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Messaggi del 17/08/2018
Post n°14573 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni "Il dottor Stranamore": ovvero come il mondo imparò a "preoccuparsi" e ad amare Kubrick. Jack Ripper, paranoico generale anticomunista, prende una decisione estrema: ordina alla sua flotta aerea di sganciare le bombe atomiche sul territorio russo, in modo da risolvere la situazione d'empasse a favore degli USA. Basandosi sul romanzo "Red Alert" di Peter George, Kubrick dà carta bianca alla sua vena ironica e dissacrante, creando un'opera tragicomica nella quale sono ridicolizzati tutti i più alti membri del governo, americano e russo indistintamente, evidenziando come alla fine le vere vittime delle follie dei politici siano le persone comuni, quelle che vivono la loro vita lontano dagli interessi e dalle strategie politico-militari. Abbiamo avuto modo di ammirare Peter Sellers nei panni di Clare Quilty nel precedente "Lolita", dove si era sdoppiato in molteplici ruoli, e Kubrick sembra non voler rinunciare alla sua vis comica per rendere ancora più surreale, a tratti ridicola, la vicenda: le maschere indossate da Sellers rimandano alle maschere che l'uomo (politico e non) tende ad indossare per adattarsi alle situazioni contingenti, perdendo infine la sua vera identità. In questa situazione l'uso dello humour nero, della deformazione grottesca al limite della farsa, e delle situazioni tragiche talmente esasperate da divenire ridicole, si rivela la scelta più sofisticata che Kubrick potesse fare per abbattere una dopo l'altra tutte le false ideologie pacifiste statunitensi. Proprio nella sala ovale, ambiente reso asettico e alienante da Kubrick, assistiamo ai dialoghi più grotteschi di chi dovrebbe garantire la pace e la sicurezza del mondo a tutti i costi; a partire dal paranoico generale Turgidson, che illustra affabilmente al presidente come le perdite umane degli Stati Uniti, in caso di conflitto atomico, saranno al massimo venti milioni! Le fantasie del dottor Stranamore ci strappano un sorriso... un sorriso amaro, che ci porta a pensare quante volte il destino del mondo sia stato deciso da uomini animati da pazzia bellica e, come la storia c'insegna, il popolo è sempre stato considerato solo un numero su cui misurare le sconfitte. E' chiaro l'intento di Kubrick di analizzare la debolezza e l'irrazionalità dell'uomo, che di fronte alle scoperte scientifiche tende quasi inesorabilmente all'autodistruzione piuttosto che al benessere collettivo; il regista non punta il dito contro le innovazioni tecnologiche dell'era atomica, anzi si nota una certa ammirazione durante le dettagliate inquadrature di tutte le apparecchiature letali del bombardiere: mettendo simili gioielli di tecnologia nelle mani di perfetti incompetenti che li manovrano come giocattoli, Kubrick ci crea un senso d'impotenza e di preoccupazione che ci pervade durante tutto il film.
Post n°14572 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni Good Kill è quello che dicono i piloti e i militari americani quando un colpo è andato a segno, a "buon fine". Quelli dell'omonimo film di Andrew Niccol sono "sparati" da dei piloti speciali che comandano aerei speciali. Velivoli invisibili che sorvolano a 3 km dal suolo i territori della lotta al terrorismo, dall'Afghanistan allo Yemen, per eliminare con missili balistici ad alta precisione un uomo, una casa un drappello di persone, un camioncino in movimento... che siano sospettati di attentare alla sicurezza nazionale americana. Questi piloti muovono ali e armamenti comodamente seduti dentro un box con aria condizionata nel deserto vicino a Las Vegas. Non rischiano nulla, ad eccezione della loro salute mentale. Una guerra più che fredda: astratta, quasi metafisica, virtuale... se non fosse che i missili fanno saltare in aria corpi di uomini, donne e bambini veri, in carne e ossa.
Post n°14571 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni Nel 2008 la scoperta del caso Fritzl fu uno shock di portata mondiale. Una figlia reclusa e abusata dal proprio stesso padre per 24 anni sembrava un orrore troppo inconcepibile per poterci credere, figurarsi metterlo in scena. Per fortuna il Room con cui l'irlandese Lenny Abrahamson torna in sala dopo il Frank con Michael Fassbender e Domhnall Gleeson nasce dal libro ispirato a quella vicenda: il romanzo 'Stanza, letto, armadio, specchio' (Room) scritto da Emma Donoghue nel 2010.
Non inedita invece la scioccante messa in scena del sistema mediatico statunitense, e della a tratti intollerabile solidarietà dei suoi partecipanti, ma è una parentesi. Ché feriscono di più certe dinamiche familiari o i giudizi che il film fa spontaneamente nascere nel suo incedere. Senza bisogno di indulgere nel 'Crime' o di sottolineare troppo alcuni accenni (tanto nei titoli di testa, intelligenti e anticipatori, quando nella citazione del Conte di Montecristo). Chiudendo, in compenso, la vicenda con una circolarità che in molti potranno trovare didascalica, ma che non è affatto priva di senso e di fascino.
Post n°14570 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni Valeria e Nicola sono pronti a divorziare, d'accordo su tutto, e si preparano a comunicare la loro scelta ai tre figli: un adolescente no global, una pre-teen incollata allo smartphone e un piccolo nerd, tutti egualmente ostili nei confronti degli imbelli genitori. Ma quando viene accettata la richiesta di Nicola di esercitare la sua professione di ginecologo in Mali per sette mesi e contemporaneamente a Valeria, ingegnere edile, viene offerto un trasferimento in Svezia di analoga durata, quella che era una trattativa civile si trasforma in una lotta all'ultimo sangue non già per ottenere la custodia dei figli, bensì per rifilarla all'altro, e partire verso l'estero in tutta libertà. Mamma o Papà non decolla perché rincorre non uno ma due prototipi stranieri (Papa ou Maman e La guerra dei Roses), perdendo di vista la realtà specificamente nazionale. I problemi cominciano in sceneggiatura. Risulta ad esempio difficile capire perché Valeria non possa portare con sé in Svezia i ragazzi per un periodo di meno di un anno, non perché in quanto madre sia automatico che sia lei a prendersi cura della prole, ma perché in Svezia crescere i figli, anche da single, è reso molto più semplice che da noi. I figli, inizialmente villani e strafottenti, si trasformano inspiegabilmente in vittime imbelli non appena inizia la guerra per liberarsi di loro. I personaggi di contorno, fondamentali in una commedia, sono appena accennati e privi di un vero arco narrativo: la coppia degli amici, l'infermiera, il collega di Valeria, l'improbabile giudice sempre disposta a dare ascolto alla coppia (in Italia le consensuali si concordano con l'avvocato, non direttamente con il magistrato). Si salva solo il nuovo boss dell'ingegnera grazie alla bravura istrionica di Carlo Buccirosso, che ci fa (quasi) credere alle contorsioni laocoontiche del suo personaggio.
Post n°14569 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni
Post n°14568 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
Tag: recensioni Portare Dostoevskij al cinema: lo stai facendo bene. Il fatto che a riuscirci sia un giovane comico inglese (Richard Ayoade) non è un dettaglio di poco conto, perchè l’assurdo assunto di base di una pellicola come Il sosia – The double in mano ad un regista troppo serioso non avrebbe forse oltrepassato quel limite frustante che sta alla base di ogni opera del grande drammaturgo russo. Non è un film facile Il sosia, così come non è mai stata facile la lettura di Dostoevskij, al quale mi sono imbattuto (non per mia volontà) anni fa: ricordo le atmosfere che si ricreavano senza volerlo nella mia mente, quell’oppressione che ammorbava le pagine di un romanzo che sembrava non finire mai mentre desideravo finisse presto, e quasi mi sentivo uno stupido nel giudicare “kafkiane” le vicende che si dipanavano ai miei occhi, mentre invece probabilmente, non ero l’unico. Perchè l’ombra di Kafka aleggia anche nella pellicola di Ayoade, cupa e allucinata, dalle atmosfere ai personaggi, all’interno del quale il faccione monoespressivo del Jesse Eisenberg della prima parte è la cosa che più si avvicina al mio stato d’animo di spettatore. Jesse Eisenberg in “Il sosia – The Double“. Il sosia è la storia del doppio, quello che nasce spontaneo in un mondo di frustrazione, quello che emerge quando nessuno ti vede: ed al protagonista Simon non lo vede proprio nessuno, invisibile ai colleghi del “sistema” (che sembra a pelle una sorta di mega ditta di fantozziana memoria), un numero per i superiori, un disagiato per la madre ed un collega al quale fare le fotocopie per Hannah (Mia Wasikowska), la ragazza del quale è segretamente innamorato. Fino a quando James, il suo doppio (o doppelgänger come preferiscono chiamarlo “quelli bravi”) non esce fuori prepotentemente, sostituendosi nella vita di Simon in tutto e per tutto fino a portarlo alla disperazione: ma chi è “davvero” questo sosia che somiglia in maniera così impressionante al nostro protagonista? Atmosfere surreali al limite del grottesco ammorbano una pellicola di difficile interpretazione, impossibile da decifrare pienamente, contorta in lunghi tratti, con un retrogusto amaro, il tutto ambientato in una sorta di cappa oscura che stringe al collo come un cappio: c’è però questa sorta di crescendo che accompagna lo spettatore lungo il percorso inverso del protagonista, e proprio mentre la commedia surreale si trasforma in qualcosa di molto vicino al thriller psicologico ci si rende conto che la pellicola di Richard Ayoade è molto più lucida e comprensibile di quanto si possa pensare, non è un bel film, ma è molto interessante.
Ed interessante è anche il messaggio cinematografico che Il Sosia lancia, perché per trovare qualcosa di umanamente simile dobbiamo “scomodare” pellicole come il Fight Club di David Fincher, solo che mentre il cult dei cult degli anni ’90 scindeva il doppio nella contrapposizione Brad Pitt/Edward Norton nel film di Ayoade c’è un bravissimo Jesse Eisenberg (in una delle sue prove migliori dai tempi di The Social Network) a giocare con le diverse personalità dei due protagonisti, mantenendosi sempre fedele allo Jakov Petrovič del romanzo pur dovendosi muovere in un contesto completamente diverso. La redazione di Filmovie a questo punto, consiglia di andare a recuperare Il Sosia(rigorosamente in homevideo, dal momento che la pellicola non è stata distribuita in sala)? Non lo so, Il Sosia è una scommessa, riuscire a dare una propria interpretazione trovandoci più di uno spunto interessante vuol dire vincerla, perdersi nelle ossessioni e nelle difficili articolazioni narrative che, specie nel finale, il regista costruisce senza rispetto alcuno per lo spettatore in difficoltà, al contrario non solo ti lascia sconfitto, ma anche abbastanza deluso e frustrato. Provare per credere.
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Inviato da: Mr.Loto
il 28/03/2022 alle 11:57
Inviato da: Mr.Loto
il 15/10/2020 alle 16:34
Inviato da: RavvedutiIn2
il 13/11/2019 alle 16:33
Inviato da: surfinia60
il 11/07/2019 alle 16:27
Inviato da: Enrico Giammarco
il 02/04/2019 alle 14:45