto stasera?

Berto, sprofondate le mani nelle tasche dei calzoni, rimase a guardar Filippo e Giselda che si allontanavano; poi squadrò di nuovo Milan Obrenovich, e gli venne in mente un verso, un verso del quale non avrebbe potuto dir l'autore, ma che gli sembrava adatto alla sua situazione:

/# "Messo là nella vigna a far da palo". #/

- Senta che bel galopp! - gli disse la contessina Cafiero, passandogli al fianco.

Berto l'afferrò per il braccio, quasi a volo, con tal furia che la fanciulla fece un gesto di spavento; e conducendola seco di corsa:

- Andiamo! - disse. - Qui tutti galoppano! Galoppiamo anche noi!...

La Cafiero, vestita di rosa, alta e bruna, un neo in mezzo alla fronte, cominciò a ballar con Berto, ridendo e socchiudendo gli occhi voluttuosamente.

 

Capitolo II.

 

Dopo la notte trascorsa, da Loredana al palazzo Vagli, Filippo aveva trovato e arredato l'appartamento sulle Zattere, di fronte al largo e torpido Canale della Giudecca; aveva persuaso con molta facilità del resto, la signora Clarice Teobaldi a lasciar Verona e ad allogarsi nell'appartamento; di poi era toccato alla Teobaldi, nelle frequentissime sue visite, a persuader Loredana, che combatteva tra il desiderio di raggiungere finalmente Filippo e la crudele necessità di dar nuovo dolore alla mamma.

Loredana s'era decisa un giorno in cui Adolfo Gianella l'aveva affrontata in istrada, dichiarandole di volerla accompagnare per vedere se mai andasse dal conte. L'insolenza del giovane l'aveva così esaltata che quel pomeriggio medesimo, invece di tornare a casa, aveva raggiunto Clarice Teobaldi, e alla mamma aveva scritto ch'era a Venezia, ch'ella non temesse, ma che ormai «il suo destino la chiamava».

Così Clarice era diventata la dama di compagnia di Loredana; e Loredana, l'amante, alla faccia del sole, di Filippo. Egli volle festeggiar l'avvenimento con un piccolo viaggio, e partirono i due innamorati per i laghi lombardi, lasciando Clarice a Venezia.

La dama di compagnia, altera del suo nuovo e delicato ufficio, aveva rinunziato agli abbigliamenti vistosi; vestiva sempre di nero, ma con quel suo vezzo di indossare abiti troppo corti, che le lasciavano scoperto tutto il piede, sembrava da lontano un vecchio merlo.

Quando Loredana e Filippo tornarono, ella poté annunziare che la signora Emma era stata due volte a cercar della sua Lori, e che non si lagnava più, e che aveva piegato il capo, anche lei, sotto quella raffica di passione. La signora Emma, travolta dal furore altrui e dalla debolezza propria, la quale pareva esser cresciuta dopo l'unico atto energico da lei compiuto a Sirmione, aveva veramente abbandonato le redini, non sperando ormai che nella onestà di Filippo, nella saggezza di Loredana, in qualche lontano avvenimento tuttavia incomprensibile.

La sua Lori andava a trovarla spesso, in quella casetta bianca sul campiello muto, dalla quale i pettegolezzi ostinati e i fatti veri avevano allontanato amici e conoscenze, cosicché la signora Emma viveva ora quieta e sola, abbandonata e placida. Qualche volta Lori si fermava a colazione o a pranzo; e mai le due donne non parlavano del conte; bensì, era in tutto l'atteggiamento della fanciulla verso la madre una premura nuova, un'affettuosità timorosa, che parevano chiedere continuamente il perdono nel silenzio; e quel perdono era già nel riserbo della signora Emma, che non aveva più detto parola dei suoi presentimenti.

Loredana traversava allora un periodo di selvaggia e franca voluttà. Filippo era l'amore, e l'amore l'inebriava, come se il calore di quel principio d'autunno avesse bruciato le vene di lei, moltiplicandone il desiderio e i capricci notturni e diurni. Il suo corpo bianco finemente venato, i seni duri dai capezzoli che ricordavano le fragole odorose, il ventre piccolo chiaro come ambra, le gambe dai bei ginocchi e dalle cosce muscolose, - splendevano la notte sotto i baci di Filippo, tra i veli della zanzariera, che chiudevan gli amanti come nell'onda azzurra e dolce d'un acquario.

 

Fine prima parte II capitolo.

Buona lettura

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°220 pubblicato il 03 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine:

Sala da pranzo…

 

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SECONDA PARTE.

 

Capitolo I.

 

Giselda Fioresi, al braccio di Berto Candriani, s'era fermata innanzi alla tavola del buffet, in casa della contessa Lombardi.

La lunga tavola era tutta occupata da piatti colmi di pasticcini e di dolci; due grandi samovar d'argento fumavano, e da un'enorme zuppiera un servo scodellava nelle tazze il punch freddo, mentre altri versavano lo sciampagna gelido dalle caraffe di cristallo e distribuivano i sorbetti rosei e bianchi.

- Se lei non fosse venuto a salvarmi, - continuò Giselda, accennando con la testa a un signore tozzo e rubicondo, che sorbiva adagio una granita di caffè, - gli sarei caduta fra le braccia...

- Oh Dio! - singhiozzò comicamente Berto Candriani.

- Per la noia, per la noia! - disse Giselda ridendo. - Non sa parlare che della sua automobile, e s'atteggia a disdegnare i cavalli...

- Così le ha fatto sapere che ne ha...

- Ne ha dieci, nelle scuderie della sua tenuta di San Polo; ma vuol venderli...

Nuove coppie, gli uomini in marsina, le donne in abito scollato e grande cappello, erano sopraggiunte e facevano coda, incalzando, alle spalle di Berto e di Giselda.

- Vuole sciampagna? - domandò Berto, prendendo una coppa dalle mani d'un servo e passandola a Giselda, che vi bagnò appena le labbra.

- Datemi due gelati, - ordinò qualcuno che stava dietro il Candriani.

- Aspetta, - disse questi al marchese di Spinea, che aveva al braccio la contessina Cafiero, - ti lasciamo il posto.

E avviandosi con Giselda, seguitò ad alta voce:

- Bada, che c'è molto punch bollente, che non si beve, e poco sciampagna freddo che si berrebbe volentieri.

- Zitto, maldicente! - gli disse il marchese di Spinea. - Vedremo che cosa ci offrirai quando verremo da te.

- Bravo, stai fresco! - esclamò Berto. - -Resto scapolo apposta per non avere seccatori in casa!

Sul limitare, Berto e Giselda dovettero fermarsi. La duchessa di Torrecusa e la contessa Osvaldi, tenendo ciascuna una coppa di sciampagna, s'esercitavano a portarla alle labbra, dopo aver fatto col braccio destro alcuni giri a spirale. La duchessa vi riuscì, versando dall'orlo metà del contenuto, e la contessa Osvaldi, che rideva a gola spiegata, vuotò la coppa intera sul tappeto, e rinunziò alla prova, perché i cavalieri intorno la facevano ridere troppo.

Berto Candriani s'aprì un varco tra i gruppi, traversò con Giselda un lungo corridoio, poi la sala pei fumatori, dove sedevano alcuni uomini, timidi o annoiati, che si scambiavano gli astucci delle sigarette o i gravi propositi d'una più energica politica internazionale; passò oltre la sala rossa, tutta rossa fiammante per le tappezzerie e pel colore dei mobili dorati, e si fermò nella sala rosea che precedeva la sala da ballo.

- Andiamo laggiù! - disse, accennando un alto e lungo paravento sul quale erano trapunte in oro parecchie grosse cicogne, brillanti sopra uno sfondo color chiaro di luna.

- Dietro il paravento? - chiese Giselda, lasciandosi trascinare senza troppa resistenza.

- Sieda, - ordinò Berto. - Io siedo qui di fronte; lei metta fuori le punte dei suoi piedini, così quelli che passeranno per andare a saltar come pere secche, capiranno che qui c'è qualcuno.

- Ma no, ma no, è sconveniente! - osservò Giselda. - E poi, lei ha l'abitudine di parlar male di tutti, e potrebbe sparlare proprio di quelli che passano...

- Ingenua fanciulla! - esclamò Berto Candriani. - C'è l'occhio della cicogna!

- Che cosa vuol dire? - domandò la contessina Fioresi con un sorriso, che pregustava qualche strana storia.

- Vuol dire che son forati gli occhi d'una cicogna, e di qui vedo benissimo senza essere veduto. Guardi che bei buchi!

Giselda si alzò a guardare, appoggiandosi lievemente alla poltrona di Berto; attraverso due fori, che corrispondevano dall'altro lato agli occhi d'una gigantesca cicogna, si vedevano benissimo il resto della sala e la porta dalla quale dovevano passare le coppie. Giselda diede in una risata.

- Ma quando ha fatto questo lavoro? - domandò.

- Badiamo: è un segreto che si rivela a una gentildonna; i buchi li ha fatti Silvestrelli, il capitano di corvetta, due anni or sono, e prima di partire per il giro del mondo li ha confidati a me.

Io sono l'unico erede di questi buchi, e nessuno se n'è mai accorto. Spero che lei apprezzerà tutto il valore della mia rivelazione.

- Sono utilissimi, - dichiarò la Fioresi solennemente, - Non dirò parola ad anima viva.

Berto fece un cenno con la mano; qualche coppia passava, dirigendosi al salone da ballo e chiacchierando; alcuni cavalieri sopraggiunsero, diedero un'occhiata, videro la sala vuota e se ne andarono di nuovo.

- Ha notato, contessina, che stasera non c'è Flopi? - riprese Berto con la sua voce più melliflua, piano piano.

- Non ho notato nulla! - rispose Giselda bruscamente. – Perché dovrei notare queste inezie?

- Inezie? Non ci sono inezie per chi ama.... Si vorrebbe sapere dove è Flopi a quest'ora, che cosa fa, che cosa dice.... Non è vero?

- Non è vero; io non voglio sapere nulla. Il conte Vagli non m'interessa più di quanto sia lecito, e io non ho l'abitudine di amare chi non si occupa di me.

- Non dico sia un'abitudine, - osservò Berta. - Può essere una fatalità... Zitta! - soggiunse, dopo aver dato uno sguardo ai buchi della cicogna. - C'è lo zio!

Il conte Roberto Vagli entrava in quel punto con un altro vecchio signore; il conte Roberto era dritto e magnifico, il largo petto inquadrato dal panciotto della marsina, all'occhiello della quale era fissato un superbo garofano bianco; tra le mani il conte teneva il gibus, alla maniera antica.

- Io ti assicuro, - egli seguitava, - che è una corbelleria, questa di voler tanti treni fra Venezia e Milano; treni diretti, treni direttissimi, o, come si dice ora, treni-lampo! Sai che cosa avverrà?

L'amico sedette in una poltrona, e il conte ripeté , standogli innanzi:

- Sai che cosa avverrà? Avverrà che Venezia fra pochi anni sarà un sobborgo di Milano, e le nostre civette andranno a far le compere a Milano, e i nostri giovanotti si vestiranno a Milano, e tutti i nostri quattrini ingrasseranno Milano, e il nostro commercio e la nostra industria rimarranno quel che sono ora, una povera cosa. Non mi diceva un momento fa il Cavenaghi, sai, quel mercante di carbone, che si pensa d'attuare un treno per tempissimo, cosicché si possa andare a Milano, starvi sei o sette ore, e tornar la sera, medesima? Io ti domando!...

L'amico si alzò, e tutt'e due s'avviarono.

- Io ti domando se questo si chiama far l'interesse di Venezia...

- Che bella mente! - esclamò Berto Candriani, quando fu sicuro che i due se n'erano andati. -

Non vuole i treni i diretti; bisognerà offrirgli un servizio di muli. Dopo la battaglia di San Martino, non ha capito più nulla. E Flopi deve lottare con questi suoi parenti, i quali, nonché l'amore, non sanno intendere nemmeno la ferrovia!...

- Ma io non comprendo perché Flopi debba lottare coi parenti, - osservò Giselda. - Lotta per che, per chi?

- Bah, - esclamò Berto Candriani, arricciandosi i mustacchi con studiata, espressione di mistero. - Affari riservati! Non dimentichiamo che lei è una signorina.

Giselda si sentì avvampar la faccia: aveva ventitre anni, molta voglia di vivere, fors'anco molta violenza contenuta dall'abitudine e dalla educazione; e nulla più l'irritava che l'ignoranza e l'espressione di candore che dovevano formare la sua maschera sociale.

Ella crollò il capo e risposo con voce dura:

- Quali sciocchezze! Ma se so tutto!...

- Tutto? – ripeté Berte, sicurissimo che non sapeva nulla, ma contento d'essere esonerato dalla discrezione. - Lei sa che Flopi ha un'amante?

- Ma certo!

- La quale è bellissima?

Giselda esitò un attimo.

- Ciò non importa. Chi la dice bellissima, - rispose, - chi mediocre, chi brutta!

Berto sorrise fugacemente, e incalzò:

- Bellissima; e lei sa che Flopi l' ha rapita, l' ha sedotta, la tiene con sé , e che ora ha sulle braccia tutti i parenti?

- Di lei; è naturale, - osservò Giselda.

- No, di lui; i parenti di lui sono spaventati, perché non capiscono che cosa voglia farne, e temono che la sposi....

- Ma i parenti di lei perché non intervengono? - domandò Giselda quasi con impazienza.

- Per una ragione ottima, contessina, mia, - rispose Berto ridendo. – Perché sono nel regno dei cieli, ad eccezione d'una madre, la quale se l'è ripresa una prima volta, ma se l'è vista ripartire con Flopi; onde la povera donna ha rinunziato a lottare e a discutere.

- E dove sono ora? - chiese Giselda con aria distratta.

- Chi? I parenti? Lo zio era qui poco fa, a parlar di treni...

Giselda interruppe, battendo un piede a terra, spazientita.

- Ma no, mio Dio! Flopi e quell'altra!...

- Ah!... Sono a Venezia; anzi ho pranzato oggi da loro. Bisogna dire che se qualche cosa d'irregolare è in quella casa, non lo si vede certo nella disposizione dei mobili, nella scelta delle vivande, nella qualità degli oggetti che adornano l'appartamento. Tutta roba squisita.... Credo che Flopi verrà stasera a salutar la contessa, sul tardi.... - Lei è molta addentro nella confidenza di Flopi! - osservò ironicamente Giselda, alzandosi.

- Sì, sono dei pochi che frequentano la casa, - disse Berto drizzandosi in piedi e offrendo il braccio a Giselda.

- No, grazie, - rispose questa, freddissima. - Devo dire una parola alla Torrecusa, che vedo seduta laggiù, nella sala da ballo.

E s'avviò sola, ma sì fermò di repente:

- Quale casa? - -domandò sottovoce.

- Sì, la casa di Flopi. Egli vive solo, ora; voglio dire non vive a palazzo. Ha un bellissimo appartamento sulle Zattere...

- Con la bellissima compagna! - concluse Giselda, che si lasciò sfuggire una risatina troppo stridula per essere sincera.

Berto s'inchinò, girò sui tacchi, e perfettamente sicuro d'aver fatto il bene di Giselda, di Flopi, e fors'anco di Loredana, passò nella sala rossa, e si mischiò a un gruppo di dame che ridevano in piedi con alcuni ufficiali di marina.

L'orchestra attaccò un valzer; i cavalieri traversarono la sala, s'incrociarono, ricomparvero con le dame al braccio, s'avviarono alla sala da ballo; fu una sfilata rapida di coppie, un'ondata di profumi.

Il valzer diceva: «Queste gioie fallaci, tutte simili all'invisibile onda delle mie note, si dissolvono nel tempo, e nulla più rimane quando l'alba livida vi richiama alle case. Abbandonatevi a queste gioie malinconiche, a quest'onda invisibile, e sognate tutti i vostri sogni, prima che l'alba vi risvegli....»

 

Fine prima parte Capitolo 1

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°219 pubblicato il 27 Marzo 2013 da ciapessoni.sandro
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219 L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Fra giorni sarà la Santa Pasqua di Resurrezione.

… anche Loredana augura una serena festività

 

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... seguito PRIMA PARTE

 

***

 

... Seguito fine capitolo XIX

 

Clarice scese la scala, e preceduta da Piero, ripercorse tutte le sale che aveva già intravedute; nell'anticamera, scorgendo sopra una tavola un Sileno coronato di pampini, circondato da baccanti ebbre, disse a mezza voce, con tono di persona esperta:

- Bello quel biscuit!

- Legno policromo del seicento! - enunziò Piero, senza guardar la signora, come avesse parlato all'aria. Ella passò, a testa alta, imperturbabile, il ventaglio nella, destra, mentre il valletto, premuto il bottone elettrico per dar avviso al portiere, si piegava fino a terra.

 

XX.

 

Così fu che Loredana poté aver notizie di Filippo e dargliene.

Il giorno in cui la Teobaldi si decise a varcar la soglia di casa De Carolis - quel giorno avverso ad Adolfo Gianella - Loredana fu contenta da non trovar parole per esprimersi. Partita appena Clarice, la fanciulla corse nella cameretta dove sua madre stava ricamando la quattordicesima fogliolina in seta verde, e infantilmente si mise a ballare.

- Ebbene, Lori, che hai? - domandò Emma stupita.

Ma Loredana seguitava a girare in tondo, gli occhi scintillanti e le labbra aperte a un sorriso di pace. Si arrestò d'un tratto, con un ultimo giro, in modo che le gonnelle le si gonfiassero d'aria, e si mise in ginocchio presso la mamma, la quale andava seguendola con l'occhio.

- Oh, - disse Loredana, - che Filippo mi ama sempre, anzi meglio di prima, e che non mi sono ingannata fidando in lui, e che mi pento d'aver pensato male, e che è qui, e che è mio, e che io sono sua...

- Questa bella, ambasciata è venuta a farti la signora Teobaldi? - interrogò Emma, mentre una ruga profonda, le solcava la fronte.

- Sì, mamma, la Teobaldi è buona. Anche su di lei m'ero ingannata. È buona, è prudente, e non bisogna rimproverarla. Non ha che il difetto di dipingersi male, e di vestirsi peggio. Hai visto, mamma, quel suo cappellino alla cacciatora, e subito sotto, quello terribili sopracciglia al carbone? Oh che paura e che risate a Sirmione, quando la vidi la prima volta!...

Si mise a ridere, a gola spiegata, e balzò in piedi, a riprendere il ballo, cantarellando l'aria di un valzer.

- Lori, - esclamò Emma severamente, arrestandola con lo sguardo. - Che pensieri hai? Che cosa conti di fare?

- Io?

La fanciulla, ritta in mezzo alla camera, stette pensierosa un momento; poi disse:

- Io? Non temere nulla, mamma! Ah come ho imparato a vivere in questi pochi mesi, come son diversa da una volta! Flopi non saprà più riconoscermi, e mi dirà con meraviglia: «Sei una donnina, sei veramente una donnina!» E tu non temere, mamma; io sarò felice...

- In nome di Dio, - interruppe Emma, respingendo il lavoro, e alzandosi, - che cosa intendi con queste parola? Vuoi tornare con lui?

Loredana le corse incontro, l'abbracciò stretta, le diede molti baci, dicendo:

- O mamma bella, o mamma cara, non sgridarmi, ma sì, ecco, voglio tornare con lui! Ed egli vuole tornare con me, o mamma bella, perché niente gli piace senza di me, e il lusso non è il lusso, e il suo palazzo è una casupola, e le donne sono pupattole, e le abitudini sono catene... Me l' ha scritto, e l' ho imparato a memoria, e gli credo...

- Povera, povera bambina! - esclamò Emma. - Tu credi tutto; ma non gli hai domandato perché non ti sposa?

Loredana allentò le braccia e lasciò sua madre.

- Non glielo domando, - rispose, oscurandosi in volto, - perché se anche egli volesse, io non vorrei. Ah no, non vorrei morire per tutta la guerra che la sua famiglia mi muoverebbe contro prima di cedere, e per tutte le umiliazioni che dovrei subire da quella sua gente e dai suoi amici, il giorno ch'io fossi moglie di Flopi. Vedi: io so, perché egli non mi sposa; perché non mi tormentino e prima e dopo fino alla morte. Sarò la sua amante; dunque meglio che la sua sposa.

- E calpesterai anche il ritegno, e lascerai che tutti sparlino di te e di tua madre? - osservò Emma con voce dolente.

- O mamma cara, non parlano male di te e di me, ora, tutti? - rispose Loredana. - E che premio ho io dunque di ciò che credono il mio ravvedimento? Hanno saputo, hanno inventato, mi hanno già uccisa nell'anima; nulla può accrescere il male che già mi fu fatto, e se io non sono morta per gli altri, gli altri sono ben morti per me. O mamma bella, tu, tu sei la bambina che crede; io non potrò mai essere tanto cattiva, quanto si è detto...

- E vuoi andartene ancora, e lasciarmi sola? - domandò Emma, guardandola con gli occhi annebbiati.

- Non so, mamma; non interrogarmi, non turbarmi, oggi. Oggi io sono così contenta, perché egli mi ama ancora; e non bisogna turbare chi è contento dopo un lungo dolore.

- Ma come, dunque, - insistette Emma, - se ti ama tanto non è venuto più qui?

- O mamma, cara, tu lo sai. Tu gli hai detto che ogni cosa doveva essere finita e che non varcasse più la soglia della nostra casa. Egli ha obbedito; non lo rimproverare; è stato lontano da me, pensando che io pure non lo volessi, temendo che io gli facessi colpa - e gli facevo colpa! - di avere svelato il luogo ove ero rifugiata... Non lo rimproverare; egli ti ha obbedita.

- Poi ti ha mandato quella donna a dirti che ti vuole ancora! - esclamò Emma. - Così mi ha obbedita, il briccone!

- Volevi ch'egli morisse? - domandò Loredana. - Volevi ch'egli mi lasciasse morire?

- Non si muore per queste cose, bambina!

- Io sarei morta, o mamma bella! Io ero già sfinita e non avevo più forza per resistere all'avvilimento! Si può essere vivi e morti, non sai? Io era viva e morta, fin che di lui nulla sapevo; ed oggi soltanto sono tutta, tutta viva!...

- Oh che pazza! - esclamò Emma, andando a sedersi in un angolo della cameretta. - Che pazza è dunque diventata mia figlia?

Ma non ardì continuare il lamento.

Guardò Loredana e la vide, com'essa diceva, tutta, tutta viva; la fragranza di quella giovinezza s'effondeva per la camera; la fanciulla dritta, svelta, bella, sembrava una prigioniera in quel piccolo spazio; qualche voce che nessuno poteva udire, echeggiava, intorno a Loredana, chiamandola per la sua strada ampia o aspra; e nulla avrebbe potuto arrestare la forza misteriosa, che gli uomini chiamano destino, e che parlava inconsciamente per gli occhi ardenti di Loredana. Emma sentì questo in confuso; e capì che ogni ostacolo sarebbe stato travolto; si domandò se avesse diritto d'imprigionare ancora sua figlia, e del suo diritto dubitò.

Riprese in silenzio il ricamo, abbassò la testa sul lavoro, non disse più nulla.

Loredana, in punta di piedi, non potendo trattenersi, ricominciò a ballare il valzer chetamente.

 

XXI.

 

Essa non poté mai dimenticare quella notte, quell'angoscia, quelle emozioni.

Sol per aprire la porta della camera e per discendere le scale, dovette radunar tutta la sua volontà; e ad ogni scalino le sembrava che il fruscìo della gonna fosse strepitoso, che il suo respiro fosse veemente così da destar chi dormiva; e i ginocchi le scricchiolavano.

S'era avvoltolata intorno alla testa una sciarpa nera, che lo cadeva fino in grembo; ed era tutta vestita di nero; il viso bianco e i grandi occhi scuri attraevano meglio lo sguardo, per quella sciarpa che incorniciava l'ovale delicato del volto; ma Loredana credeva d'essersi mascherata, sentendosi avvampar dal caldo. Finalmente, aperto, con un ultimo brivido, l'uscio a pianterreno, si trovò in istrada, e vide Clarice.

Le due donne si misero a camminare senza far parola, spaurite dalla propria audacia e pensierose. Era di poco valicata la mezzanotte; da una taverna uscirono alcuni uomini e squadrarono quella coppia frettolosa, non comprendendo di quali femmine si trattasse; e poiché l'uno diceva con parole villane la sua ammirazione per la ragazza, un altro lo ammonì sarcasticamente:

- Lascia andare, figliuolo. Lì, occorrono biglietti da mille!

Loredana vibrò da capo a piedi; mormorò a Clarice:

- Ho paura. Torniamo indietro.

- Su, su, coraggio! - disse la Teobaldi, che tuttavia non era meno inquieta della sua giovane amica. - Non siamo lontane.

Ella, stentava ad agguagliare il passo di Loredana; ma correva aiutandosi con qualche piccolo salto, facendo sobbalzar tutta la sua povera carne.

- Presto! - diceva Loredana quasi ad ogni passo. - Non ci segue nessuno?

- Nessuno! - rispondeva Clarice, cogliendo il destro per rallentare un poco, e voltarsi. Un ubriaco, in una calle stretta, parlava e gesticolava da solo. Non gli tornava il conto della serata e nominava alcuni uomini illustri della città, dichiarando che all'indomani li avrebbe chiamati a testimoni contro l'oste e i compagni di giuoco. Vide le due donne, le lasciò avvicinare, e si rivolse a Loredana:

- Dica: se io spendo sessanta per un litro e mezzo...

E pencolò maledettamente; Loredana mandò un grido soffocato e si mise a correre.

- Lei, la vecchia, è più ragionevole, - osservò il beone, guardando Clarice che s'allontanava a passo celere. - Non corre, la vecchia, perché ha i piedi in malora. Ma se io spendo sessanta per un litro e mezzo...

- Lori, Lori, mi aspetti! - disse a mezza voce Clarice.

La fanciulla si fermò, la Teobaldi le si mise al fianco, e ripresero a camminare.

- Che paura, tesoro mio! - esclamò Clarice, tentando di sorridere.

- Ah sì, muoio di paura! Quell'ubriaco per poco non mi cadeva addosso!... Ma quanto dobbiamo camminare ancora?

- Adesso ci siamo. Volti a destra...

- Non ne capisco più nulla, - mormorò Loredana.

Essa stentava a riconoscere le calli, in quell'ora notturna; tutte le porte erano chiuse, le finestre chiuse, e di tratto in tratto una larga chiazza d'ombra toglieva la vista delle case, dei confini, degli angoli; poi appariva un lampione dalla luce rossastra, e, a quando a quando, un rio dall'acqua immota e nera. Nel silenzio solenne, dentro le calli più anguste, i passi delle due donne davano un rimbombo prolungato; lontanamente, per due volte in due punti diversi, risonò la voce gutturale d'un gondoliere, che s'internava con la sua gondola in un rio; e qua e là una zaffata di odore salso giunse alle nari di Loredana, che storse la bocca.

- Ci siamo! - disse improvvisamente Clarice.

Loredana alzò gli occhi, e riconobbe il palazzo Vagli, balzato fuori dall'ombra come per magia; largo e tozzo, ammantellato nell'oscurità, lasciava a pena intravedere le finestre bifore e le colonne patinate dal tempo; era tutto muto.

Ma la fanciulla non ebbe agio a contemplare; un uomo si staccava dalla porta fiocamente illuminata, le veniva incontro, l'abbracciava con tale veemenza da sollevarla da terra e trasportarla dentro in un sol gesto. Richiuse d'un colpo lo sportello, e stringendosi la fanciulla al fianco, cingendole col braccio destro il collo quasi a difenderla da un nemico invisibile, inoltrò.

Restarono per sempre impressi nella mente di Loredana il cortile buio, l'atrio buio, illuminati a sprazzi dal fanale, che l'uomo teneva nella sinistra; e la scalinata e quelle sale dove lampeggiavano fugacemente uno specchio, la doratura dei mobili, la superficie levigata d'una tavola o d'una statua. I passi risuonavano sordamente sul tappeto, e tanto silenzio era intorno, che benché nessuno vegliasse a quell'ora, i due amanti non parlavano.

Loredana si volse a cercar Clarice, ma non vedendola più, alzò gli occhi a guardar Filippo, e gli sorrise.

Obliata la madre, la notte, la casa, essa era felice e superba della propria audacia; il palazzo le sembrava immenso, ma sicuro, e quel braccio attorno al collo era il segno d'una protezione quasi onnipotente. Le tornava l'immagine di Filippo più forte, più audace, più fidato di chiunque al mondo, e ne fremeva di piacere.

- Qui? - -ella domandò sottovoce.

- Qui, - rispose Filippo, liberandola dalla stretta.

Erano nella camera di lui. Loredana vide larghi e pesanti cortinaggi alle finestre, un letto ampio, una pelle di tigre, con la testa enorme e gli occhi fissi, stesa a terra; sopra un tavolino moresco incrostato di madreperla ardevano cinque candele in un candelabro di vecchio argento; a una parete scintillavano le guaine metalliche di armi stravaganti.

Non vide altro, nel tumulto della gioia; pensò che il suo amore seguitava, riallacciando quella notte col giorno malinconico in cui era tornata tutta sola da Peschiera; oh, anche il suo amore gagliardo vinceva gli ostacoli, e i baci che sentiva erano più saporosi dopo tante lagrime!...

 

Fine capitolo XXI – Fine PRIMA PARTE DEL ROMANZO

Buona lettura! Grazie.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°218 pubblicato il 18 Marzo 2013 da ciapessoni.sandro
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218_L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittole: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Canal

Verso palazzo Vagli.

 

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… seguito PRIMA PARTE

 

***

 

… seguito: Capitolo XIX (dal post 217)

 

E su quel «vivere libero» si scatenò una gragnola di osservazioni da parte di Leopoldo, il quale temeva che libero per Filippo fosse sinonimo di libertino; e, presa ormai la corsa, rammentò altre avventure del cognato, che avevano fatto chiasso, col risultato finale di voltargli contro l'opinione pubblica. Ma peggio fu, quando Filippo si vide comparire lo zio conte Roberto, del quale non aveva più avuto novella dopo l'incontro a Desenzano. Roberto gli snocciolò un discorso assai lungo e preciso, che Filippo ascoltò sbalordito, perché aveva creduto di trovare nello zio il compatimento ch'era la caratteristica più nota della sua buona indole, quel compatimento che Roberto non lesinava a nessuno per nessuna colpa, la quale non fosse ignobile e vile.

Roberto, invece, dichiarò al nipote che la condotta di lui era assurda, per non dir peggio; Filippo aveva messo lo scompiglio nel parentado, in causa d'una ragazzetta, d'una monella, e tutti erano addosso allo zio, come al più vecchio, perché si valesse della sua autorità a far cessare quella tresca.

Filippo capì; lo zio era sdegnato, perché seccavano lui e mettevano in giuoco il suo prestigio; lo avevano toccato nel suo egoismo senile, ed egli era pronto a mandare al diavolo il nipote e la «monella», pur di non avere più noie.

- Del resto, - osservò il conte Roberto, - mi meraviglio di dover dirtele io, certe cose. Non ha una madre, un padre, quella tua bambola? E come si spiega che stiano zitti, e che tocchi a noi, a tua madre, a tuo zio, a Leopoldo, a tua sorella, di richiamarti al dovere?

- Ha una madre, - rispose Filippo. - Ha una madre, e la madre è venuta a Sirmione e me l' ha ripresa....

- Bene! - esclamò Roberto.

- Sì, benone; ma, ora io la riprendo alla madre! - dichiarò Filippo, che, torturato ed esasperato da tante chiacchiere, si sentiva capace di strappar Loredana anche agli artigli di quel diavolo, al quale Roberto l'avrebbe consegnata.

Il vecchio, stupefatto per tale sfacciataggine, gridò che rinunciava a discutere con un matto di quella forza. L'ostinazione di Filippo oltrepassava il credibile; tutto gli andava a seconda, grazie a una madre dabbene, che si riprendeva la figliuola dopo quel po' po' di scappuccio; ed egli invece era per ricominciar la festa e per condurla a termine, a un termine che non doveva e non poteva aver nulla d'invidiabile.

- Come devo dirtela? - seguitò il conte Roberto. - È uno scandalo; te lo hanno già cantato in musica; io non ho nulla da aggiungere. Tutti ne parlano; anche l'altro giorno, a Tai di Cadore, da Fausta Montegalda ho udito i particolari di questa farsa, e puoi immaginarti che gusto provavo io! La contessa dice che ti rovini, e non si può darle torto. Filippo sorrise.

- Eh, ridi, ridi fin che vuoi, ma la Montegalda dice giusto! - esclamò Roberto. - Dice che, alla fin fine, nessuno sa chi sia quella tua pupattola, e che potrebbe aver fatto con altri quel che ha fatto con te.... Chi ne sa niente, chi la conosce!

- Povero zio Roberto! - mormorò Filippo. - Va da una donna a chiedere informazioni di questo genere! Perché non domandi il suo parere anche alla Fioresi, che mi vogliono appioppare come moglie?

Roberto alzò le spalle.

- Insomma, - concluse, - io sono indignato per i tuoi vizi, e la cosa non và.

- -Non ti ho indignato io, - osservò Filippo.

- Ma non dimenticherò che hai sorriso dei miei consigli! - rimbeccò il conte.

- Ho sorriso per le critiche della Montegalda.

- E per le mie; e non si deve ridere d'un vecchio.

- Per la Montegalda, per la Montegalda! - gridò Filippo.

- -Già, e intanto ti ripigli la sbarazzina!

- Ciò non ti riguarda, zio.

- Ne riparleremo!

- Spero di no; vedo che più che se ne parla e meno ci si capisce.

- Ne riparleremo, ne riparleremo! - si ostinò il conte Roberto. – Perché io sono sempre dell'opinione che l'uomo non è monogamo. Tu non vuoi prendere moglie per essere libero; ma allora, né mogli né amanti! Questa è logica. E hai deciso che cosa te ne farai?

Alla domanda, inaspettata, Filippo non diede risposta; onde Roberto seguitò:

- Te lo dirò io: ne farai una mantenuta, da coprir di gioielli e da condurre a teatro e in carrozza; ti costerà ventimila lire l'anno, ti peserà come una moglie e ti sarà infedele.

- Perbacco, zio, - esclamò Filippo con aria beffarda. - Vedo che te ne intendi!

Roberto s'indispettì.

- Spero che non ce la metterai sotto il naso, come a Desenzano, la tua conquista! – osservò con rude cipiglio.

E credendo d'aver rimbeccato fieramente l'insolenza del nipote, troncò il colloquio e andò a riferirne alla cognata contessa Bianca.

Tali e simili furono i discorsi che Filippo dovette ascoltare in quel tempo nel quale, tornato da Sirmione, non osando più ripresentarsi in casa De Carolis, andava, torturandosi il cervello per trovare un espediente che lo riavvicinasse all'amante. E tra il desiderio che, insaziato, si faceva di giorno in giorno più molesto, tra la logomachia di casa e gli sdegni di tutta la parentela, Filippo conduceva una vita piena di tristezza, che non aveva riscontro negli anni precedenti. Rimaneva a Venezia, schivando gli inviti, passando mezza giornata al Circolo dell'Unione, dove mancavano gli assidui, e l'altra mezza in casa, dove s'occupava lunghe ore a leggere libri e riviste su tutti gli argomenti; la sera usciva in gondola pel Canalazzo o pel canale della Giudecca, lontano dai rumori e dalla luce.

Ma il pensiero di Loredana lo seguiva passo per passo, ora per ora, senza tregua, fatto più vivo dagli episodi di quella battaglia che la fanciulla gli aveva inconsciamente scatenato contro; Filippo non ricordava nulla di simile in tutta la sua vita, quantunque più volte si fosse parlato delle sue avventure. Ma perché si era trattato sempre di donne conosciute tra i gaudenti o saldamente legate ad altri, i suoi di casa s'erano guardati dall'occuparsene e dal fargliene parola. Un giorno gli fu annunziata la signora Clarice Teobaldi.

Da Sirmione, poco dopo la partenza del conte, ella era tornata a Verona, e qui era rimasta, aspettando che passasse tempo sufficiente per poter ricordare l'invito di Filippo e recarsi a Venezia.

Piero, il valletto di Filippo, precedeva la signora, la quale, come aveva sognato, saliva veramente lo scalone marmoreo del palazzo Vagli, giungeva al primo piano, traversava una fuga di sale immerse nella penombra, dentro la quale si vedevano i mobili dorati, le pallide tappezzerie antiche, gli oggetti d'arte; e di nuovo saliva una scala meno larga e più breve, ed era finalmente introdotta nello studio di Filippo.

La Teobaldi guardò avidamente, nel tempo dell'attesa, le carte sparse sulla scrivania, semplici fogli da lettera, senza cifra e senza stemma; e guardò le pareti, dalle quali pendevano quadri antichi in vecchie cornici. Si vedeva, in uno, una donna - Venere doveva essere, tutta nuda, o Danae - sdraiata sopra un largo divano, e una ancella, con rapido atto sembrava voler coprire d'un manto purpureo che aveva tra le mani, la superba nudità della sua signora, perché di tra le pieghe d'un pesante cortinaggio, sullo sfondo, apparivano la testa e il busto d'un importuno, che poteva essere Marte, desideroso ma accigliato per la prudenza dell'ancella.

La Teobaldi si stupì che quella fosse Venere, perché non aveva, ai suoi occhi, nulla di particolare; era una femmina nuda, né meglio né peggio di tante altre. E anche non lo piaceva quella tinta scura, quasi nera, che il quadro aveva preso qua e là, a danno dei colori.... La fotografia d'una bella dama moderna in abito scollato le sarebbe andata a genio, assai più di quel preteso tesoro d'arte.

Ma non ebbe tempo di seguitar nelle sue critiche, perché Filippo sopraggiunse, e si dimostrò lietissimo della visita. Fece sedere la Teobaldi, la interrogò cortesemente per sapere quanto intendesse fermarsi a Venezia, esprimendo la speranza che si fermasse a lungo; e di chiacchiera in chiacchiera, mentre Piero recava un tè squisito in un servizio d'argento massiccio e molti biscottini deliziosi, vennero a parlar di Loredana.

- Ah, bisogna ch'io riveda quella mia fantolina! - esclamò Clarice, quantunque avesse la bocca piena. - Andrò a trovarla, andrò ad abbracciarla. Non l' ho mai dimenticata un'ora, in tutto questo tempo. Così bella, così buona, quella creatura di Dio... Grazie!

Filippo le versava una seconda tazza, dì tè, qualche goccia di latte, e le porgeva il canestro argenteo coi biscottini.

- Grazie. Bisogna ch'io la riveda, e che le parli.

Bevve alcuni sorsi, e, incoraggiata dalla simpatia che risvegliava nell'animo di Filippo rievocandogli l'amante perduta, Clarice riprese:

- Ma le pare, conte, che le cose possano andare avanti a questo modo? Lei non osa avvicinarla, per colpa della madre; Loredana non osa chiamarlo; e intanto vivono infelici l'uno e l'altra, mentre son fatti per intendersi, e si adorano... Sono certa che io ho una missione, in questo dramma; sento che potrò riavvicinare due anime, due destini, due cuori. Ho certamente una missione; io non m'inganno! È stata Loredana stessa che mi ha chiamata a parte, quella sera, quella sera del telegramma, e mi ha additato ciò che dovevo fare. Sera fatidica!...

Filippo non avrebbe mai pensato che due tazze di tè potessero ubriacare la buona donna, meglio che due coppe di sciampagna; ed esitando rispose:

- Vuole? Vuole parlare a Loredana? Le dica, allora...

Ma si tacque, non parendogli di poterla trattare, di punto in bianco, da ambasciatrice in un'impresa così delicatamente intima.

La Teobaldi diede fondo alla tazza, mangiò ancora un paio di biscottini.

- Sono baicoli, specialità di Venezia, non è vero?

E seguitò, aprendo un ventaglio spettacoloso di carta, e facendosi aria:

- Non ho bisogno che lei mi consigli. So quel che devo dire; ho, qui dentro, un consigliere infallibile che si chiama cuore... Prima cercherò di studiare le abitudini della casa e di sapere come sta, quel tesoro di Dio, come la pensa: e poi, se tutto va a seconda, mi presenterò alla madre. È più prudente e più... corretto. Le pare?... Scusi, è una Venere, quella che si vede lassù?

- Venere, - rispose Filippo.

- L'avevo capito subito; vecchi capolavori. Ah conte, lei non può immaginare quanto io sia fiera del compito che mi assumo... Quando vedrò sorridere quelle labbra di fanciulla, io che l' ho vista partire disfatta da Sirmione, sarò felice più di tutti!

Filippo sorrise, prese una mano della Teobaldi, la tenne un istante fra le sue, e rispose:

- Lei è molto buona, cara signora, e vuole impedirmi di ringraziarla. Ma creda che, comunque le cose finiscano, io non dimenticherò mai, mai, ciò che lei ha fatto per me, per tutti e due!

- Le dico: io servo il mio cuore, e nessuno mi deve nulla. Se permette, quando avrò notizie, verrò a portargliele.

- Ma venga anche tutti i giorni, la prego. Faccia conto che questa casa sia sua, - esclamò Filippo, incalorito dalla speranza di aver finalmente nuove dell'amica.

La Teobaldi si alzò e s'incamminò con passo svelto, a testa alta, il ventaglio nella destra, pensando a un figurino di gran dama che aveva visto in un giornale di moda. E camminando, seguita a un passo da Filippo, domandò:

- Questo è il suo appartamento particolare, conte?

- Sì, sono le mie camere, - rispose Filippo, mentre, all'uscire dallo studio, premeva il bottone d'un campanello elettrico. - Ho la mamma in campagna.

- Messe con gusto principesco, - osservò Clarice, traversando un corridoio e poi una sala. -

Magnifiche tappezzerie!... Non si disturbi, non si disturbi!

Filippo volle accompagnarla alla scala, ai cui piedi stava Piero in attesa di ricondurre la visitatrice attraverso il primo piano fino alla porta d'uscita. Al momento di stringerle la mano, Filippo non poté vincersi, e disse:

- La vedrà subito, non è vero?

- Domani! - promise Clarice, e ridendo d'un bel riso grasso, aggiunse: - Ma non sono a Venezia per questo?

- Grazie, grazie, grazie! - esclamò, il conte inchinandosi. - Arrivederci!

 

Fine seconda parte Capitolo XIX

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°217 pubblicato il 12 Marzo 2013 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Paralume

… che rischiara le idee di Adolfo.

 

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… seguito PRIMA PARTE

 

***


… seguito Capitolo XVIII (dal post 216)

 

In anticamera, Adolfo si fermò. Gli giunse, netta e squillante, la voce di Loredana, la quale doveva essere nel salottino; e la fanciulla cantava a distesa, con pieno abbandono, come se tutta la bella gaiezza veneziana, come se tutta l'audacia della giovinezza avessero ripreso il loro dominio. E tra l'una e l'altra strofe del canto s'udiva il rumore delle forbici posate sul tavolino da lavoro o il passo svelto della ragazza, che si muoveva per la camera.

Senza discutere con se stesso, Adolfo spinse la porta, e si trovò alla presenza di Loredana, la quale stava adattando un pezzo di seta gialla a una certa forma di ferro ch'era un paralume da candela; innanzi a sé la fanciulla aveva altri pezzi di stoffa a colori e diversi gomitoli di seta; ed era così assorta nel lavoro e nella canzone, che il giovane dovette chiamarla:

- Loredana!

Ella alzò il capo, e trattenne a stento un grido; ma Adolfo aveva già detto ogni cosa, e non sapeva come continuare, come esprimersi, come riprendere d'un subito le abitudini di padronanza. Sprofondò le mani nelle tasche della giacca, e disse:

- Sei stata l'amante del conte, non è vero? Così, ti preparavi a sposarmi? E non hai vergogna?

Loredana mandò un lampo dagli occhi. Aggredita di fronte, non esitò un attimo a rispondere:

- Io mi preparava a sposar lei? Non mi è mai venuta per la mente un'idea così malinconica, sa? Era la sua famiglia, che mi seccava tutti i giorni per ottenere questo sacrificio. Io non pensava a sposare nessuno...

- Già, volevi conservarti per il conte, - osservò Adolfo con ironia. - Ti sei conservata benissimo, non c'è che dire!

La ragazza arrotondò con le forbici una certa lingua, di seta violetta, che doveva ricadere sul paralume a uno dei quattro angoli; misurò l'altezza, adattò, provò, cambiò, tranquillamente, senza occuparsi del giovane, fremente nell'attesa di una discolpa.

- Non so, - disse poi, - come ha potuto venire fino in casa; ma se per la stessa strada se ne andasse, non mi dispiacerebbe.

- Mi metti alla porta? - esclamò Adolfo. - Invece di scolparti, invece di giurarmi che col conte non c'è stato nulla di nulla, tu mi metti alla porta?

- Scusi, perché dovrei scolparmi? Che cosa rappresenta, lei? Chi è, lei? Che diritto ha lei di giudicarmi?

A queste parole di Loredana, Adolfo si lasciò calare in una poltrona, come annichilito. Chi era, che cosa rappresentava, che diritto aveva?

- Io, - mormorò, - sono pronto a sposarti.

Loredana si mise a ridere.

- Ma non sono pronta io, vede? - rispose, arrotondando un'altra lingua di seta violetti. - E, del resto, la sua dichiarazione mi stupisce: mi crede o non mi crede l'amante di Filippo... del conte?

Adolfo si strinse nelle spalle.

- Me l' hanno detto, - mormorò. - Me l'han detto a casa, che tu sei stata col conte fuori di Venezia.

- E tuttavia mi sposerebbe? - incalzò Loredana.

- Ma perché non ti difendi? - gridò Adolfo balzando in piedi. – Perché non mi dici se sei stata o non sei stata l'amante di colui?...

Egli era avanti al tavolino da lavoro, con le mani aperte e stese dirette al volto di Loredana, la quale lo guardava, piuttosto attonita che intimorita.

- Vede, - ella rispose pacatamente, - innanzi tutto non basta dire a una donna: «Sono pronto a sposarti» per acquistare il diritto di indagarne la vita; poi, io m'ingannerò, ma lei mi sembra disposto a sposarmi in tutti e due i casi, che io sia stata, o che io non sia stata l'amante di Filippo... del conte. E allora, a che pro una discolpa o una confessione?...

Adolfo, il quale era rimasto, ancora con le mani aperte e stese, ad ascoltar la risposta della colpevole, si sentì vinto, e si lasciò calar di nuovo nella poltrona. Egli ritrovava, immutati, l'anima sdegnosa, la sensibilità intellettuale, l'intelligenza acuta, la rapida intuizione, l'orgoglio, il coraggio, che facevano la ragazza tanto superiore a lui. Egli era andato arrovellandosi per sapere che cosa volesse, che cosa intendesse fare, e se lo sentiva dir dalla bocca di Loredana, e doveva riconoscere che quella bocca diceva giusto...

- Non so, - egli riprese, tanto per riattaccare il discorso. - Non so nulla. Ti hanno accusata anche d'aver avuto un figlio e di essertene sbarazzata.

Le forbici, che stavano nella mano della fanciulla, descrissero uno stretto arco nell'aria, e andarono a cadere ai piedi di Adolfo. Il viso di Loredana avvampò di collera, e le labbra le tremarono.

- Mi hanno detto, ti hanno accusata! - ella ripeté , imitando il tono piagnucoloso del giovane; poi esclamò con forza: - E lei, che cosa faceva, che cosa diceva, che cosa raccontava? Stava ad udire, soltanto? Non son tre mesi, lei veniva per casa tutti i giorni e sapeva della mia vita ogni cura, minuto per minuto; e non ha trovato un argomento per difendermi, come amico, come fidanzato?

Bel rispetto avevano di lei quanti venivano a dirle quei complimenti!... E vuole ch'io mi difenda innanzi a un pupazzo del suo genere, e che tremi davanti a un giudice della sua levatura? Non capisce d'essere stupido? Se in casa sua si sparlava della ragazza che doveva un giorno portare il suo nome, lei aveva l'obbligo di farla rispettare, mi sembra! Invece, porta qua tutto il rifiuto dei pettegolezzi, pretende ch'io lo ascolti e vuole sapere anche se, caso mai, avessi avuto un figlio! Non s'avvede, non sente di essere ridicolo?...

- No, ascolta, - interruppe Adolfo, alzando la destra quasi a frenare quel torrente. - Io non voglio sapere nulla...

Ed era, per seguitare, quando la porta, s'aperse e comparve la signora Emma, seguita, da Clarice Teobaldi, col cappellino alla cacciatora.

- Ah, è lei! - disse Emma, vedendo Adolfo, che s'era levato in piedi. - Mi era parso di riconoscere la voce...

Non aggiunse parola per lui; poi si rivolse a Loredana:

- Lori, questa signora dice che tu l'aspettavi...

La fanciulla andò incontro a Clarice e le strinse la mano sorridendo, mentre Adolfo, combattuto tra il desiderio di capire, la convenienza d'andarsene, l'impressione per la gelida accoglienza fattagli dalla signora De Carolis, restava in piedi a guardare or l'una or l'altra delle tre donne.

- Se m'aspettava! - esclamò Clarice, gettando le braccia al collo di Loredana. - Doveva aspettarmi, questo tesoro, perché da tanto tempo desideravo rivederla! Ho sempre nel cuore quella partenza, di sera, con la carrozzella... Lei era così bianca, così debole...

Soggiunse, guardando Emma:

- Già, erano bianche e deboli tutt'e due, madre e figlia...

Loredana disse presto:

- Le presento il signor Adolfo Gianella.

Clarice fece un cenno con la testa, verso Adolfo che s'era avanzato di qualche passo; poi tutti tacquero; Clarice e Loredana sedettero l'una a fianco dell'altra sul divano, come intime amiche, sorridendosi.

- Fa molto caldo a Venezia, - riprese Clarice. - A Verona non abbiamo questo scirocco....

- Sì, fa molto caldo, - confermò Emma, la quale stava sempre a un passo dalla porta, e si augurava che l'uno o l'altra, Adolfo o Clarice, comprendesse la necessità di ritirarsi. Ma erano ostinati ambedue. Adolfo, ormai, aveva ripreso posto nella poltrona, e sembrava deciso a voler seguire la conversazione.

- A Venezia abbiamo poi le zanzare, - egli disse.

- Le zanzare, sì, ma ci sono le zanzariere, - osservò Loredana.

E tacquero di nuovo.

Emma si sentiva morire per quella commedia, meravigliandosi che la sua Lori vi prendesse parte. La buona donna, al ritorno da Sirmione, aveva perduto l'energia e la volontà, soffrendo per la sofferenza della figlia, chiedendosi se il suo intervento non fosse stato inutile di fronte al traboccar della maldicenza, tormentandosi ogni giorno per mille timori, studiando ansiosamente negli occhi di Loredana il pensiero segreto, la segreta ambascia, e rideva quando rideva la sua Lori, e piangeva quando la sua Lori piangeva, e ormai non avrebbe più discusso, non avrebbe più riflettuto, pur di vederla felice, a qualunque costo.

Per ciò, la visita della Teobaldi le era gradita, perché sembrava gradita a Loredana; ma non le piaceva che si dovesse fingere innanzi al Gianella, come se la Teobaldi fosse venuta per tramar qualche intrigo.

- Lei non è di Venezia? - domandò Adolfo a Clarice.

- No; ma conosco bene la città, - rispose l'altra.

Un silenzio pesante ricadde; e allora, comprendendo ch'era impossibile uscirne, Adolfo prese congedo.

- Tornerò, se permette, - disse a Loredana.

Questa non rispose. Egli s'avviò, seguito da Emma, la quale ardeva di sbarazzarsi dell'impaccio per lavorar nella sua camera ad una coperta da letto, nella quale doveva ancora ricamare trenta foglioline in seta verde e sessanta viole del pensiero.

 

XIX.

 

Dal giorno in cui era tornato a Venezia, Filippo aveva passato molte brutte ore. L'onda del pettegolezzo aveva varcato anche la soglia della sua casa, e le chiacchiere s'erano fatte più strambe e più inverosimili. All'orecchio della contessa Bianca giunse la voce che Filippo aveva avuto un figlio dalla sua amante, e perché la contessa non sapeva a qual tempo risalissero quegli amori, e perché si parlava di tre anni addietro, ella credeva a quel legame, ormai indissolubile, a quella paternità inconfessata.

La contessa Bianca andava da tempo accarezzando l'idea d'un matrimonio tra suo figlio e Giselda Fioresi, buona e bella ragazza, di eccellente casata; e la notizia le rompeva il sogno e la sbalestrava in un mare d'incertezze e di dubbi. Fu necessario spiegarsi, riparlar di Loredana, discutere un amore che la vecchia dama avrebbe voluto obliare. Avvenne una scena brusca tra lei e Filippo, il quale negò l'esistenza di un figliuolo, ma s'impennò all'idea di sposar quella «canna da zucchero» di Giselda Fioresi. Egli voleva esser libero; per dare scandalo, diceva la contessa Bianca; perché era ancor troppo giovane, diceva lui.

Un'altra scena, più breve ma più cruda nella forma, avvenne poco di poi tra Filippo e il cognato, conte Leopoldo de Idris, il quale viveva senza passioni e senza turbamenti una vita di piaceri semplici, in campagna, amministrando i suoi poderi, interessandosi all'agricoltura e alla politica modesta della provincia. Leopoldo si stupì che Filippo si perdesse ancora dietro una cocotte, ma fu addirittura spaventato quando seppe dalla bocca di Filippo medesimo che non si trattava d'una cocotte, bensì d'una ragazza, la quale doveva aver dunque delle pretensioni, una specie d'onore, molto da perdere e più ancora da guadagnare. Fu spaventato per Filippo, che certo non avrebbe saputo cavarsela con garbo, senza troppo danno da ambo le parti. E qui Filippo sentì scappar la pazienza.

- Ma che cavarsela! Ma che garbo! - egli esclamò. - Le voglio bene sul serio, e non penso affatto a cavarmela. Ho fatto male a cominciare, siamo d'accordo, benché in queste cose ci si accorga sempre troppo tardi dell'errore commesso; ma farei peggio a finirla con qualche gherminella!

Il conte Leopoldo, ancora più inquieto per quelle dichiarazioni, domandò a Filippo se pensasse mai di tirarsela in casa...

- In casa, di chi? - rispose Filippo. - In casa tua, no di certo; tocca a me provvedere, e non so perché , dunque, voi tutti vi disturbiate.

Leopoldo, allora, tornò alle idee generali, osservando che all'età di Filippo si doveva vivere quieti, pensare a far figliuoli legittimi, che continuassero la casa e allietassero la bella vecchiaia della contessa Bianca, la quale non meritava d'essere travagliata nei suoi ultimi anni. L'argomento era di quelli che trovano la strada del cuore; e Filippo, sentendosi toccato, s'infastidì, rispose a Leopoldo ch'era stufo di dover rendere conto a tutti delle più minute cose della sua vita come un collegiale, che desiderava ormai vivere libero, senza tutela e senza giudici.

 

Fine prima parte Capitolo XIX

Buona lettura

 

 
 
 

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