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Messaggi del 02/01/2020

 

Sorry We Missed You

Post n°15531 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Sorry We Missed You

Regista: Ken Loach
Genere: Drammatico
Anno: 2019
Paese: Gran Bretagna, Francia, Belgio
Durata: 100 min
Data di uscita: 02 gennaio 2020
Distribuzione: Lucky Red
Sorry We Missed You è un film di genere drammatico del 2019, diretto da Ken Loach, con Kris Hitchen e Debbie Honeywood. Uscita al cinema il 02 gennaio 2020. Durata 100 minuti. Distribuito da Lucky Red.
Data di uscita:02 gennaio 2020
Genere:Drammatico
Anno:2019
Regia:Ken Loach
Paese:Gran Bretagna, Francia, Belgio
Durata:100 min
Distribuzione:Lucky Red
Sceneggiatura:Paul Laverty
Fotografia:Robbie Ryan
Montaggio:Jonathan Morris
Produzione:Sixteen Films, BBC Films, BFI Film Fund, Les Films du Fleuve, Why Not Productions, Wild Bunch
TRAMA SORRY WE MISSED YOU

Sorry We Missed You, film diretto da Ken Loach, è la storia di Ricky (Kris Hitchen) e Abby Turner (Debbie Honeywood), che, dopo il crollo finanziario del 2008, lottano contro la precarietà degli ultimi anni in quel di Newcastle, cercando di non far mancare nulla ai loro bambini. Proprio la loro disastrosa condizione lavorativa - lei badante a domicilio, lui fattorino mal pagato - e conseguentemente finanziaria li mette di fronte a una dura relatà: non diventeranno mai indipendenti e non avranno mai una casa di loro proprietà, se continueranno ad agire così.
Ma un'allettante opportunità irrompe improvvisamente nella loro vita, quando Abby vende la propria auto per permettere a Ricky di acquistare un furgone. Con il nuovo mezzo l'uomo inizia a fare consegne per conto proprio, purtroppo sorgeranno nuovi problemi che metteranno gravemente a rischio l'unità, finora così solida, dei Turner.

PANORAMICA SU SORRY WE MISSED YOU

 

Ventiseiesimo lungometraggio dell'83enne regista inglese Ken LoachSorry We Missed You prende il titolo dalla frase standard stampigliata sugli avvisi di consegna lasciati dai corrieri ai destinatari dei pacchi in consegna che non hanno trovato in casa. In questo suo nuovo film, infatti, Loach racconta per l'ennesima volta le fatiche dei lavoratori più umili: che, in questo caso, sono appunto corrieri schiavizzati e costretti tour de force impensabili per rispettare scadenze, orari e numero di consegne imposte loro dai datori di lavoro e dalle leggi spietate dell'e-commerce, che comporta dinamiche pratiche e umane spesso invisibili e non considerate da coloro che acquistano con un click dai loro computer e dai loro smartphone. Proprio attorno a uno dei questi avvisi di consegna poi, Loach e il suo storico sceneggiatore Paul Laverty hanno costruito uno degli snodi chiave dell'andamento drammatico del film.
Di parziale ispirazione per la storia del film è stata la vera vicenda di Don lane, un corriere che morì nel gennaio del 2018 dopo aver saltato diversi appuntamenti ospedalieri per la cura del diabete da cui era affetto per lavorare senza interruzione nel periodo di Natale e non incorrere in multe di 150 sterline per mancate consegne come gli era accaduto in precedenza.
Girato a Newcastle e dintorni, Sorry We Missed You è il quindicesimo film di Loach ad essere stato presentato al Festival di Cannes: il che vuol dire che, in media, più di un film su due dell'inglese è stato ospitato sulla Croisette. Loach fa anche parte di quel ristrettissimo numero di registi che possono vantare la vittoria di due Palme d'oro, ottenute nel 2006 con Il vento che accarezza l’erba e nel 2016 con Io, Daniel Blake. Oltre all'inglese, di questo esclusivo club fanno parte lo svedese Alf Sjöberg, Francis Ford Coppola, Bille August, Emir Kusturica, Shohei Imamura, Luc e Jean-Pierre Dardenne, e Michael Haneke

CURIOSITÀ SU SORRY WE MISSED YOU

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2019.

Durante le riprese Io, Daniel Blake il regista Ken Loach ha avuto l'idea per il film una volta giunto ai banchi alimentari; molte persone che li frequentavano, infatti, avevano un impiego gig economy - che caratterizza part-time, contratti a zero ore, lavoratori a chiamata o precari - considerato un nuovo modello di sfruttamento. L'argomento ha talmente interessato Loach e lo sceneggiatore Paul Laverty tanto da voler fare un film al riguardo.

Loach e Laverty hanno intervistato diverse persone riguardo il loro lavoro, ma alcuni non era molto propensi a parlare. È stato quindi davvero difficile poter fare ricerche, ma di grande aiuto è stato un responsabile di un deposito, poco distante dal luogo delle riprese. L'uomo ha dato loro consigli su come allestire un magazzino.

Il film è stato girato in ordine cronologico, cosa che non ha permesso agli attori di sapere la trama effettiva fino alla fine. Gli interpreti della famiglia Turner avevano provato tutti insieme prima dell'inizio delle riprese, cosicché ognuno di loro potesse capire i rapporti e le dinamiche familiari.

Le riprese sono proseguite piuttosto velocemente e completate in cinque settimane e mezzo.

FRASI CELEBRI DI SORRY WE MISSED YOU

 

Dal Trailer Italiano del Film:

Ricky Turner (Kris Hitchen): Io ho fatto tutto: il muratore, l'idraulico...tutto! Vorrei lavore in proprio ora, essere il mio capo!

Ricky Turner: C'è un cane enorme là dentro, mi sa che mi ha staccato un pezzo di culo!

Ricky Turner: Sei andato sui binari, sui tetti, altrimenti farai la fine di...la fine di...
Sebastian 'Seb' Turner (Rhys Stone): La fine tua?!

Abbie Turner (Debbie Honeywood): È la mia serata con la famiglia, quindi no, non lo faccio! E ascoltami bene, nessuno tocca la mia famiglia!
INTERPRETI E PERSONAGGI DI SORRY WE MISSED YOU
AttoreRuolo
Kris Hitchen
Ricky Turner
Debbie Honeywood
Abby
Rhys Stone
Seb
Katie Proctor
Liza Jane

 
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18 regali

Post n°15530 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Regista: Francesco Amato
Genere: Drammatico
Anno: 2020
Paese: Italia
Durata: 115 min
Data di uscita: 02 gennaio 2020
Distribuzione: Lucky Red
18 Regali è un film di genere drammatico del 2020, diretto da Francesco Amato, con Benedetta Porcaroli e Vittoria Puccini. Uscita al cinema il 02 gennaio 2020. Durata 115 minuti. Distribuito da Lucky Red.
Data di uscita:02 gennaio 2020
Genere:Drammatico
Anno:2020
Paese:Italia
Durata:115 min
Distribuzione:Lucky Red
Fotografia:Gherardo Gossi
Montaggio:Luigi Mearelli
Musiche:Andrea Farri
Produzione:Lucky Red
TRAMA 18 REGALI

18 Regali, film diretto da Francesco Amato, è la storia di Elisa (Vittoria Puccini), che a 40 anni ha perso la vita a causa di un male incurabile, lasciando il marito e la figlioletta di solo un anno. Sapendo di non avere speranze di vita, la donna prima della sua dipartita, pensa a come restare vicino alla piccola dopo la sua morte. È così che ogni anno nel giorno del suo compleanno Anna (Benedetta Porcaroli) riceve un regalo da suo padre Alessio (Edoardo Leo) per conto della madre, fino alla maggiore età. Con questi diciotto regali Elisa dimostra a sua figlia che, nonostante un fato avverso, lei c'è e che le è accanto.
Il giorno in cui compie 18 anni, alla ragazza viene consegnato l'ultimo dono, ma Anna invece di presenziare alla sua festa organizzatela dal padre, decide di fuggire. Un regalo non sembra poter colmare il vuoto lasciato dalla madre, un'assenza che l'ha spinta sempre a ribellarsi, anche il giorno del suo compleanno, decidendo di girovagare nella notte piuttosto che festeggiare. Giovane, piena di pensieri, triste e addolorata, Anna non si accorge che una macchina corre dritta verso di lei, investendola. Quando si risveglia dal suo incidente la giovane riceve il regalo che ha sempre voluto nella sua vita: sua madre è lì con lei. Finalmente le due donne possono confrontarli, parlare e conoscersi.

PANORAMICA SU 18 REGALI

 

18 regali racconta una storia vera, drammatica ma anche piena di speranza: la storia dell'amore di una madre per la figlia. La madre era Elisa Girotto, direttrice di una filiale di una banca di Treviso che un giorno si è ammalata gravemente e che, dopo aver capito che non sarebbe guarita, ha deciso di comprare per la sua piccola Anna, che aveva solamente un anno, un regalo per ogni compleanno che la bimba avrebbe festeggiato senza di lei. La donna, che ha anticipato il matrimonio con Alessio Vincenzotto (il papà di Anna) perché non era certa di sopravvivere fino alla data fissata inizialmente, ha riempito la casa di pacchi e pacchetti. L'ultimo doveva essere consegnato a sua figlia appena compiuti i 18 anni di età. Fra i doni, bambole e altri giocattoli, libri e, come regalo per la maggiore età, un mappamondo su cui erano segnati tutti i luoghi dove mamma Elisa avrebbe voluto portare Anna.

A dirigere 18 regali è stato Francesco Amato, che nel 2017 aveva firmato la commedia con Toni Servillo e Carla Signoris Lasciati andare. Amato ha anche scritto soggetto e sceneggiatura del film insieme a Massimo Gaudioso, Davide Lantieri e ad Alessio Vicenzotto, che ha dichiarato: “Spero che la storia di mia moglie aiuti le persone a riflettere sull’importanza dell’amore verso la vita, che va sempre vissuta a pieno, anche nei momenti di difficoltà”.

A produrre 18 regali è stato invece Andrea Occhipinti (Lucky Red), che ha detto: “Mi ha colpito moltissimo e commosso lo straordinario gesto d'amore che Elisa ha fatto nei confronti di sua figlia. Così come mi ha emozionato la volontà di questa donna di lasciare qualcosa di sé attraverso questi regali, che accompagneranno al suo posto la crescita della figlia”. Sempre la Lucky Red distribuisce il film insieme a Vision Distribution.

I protagonisti di 18 regali sono Vittoria Puccini (nel ruolo di Elisa), Edoardo Leo (nella parte di Alessio) e Benedetta Porcaroli (Anna diciottenne). Quest'ultima si è fatta conoscere e amare soprattutto grazie a Baby, la serie tv targata Netflix diretta da Andrea De Sica e Anna Negri e incentrata sullo scandalo delle baby squillo dei Parioli.

CURIOSITÀ SU 18 REGALI

Il film è tratto da una storia vera, quella di Elisa Girotto, la donna e soprattutto una mamma che ha travalicato la morte pur di stare accanto a sua figlia, lasciandole 18 regali per i futuri compleanni quando ha saputo che le era rimasto poco da vivere.

Il regista è andato a far visita ad Alessio Vincenzotto dopo meno di un mese dalla morte della moglie. L'uomo non solo gli ha aperto le porte di casa sua, ma gli ha anche mostaro quel materiale dalla forte potenza emotiva, quali lettere e regali.

Vittoria Puccini ha dichiarato che, giunta a casa di Elisa, ha trovato molto emozionante vedere Alessio tirare fuori dall'armadio alcuni dei doni che la donna aveva preparato e leggere le lettere che aveva lasciato.

FRASI CELEBRI DI 18 REGALI

 

Dal Trailer Ufficiale del Film:

Elisa (Vittoria Puccini): Cara Anna, vorrei dirti tante cose, vorrei dirti com'è la vita e come va affrontata, vorrei trasferirti il mio modo di fare e di pensare! Vorrei esserci nei momenti di difficoltà, ma non si può! Il destino ha deciso così!

Anna (Benedetta Porcaroli): Tutti gli anni con questa cazzata dei regali, ma perché?
Alessio (Edoardo Leo): Ma cosa pensi che stai male solo tu?! Ma te c'hai mai pensato a me?

Elisa: Lo so, starai pensando "ancora questi regali, che palle", ma tu non sai quanto mi ha fatto bene! Questo è il mio ultimo regalo e spero che ti piaccia, ora sei diventata una donna e io ti amo alla follia, la tua mamma!ù
INTERPRETI E PERSONAGGI DI 18 REGALI
AttoreRuolo
Benedetta Porcaroli
Anna
Vittoria Puccini
Elisa
Edoardo Leo
Alessio
Sara Lazzaro
Carla
Marco Messeri
nonno
Betti Pedrazzi
nonna
Alessandro Giallocosta
Walter

 
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Film nelle sale

 

Lemony Snicket da everyeye

Post n°15528 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Il futuro sul grande schermo sembrava roseo, visti anche l'ottimo riscontro di critica e i discreti risultati al botteghino, ma qualcosa è andato storto e l'opera qui oggetto di recensione è rimasta l'unica incarnazione cinematografica tratta dagli omonimi romanzi. Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi ha poi vissuto nuova vita in forma seriale grazie a Netflix, che ha prodotto tre apprezzate stagioni in esclusiva sulla propria piattaforma, ma sono in tanti a rimpiangere come il franchise non abbia avuto una degna continuazione nel buio delle sale, data la qualità di questa, prima e ultima, incarnazione filmica delle opere di Daniel Handler, scrittore inglese che ha pubblicato, tra spin-off e principali, ben ventuno volumi dedicati alle peripezie dei fratelli Baudelaire. La pellicola, ispirata ai primi tre libri, fu distribuita nel 2004 e poteva vantare su un cast delle grandissime occasioni che, oltre ai giovani interpreti (tra cui una allora quindicenne Emily Browning), vedeva quale perfetta nemesi un istrionico Jim Carrey e partecipazioni di lusso in ruoli più o meno corposi di attori del calibro di Meryl Streep, Jude Law e Timothy Spall.

 

Una serie di sfortunati eventi

La storia ha inizio quando i tre fratelli (la maggiore Violet, il secondogenito Klaus e la piccola Sunny, poco più che un infante) ricevono la tragica notizia della morte dei genitori, scomparsi nel devastante incendio che ha bruciato la loro casa. Gli orfani, cui spetta l'ingente patrimonio di famiglia, vengono affidati a un lontano parente mai conosciuto, il perfido conte Olaf: l'uomo, aspirante attore con scarso successo, ha il solo obiettivo di mettere le mani sulla cospicua eredità e comincia a sfruttare gli sventurati nipoti come sguatteri nella sua diroccata dimora. Il peggio però deve ancora arrivare perché il tutore, per velocizzare le pratiche ed essere l'unico ad avere legalmente diritto della somma, ha intenzione di ucciderli facendo passare la loro dipartita come uno sfortunato incidente. Sopravvissuti miracolosamente grazie all'ingegno e alla prontezza di spirito, i consanguinei vengono dislocati dall'esecutore testamentario da un altro strambo parente, ma Olaf non demorde e farà di tutto per riottenerne la custodia.

La famiglia Baudelaire

Non è strano venire a sapere che nelle prime fasi del progetto colui che avrebbe dovuto sedersi dietro la macchina da presa era un certo Banny Sonnenfeld, regista che a inizio carriera ha diretto il dittico de La famiglia Addams: le atmosfere della fonte di partenza, poi comunque rispettate dal subentrante collega Brad Silberling (autore di un'altra pellicola a tema come Casper), riportavano infatti alla lugubre comicità affine alle vicende della stramba famiglia "mostruosa". Come detto Silberling non ha fatto rimpiangere il cambio, dando vita a una pellicola frizzante e grintosa che ibrida magnificamente entrambe le proprie anime, giocando su più sottotesti all'insegna di uno sfrontato, e smaliziato, divertimento per tutta la famiglia. I toni dark, accentuati dalla fotografia curata dalle stesse mani dietro Il mistero di Sleepy Hollow (1999) e dai rimandi steampunk, sono infatti reimmaginati in un'ispirata formula, leggera e visionaria al contempo, capace di offrire uno spettacolo estetico affascinante, realizzato per lo più tramite riprese in teatri di posa.

Niente fuori posto

Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi schiva con arguzia e intelligenze stilistiche i pericoli di una messa in scena caricaturale, anzi tutto è ragionato al millimetro per non uscire fuori dal seminato: dagli innesti meta nel voice-over costante di un Jude Law, che rimane sempre nell'ombra, nei panni del narratore nonché alter-ego dello stesso Handler-Snicket, ai titoli di testa in stile animato, che promettono uno spensierato film per bambini cambiando poi immediatamente rotta fino agli splendidi credits finali, il film vibra per personalità e inventiva e trova in questo ideale supporto da parte dell'intero cast.

Se i fratelli Baudelaire possono contare sull'alchimia tra i tre freschi interpreti (le "freddure" della piccola Sunny sono a tratti irresistibili), la comprimaria Meryl Streep strappa applausi a scena aperta nelle vesti della timorosa zia Josephine e Jim Carrey si scatena in una gara di travestitismo ed eccentrica follia nei vari camuffamenti intrapresi dal suo stravagante villain. I cento minuti di visione scorrono in un lampo, tra gag e situazioni sempre diverse e originali, proprio grazie all'incredibile coesione tra narrativa e messa in scena, aumentando i rimpianti per quei potenziali sequel che non hanno mai visto la luce.

 
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La vita possibile

Post n°15527 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Anna abbandona la sua abitazione romana insieme al figlio tredicenne Valerio per sfuggire a un marito violento che la tormenta, e che le denunce e le diffide non sono riuscite a tenere a bada. La donna si rifugia a Torino nel microscopico appartamento soppalcato di Carla, attrice teatrale squattrinata ma ricca di entusiasmo, assai generosa nell'accogliere a braccia aperte l'amica in difficoltà. A Torino Anna cerca lavoro e una vita sicura per sé e per suo figlio, ma Valerio patisce la lontananza dal padre e dagli amici romani e cerca di alleviare la propria solitudine accompagnandosi a due stranieri (come lui): una prostituta dell'est che potrebbe essere sua sorella maggiore e un ristoratore francese ex calciatore e, dicono, ex carcerato.
Dopo La bella genteGli equilibristi e I nostri ragazzi, Ivano De Matteo torna a raccontare una famiglia italiana di oggi scegliendo l'ambiente borghese che conosce a fondo e che fa da cartina di tornasole della crisi economica e sociale in corso nel nostro Paese. La sua attenzione è sempre per i più fragili: in questo caso Anna, vittima di un prepotente manesco, Valerio, esposto all'isolamento e alla paura, e Carla che, pur essendo caratterialmente ottimista, si ritiene un fallimento nel lavoro e nella vita poiché non ha costruito né una famiglia né una carriera. In particolare la parabola di Valerio è la ricerca di un'identità maschile della quale non doversi vergognare, passando attraverso le pietre miliari del percorso di crescita di un ragazzo italiano: il calcio, il sesso, la bicicletta.
Ma il passo della narrazione è (troppo) lento, anche se il montaggio sagace di Marco Spoletini, sempre efficace nel potare una scena prima che ramifichi oltre il necessario, aiuta ad eliminare tempi morti ed eccessivi sentimentalismi. Resta però qualcosa di inerte e di irrisolto, come se la tensione interna alla storia si perdesse nell'allineamento ordinato delle stazione della via crucis di Anna e Valerio. Quel che difetta a La vita possibile è un maggior equilibrio fra le parti dolenti e quelle che suggeriscono la possibilità della rinascita suggerita dal titolo, che arriva solo in extremis, dopo che i protagonisti hanno affrontato una serie continua di colpi bassi. Il cinema medio italiano, di cui De Matteo è più che dignitoso rappresentante, funziona al meglio quando aderisce alle regole del genere, ma La vita possibile è per tre quarti melodramma e per un quarto storia di rivalsa e di riscatto: sarebbe stato più opportuno decidere per un genere solo portandolo fino in fondo, preferibilmente l'underdog movie di cui oggi c'è parecchio bisogno. L'altro problema di credibilità è creato dal personaggio di Valerio, che da un lato gode di una libertà impensabile per un tredicenne, dall'altro mostra comportamenti e reazioni da bambino più che da preadolescente, il che è in parte spiegabile con il trauma che ha vissuto, in parte però sembra denotare una scarsa conoscenza del mondo dei preteen di oggi, cresciuti di fronte a Internet e ai tg: ragazzi per cui la concretezza del lavoro di una prostituta non sarebbe certo una sorpresa, per dirne una.
Molto più convincente è la descrizione della stupidità di certe leggi inadeguate che in Italia non tutelano le donne malmenate o i loro figli. Ma si fa fatica a credere che un padre che non ha rinunciato alla patria potestà e che si comporta verso la famiglia con atteggiamento proprietario non mobiliti la polizia per rintracciare il proprio figlio minorenne fatto scomparire (seppur con buon motivo) dalla madre.

 
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L'uomo sul treno

Post n°15526 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Michael MacCauley è un pendolare che da circa vent'anni, tutti giorni feriali, si reca a New York, finché non perde il lavoro presso una importante compagnia di assicurazioni. Prima era un agente di polizia e ha ancora amici nel dipartimento, tanto che confessa la sua disgrazia all'ex partner e aspetta invece di tornare a casa per dirlo alla moglie. Sul treno del ritorno incontra però una donna misteriosa che gli offre centomila dollari in cambio della sua collaborazione: vuole che trovi una persona di cui sa solo che non si tratta di un passeggero abituale. Lui non sa se prenderla sul serio o meno finché non scopre che i soldi ci sono davvero, ma a quel punto è troppo tardi per tirarsene fuori e si ritrova costretto a stare al gioco, anche perché nel mentre l'organizzazione della donna si mostra capace di uccidere e sostiene di avere in pugno la famiglia di Michael.

Come già in Non-Stop, la rodata coppia composta da Jaume Collet-Serra e Liam Neeson, affronta un thriller in un ambiente chiuso, non più un aereo bensì un treno, che asciuga il film da da elementi superflui e concentra azione e tensione.

Si tratta per i due del quarto film insieme, visto che il regista spagnolo aveva diretto Neeson già nel 2011 in Unknown - Senza identità quindi nel già citato Non-Stop nel 2014 e poi nel 2015 in Run All Night - Una notte per sopravvivere. Ancora più che nei precedenti il limite spaziale e temporale del film è preso assolutamente sul serio, tanto che Collet-Serra ha eliminato tutti i passaggi della sceneggiatura che avevano luogo fuori dal treno una volta che era iniziato il viaggio fatale. In questo modo siamo sempre sulle carrozze che da New York riportano Michael e molti altri a casa, inoltre questa sezione che occupa poco meno dell'interezza del film è girata quasi in tempo reale e secondo la sola prospettiva del protagonista.

In totale e voluto contrasto con questa scelta è invece l'incipit di L'uomo sul treno, che ci presenta in una sola ardita sequenza la vita di Michael, mischiando attraverso il montaggio giornate diverse, di stagioni diverse e con situazioni emotive diverse, pure se tutte accomunate dai medesimi gesti che vanno dallo svegliarsi e prepararsi al mattino fino alla colazione e poi al viaggio in treno. Si tratta quasi di un cortometraggio d'autore, il cui intento è, secondo le parole del regista, darci il senso di quanto questi viaggi in treno facciano parte della vita di Michael. D'altra parte è proprio per la sua lunga esperienza di pendolare, oltre che per le capacità di osservazione e investigazione tipiche di un ex poliziotto, che gli viene offerto dalla donna fatale un pericoloso patto.

 
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Gatta Cenerentola

Post n°15525 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Vittorio Basile è un armatore che inventa "un fiore all'occhiello dell'ingegneria navale italiana" per dare lustro alla città di Napoli. Ma l'avidità del faccendiere Salvatore Lo Giusto, detto 'o Re, e della bella Angelica Carannante, promessa sposa di Basile, mettono fine alla vita e ai sogni dell'armatore, lasciando la piccola Mia, figlia di primo letto di Vittorio, nelle grinfie della matrigna e dei suoi sei figli - cinque femmine e un "femminiello" - che affibbiano alla bambina il soprannome di Gatta Cenerentola. Riuscirà Primo Gemito, ex uomo della scorta di Basile, a riportare la legalità nel porto di Napoli e a sottrarre Cenerentola alla sua prigionia?

Alessandro Rak, già autore del pluripremiato L'arte della felicità, riunisce le forze con Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone per dare vita ad una delle favole contenute ne Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (notare l'omonimia fra lo scrittore campano e il padre di Gatta Cenerentola), cui era ispirato Il racconto dei racconti di Matteo Garrone.

Su quella stessa favola è basata anche l'opera teatrale di Roberto De Simone, ma la squadra di Rak compie un miracolo diverso: trasformare un testo secentesco in un film d'animazione ambientato ai giorni nostri senza perdere nulla della forza archetipale della storia, né della "napoletanità" che permea ogni aspetto dell'immaginazione visiva di Rak, ma non ne diventa mai limite provinciale. Napoli è uno dei protagonisti di Gatta Cenerentola, eppure non appare - la storia è ambientata fra l'interno della nave Megaride e i dintorni del porto ove è ancorata - se non attraverso le "maschere" protagoniste della storia, prima fra tutte quella straordinariamente espressiva (e politicamente efficace) di 'o Re, testimone della gigantesca potenza d'attore di Massimiliano Gallo.

L'animazione è totalmente immersiva (trattandosi di una vicenda che ha l'acqua come sua presenza costante) e tridimensionale nel senso più autentico del termine: la profondità di campo è data soprattutto dalla stratificazione del disegno e da accorgimenti di classe come la presenza costante nell'aria di pulviscolo, cenere e assortito (umano) debris. Perché Gatta Cenerentola è soprattutto una storia di fantasmi, anzi, di quelle proiezioni che sono l'essenza stessa del cinema: in questo senso la squadra di Rak dovrebbe cimentarsi, al prossimo giro, con la versione animata de "L'invenzione" di Morel.

 
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Quanto basta

Post n°15524 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 


Arturo è un cuoco stellato caduto in disgrazia a causa del suo temperamento collerico, che gli ha fruttato un arresto per percosse e lesioni aggravate. La pena alternativa che gli è stata comminata è quella di insegnare a cucinare ad un gruppetto di ragazzi autistici affidati ai servizi sociali e supervisionati dalla bella psicologa Anna. Nel gruppetto spicca Guido, un ragazzo affetto da sindrome di Asperger, che ha un talento innato per l'alta cucina. Guido chiederà ad Arturo di fargli da tutor per un concorso culinario: uno di quelli che lo chef odia e che hanno partorito fenomeni mediatici come il suo acerrimo rivale, il simil-Cracco Daniel Marinari. Riusciranno Arturo e Guido ad aiutarsi a vicenda a superare i rispettivi limiti comportamentali?

Dopo l'esordio con Emma sono io, che affrontava già il tema della disabilità mentale, e le due prove intermedie Last Minute Marocco e Questo mondo è per te, Francesco Falaschi torna a parlare di neurodiversità attraverso il personaggio di Guido, interpretato in modo molto convincente da Luigi Fedele, che avevamo lasciato padre adolescente in Piuma.

Il lavoro d'attore di Fedele è la vera forza del film, e trova la sua sponda migliore non tanto nel sempre affidabile Vinicio Marchioni nei panni di Arturo, quanto in Alessandro Haber che ha il piccolo ruolo dolente di Celso, maestro di cucina di tutta una generazione. La naturalezza di Haber avrebbe dovuto ispirare tutta la narrazione, che invece, dopo un inizio assai promettente (ad esempio fa a meno dello "spiegone" iniziale in voce fuori campo e ci dà tutte le informazioni sul protagonista con la sola forza delle immagini) procede lungo binari di estrema prevedibilità: la sceneggiatura è calcolata al millimetro, senza nemmeno una sorpresa, o una svolta inaspettata.

Quel che è più grave, la psicologa appare del tutto priva di deontologia professionale, e anche il tema del gran clamore che si fa intorno ai fornelli nell'Italia di oggi, di per sé interessante, è affrontato in maniera artificiosa. Anche il montaggio indugia troppo a lungo sulle reazioni degli interpreti, e la musica viene spalmata su troppe scene ad effetto strappalacrime.

È un peccato, perché l'idea di appaiare due "soggetti a rischio" in un road movie - per quanto già ben raccontata, ad esempio da Rain Man e, nel cinema italiano recente, da La pazza gioia - avrebbe potuto funzionare, grazie soprattutto al traino della credibilità di Fedele nei panni di Guido. Quanto basta resta invece una commedia lieve ma superficiale, e troppo formulaica per suscitare l'empatia che richiede.

 
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Dove cadono le ombre

Post n°15523 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Anna e Hans, infermiera e suo assistente di un istituto per anziani, l'ex orfanotrofio che li ha visti prigionieri nell'infanzia, vivono come intrappolati nel tempo e nello spazio. Dal passato riappare Gertrud e il nastro dell'orrore sembra riavvolgersi. L'istituto torna a essere ciò che era; ricovero di bambini jenisch sottratti alle famiglie, tempio di un progetto di eugenetica capitanato da Gertrud. Anna, schiava di quel luogo e di un'infanzia dolorosa che non termina mai, riprende le ricerche di Franziska, amica amata che cerca ovunque e senza sosta.

Alla base di questa opera prima di fiction di Valentina Pedicini sta una vicenda che non molti, al di fuori dei confini della Confederazione Elvetica, conoscono.

Tra il 1926 e il 1986 la Pro Juventute (un’associazione a carattere filantropico) ha sottratto 2000 bambini alle famiglie di etnia jenisch (nomadi come i rom e i sinti) con l’obiettivo di mettere fine al nomadismo. Sui minori sono stati condotti esperimenti scientifici e applicate pratiche come la sterilizzazione per impedirne il riprodursi. Una delle vittime di questa forma di pulizia etnica, Mariella Mehr, ha raccontato quanto accaduto trasfigurandolo in forma poetica e letteraria. In quanto esposto finora stanno il pregio e il difetto di Dove cadono le ombre. Perché è importante che qualcuno abbia preso la decisione di portare sullo schermo un tema che resta scottante anche perché tutto questo è accaduto nella tranquilla e civile Svizzera. Le vittime dell’eugenetica meritano che la memoria di quello che hanno subito non si disperda affinché non abbia più a ripetersi.

Quello che però nuoce al film, nonostante l’adesione al personaggio di Anna di Federica Rosellini, è l’impianto teatrale che sarà indubbiamente rispettoso dell’opera dell’autrice ma finisce con il raggelare oltre il necessario la narrazione. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una trasposizione di un testo nato per il palcoscenico più che a una sceneggiatura pensata direttamente per un film. Questo rischia di far sì che un tema così importante finisca con l’essere comunicato a un pubblico di nicchia. Il rigore stilistico è indubbiamente un merito ma quando si trattano argomenti di questa rilevanza qualche ‘concessione’ sarebbe utile alla causa che si vuole sostenere.

 
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Io, dio e ben laden

Post n°15522 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Gary Faulkner è disoccupato, ha alle spalle qualche condanna per reati minori e davanti a sé forse qualche birra di troppo, quando riceve la "chiamata" divina per una missione a cui non può sottrarsi: partire per il Pakistan e catturare Osama Bin Laden. Armato di una spada da samurai comprata tramite una televendita e della convinzione, risalente all'infanzia, di dover fare qualcosa di grande, Faulkner, malato di reni ma psichiatricamente dichiarato sano, lascia la donna che lo ama e lo sopporta per inseguire il suo destino. Ci proverà ben undici volte, ma il film se ne fa bastare tre o quattro, che rendono perfettamente l'idea.

Ispirato ad un articolo del 2010, a firma di Chris Heath, il racconto dell'ossessione di Mr Faulkner per "il barbuto" nemico degli Stati Uniti d'America, viene caricato, sullo schermo, sulle spalle di Nicolas Cage, che risponde piuttosto bene, con una performance comica, tutta urla e occhi sgranati, dietro la quale si riconosce facilmente la direzione del regista di Borat e Bruno ma anche l'umana, strascicata debolezza che l'attore si porta dietro da sempre.

In quanto a ritratto della stupidità siamo dalle parti di Tonya, ma con meno accenti tragici e una messa in scena più elementare. Del patriota Gary Faulkner, contrario alle birre, alle macchine e persino ai soffioni per doccia di marche non americane, felice di autodefinirsi "il re degli asini" perché il somaro è il suo animale guida, Larry Charles mira infatti a dare un'immagine in fondo innocua, al limite autolesionista, che susciti anche tenerezza. Il risultato cammina meno sul filo rispetto a Borat (un film che prendeva in giro il razzismo strisciante di buona parte di americani o un film a sua volta al limite del razzista?) e si concentra di più sulla commedia umana di un uomo che "non sarebbe stato all'altezza delle aspettative di nessuno" e ha dunque pensato bene di avere aspettative esagerate su se stesso.

Dei tre del titolo, l'"Io" di Faulkner/Cage è sicuramente il personaggio più riuscito, non a caso la prima parte, che coincide con la sua lunga presentazione, è la migliore, e contiene scene memorabili come il dialogo con il commesso del negozio di articoli sportivi dove Faulkner si reca per acquistare il deltaplano col quale è intenzionato a sorvolare le alture del Pakistan. Poiché il racconto delle imprese di quest'uomo ha senza dubbio dell'incredibile, il film sottolinea l'aspetto narrativo con l'ausilio di una voice over che serve anche a tenere nei binari un treno che spesso ripete la stessa corsa, guidato com'è dall'ossessione più in voga del momento, quella che mescola smarrimento di sé e delirio religioso.

 
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Il corriere - The mule

Post n°15521 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Earl Stone, floricoltore appassionato dell'Illinois, è specializzato nella cultura di un fiore effimero che vive solo un giorno. A quel fiore ha sacrificato la vita e la famiglia, che di lui adesso non vuole più saperne. Nel Midwest, piegato dalla deindustrializzazione, il commercio crolla e Earl è costretto a vendere la casa. Il solo bene che gli resta è il pick-up con cui ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione. La sua attitudine alla guida attira l'attenzione di uno sconosciuto, che gli propone un lavoro redditizio. Un cartello poco convenzionale di narcotrafficanti messicani, comandati da un boss edonista e gourmand, vorrebbe trasportare dal Texas a Chicago grossi carichi di droga. Earl accetta senza fare domande, caricando in un garage e consegnando in un motel. La veneranda età lo rende insospettabile e irrilevabile per la DEA. Veterano di guerra convertito in 'mulo', Earl dimentica i principi di fiero difensore del Paese per qualche dollaro in più. Ma la strada è lunga.

Per Clint Eastwood la questione è il tempo che gli resta. Una questione pressante emersa dalle acque del Mystic River e risolta cinque anni dopo in Gran Torino. Walt Kowalski, misantropo irascibile e veterano della Guerra di Corea, sarà il suo ultimo ruolo. Clint Eastwood mette in scena la sua fine, fino alla prossima volta almeno. Perché undici anni dopo, l'autore che beneficia dell'eterna proroga degli dei del cinema, riprende la strada in un road-trip testamentario supplementare.

Ma Il corriere - The Mule è più di questo, più del nuovo ritratto di un vecchio eroe reazionario che monda i suoi peccati. Per Clint Eastwood non è più il tempo di scrivere la sua leggenda e di giocare col suo mito. Perfettamente cosciente di quello che suscita, si diverte ma resta secco e autentico dietro le rughe di un uomo che non ha più l'angoscia di invecchiare ma la paura di morire.

Quando appare sullo schermo il cuore si ferma perché Clint Eastwood è sempre maledettamente bello, col suo sguardo chiaro, il sorriso franco e quella silhouette torreggiante che non ha perso niente della sua eleganza ma che non può e non vuole nascondere il peso delle sue primavere, quella vulnerabilità che accompagna la vecchiaia. Al tempo che incalza, come gli scagnozzi del cartello messicano, l'autore risponde rallentando.

Il ritmo in The Mule, dopo la frenesia di American Sniper e le sperimentazioni di Ore 15:17 - Attacco al treno, è quello di un uomo cosciente che non gli rimane più molta strada da percorrere ma che non ha davvero nessuna fretta di arrivare a destinazione. A bordo di un Ford F-100 degli anni Settanta si gode il viaggio. The Mule è il secondo film 'fordista' di Eastwood dopo Gran Torino, titolo dedicato a un'altra luccicante muscle car della Ford. La fascinazione per il fordismo, peculiare metodo di produzione a catena, spiega forse la cadenza infernale con la quale il regista realizza i suoi film, trentotto dal 1971 e il trentanovesimo è già 'in montaggio' (Impossible Odds).

CLINT EASTWOOD, NOVANTENNE COCCIUTO AL SOLDO (PER BISOGNO) DEI NARCOS MESSICANI.
Overview di Andrea Fornasiero
venerdì 4 gennaio 2019

Earl Stone è un reduce della guerra di Corea e, ormai novantenne, continua a lavorare nell'orticultura. Separato dalla moglie e distante dalla figlia, ha un rapporto discreto solo con la nipote, inoltre è prossimo alla bancarotta così coglie al volo l'occasione di un ingaggio da parte di loschi figuri messicani, che gli offrono abbastanza soldi da pagare il matrimonio della nipote e da rimettersi in sesto. Quando poi il centro per veterani è a sua volta in difficoltà economiche, Stone non può che continuare a lavorare per il cartello come "mulo", anche se ormai ha capito di partecipare ad attività criminali, che cerca in qualche modo di compensare con le proprie buone azioni e provando a farsi perdonare dalla ex moglie e dalla figlia.

"Quando mi hanno proposto di interpretare questo personaggio mi sono detto che sarebbe stato divertente vestire i panni di qualcuno più vecchio persino di me! La criminalità è economicamente un'ancora di salvezza per Stone, ma moralmente è un collasso. Per cui da una parte la sua vita migliora, ma dall'altra va a fondo. E uno di questi giorni dovrà pagare le conseguenze e affrontare le cose sbagliate che ha fatto".
Clint Eastwood

Scritto dallo sceneggiatore di Gran Torino Nick Schenk, il film è tratto da una storia vera, raccontata nell'articolo 'The Sinaloa Cartel's 90-Year-Old Drug Mule' (ossia: 'Il novantenne mulo della droga del cartello Sinaloa') di Sam Dolnick per il The New York Times. La storia era venuta alla luce in seguito a un'intervista di Dolnick all'agente DEA Jeff Moore, che aveva arrestato il vecchio Leo Sharp, arricchitosi in tarda età con le proprie attività illecite i cui proventi ha in gran parte impiegato a fin di bene. Si parlava di trarne un film già dal 2014 e inizialmente era stato scelto come regista Ruben Fleischer, cui poi è stato saggiamente preferito Clint Eastwood che per una storia del genere non ha rivali.

Il personaggio di un vecchio cocciuto e coriaceo, che si rimette in carreggiata ma non si adegua alla correttezza politica dei nostri tempi ma dice quello che pensa anche se è sconveniente, è esattamente nelle corde del regista e aver interpretato il personaggio ha portato un considerevole successo al film: terza miglior apertura di sempre per un suo titolo da protagonista dopo Gran Torino e Space Cowboys.

IL RITORNO DIETRO ALLA MACCHINA DA PRESA DI CLINT EASTWOOD.
Overview di Andrea Fornasiero
mercoledì 31 gennaio 2018

Earl Stone, un uomo di circa 80 anni rimasto solo e al verde, costretto ad affrontare la chiusura anticipata della sua impresa, quando gli viene offerto un lavoro per cui è richiesta la sola abilità di saper guidare un auto. Compito semplice, ma, ciò che Earl non sa è che ha appena accettato di diventare un corriere della droga di un cartello messicano. Nel suo nuovo lavoro è bravo, così bravo che il suo carico diventa di volta in volta più grande e per questo motivo gli viene assegnato un assistente. Questi non è però l'unico a tenere d'occhio Earl: il misterioso nuovo "mulo" della droga è finito anche nel radar dell'efficiente agente della DEA, Colin Bates. E anche se i suoi problemi di natura finanziaria appartengono ormai al passato, i suoi errori affiorano e si fanno pesanti nella testa, portandolo a domandarsi se riuscirà a porvi rimedio prima che venga beccato dalla legge... o addirittura da qualcuno del cartello stesso.

Con The Mule, il premio Oscar® Eastwood torna sia dietro che davanti la macchina da presa, cosa che non accadeva dai tempi di Gran Torino del 2009, film acclamato dala critica.

Cooper, che nel film interpreta Bates, ha ricevuto le sue più recenti candidature agli Oscar proprio grazie al lavoro con Eastwood, come attore e produttore di American Sniper. Il candidato all'Oscar® Fishburne è un agente speciale della DEA; Peña interpreta un suo collega; il premio Oscar® Wiest interpreta la ex moglie di Earl; Alison Eastwood è la figlia di Earl; Farmiga è la nipote di Earl mentre Serricchio interpreta l'assistente di cartello di Earl.

 
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Dolor y gloria

Post n°15520 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Il regista Salvador Mallo si trova in una crisi sia fisica che creativa. Tornano quindi nella sua memoria i giorni dell'infanzia povera in un paesino nella zona di Valencia, un film da cui aveva finito per dissociarsi una volta terminato e tanti altri momenti fondamentali della sua vita.

Almodóvar (come si definisce ormai in forma icastica da tempo nei titoli di testa dei suoi film) torna ad essere Pedro (anche se sotto le mentite spoglie di Salvador Mallo) e ci parla di sé, del proprio malessere, della difficoltà di portare avanti il pavesiano mestiere di vivere sotto il cielo di Madrid. Lo fa tenendo sotto controllo quel tanto di automanierismo che progressivamente si era insinuato nel suo cinema e, soprattutto, lasciandosi andare sul piano emotivo. Ciò che non era accaduto in La mala educaciòn, film anch'esso legato al suo vissuto giovanile, avviene qui. Grazie anche alla scelta del giusto alter ego.

Come Federico Fellini aveva trovato in Marcello Mastroianni chi poteva tradurre al meglio il se stesso cinematografico così Pedro Almodóvar ha nell'amico e attore Antonio Banderas una persona a cui può trasferire il proprio sentire più intimo con la certezza di non essere mai tradito, neppure in un incontrollato battere di ciglia.

Perché non è facile mettersi a nudo dinanzi a milioni di persone raccontando senza edulcorazioni il proprio periodo di dipendenza dall'eroina così come lo stretto legame con una figura materna la cui perdita ancora si fa sentire in profondità. Si parla di un film rinnegato e poi riabilitato per finire con il prenderne di nuovo le distanze in Dolor y gloria. Si mostra come il teatro, con il suo contatto diretto con il pubblico, abbia una valenza ancestrale che conserva in maniera misteriosa anche quando è il cinema che lo mette in scena. Perché sicuramente questo è un film a cuore aperto in cui la speranza di poter rinascere dal liquido salvifico ma anche amniotico è dichiarata già in apertura ma è anche una matura e complessa riflessione sul cinema e sulla sua possibilità di esprimere ciò che può sembrare quasi indicibile.

LE TRE MUSE DI ALMODÓVAR.
Overview di Ilaria Ravarino
martedì 17 aprile 2018

Atteso al prossimo Festival di Cannes dopo aver convinto a fine marzo il pubblico spagnolo, Dolor y Gloria è il nuovo film di Pedro Almodóvar. Tornato al cinema a tre anni da Julieta, il regista spagnolo ha riunito sul set per l'occasione tre delle sue muse: Penelope Cruz, Antonio Banderas e la provincia di Valencia.

Il primo incontro tra Almodovar e Banderas risale ai primi anni Ottanta, epoca in cui l'attore frequentava con assiduità i corsi di teatro Centro Dramático Nacional di Madrid.

Ero in un bar del teatro, a prendere un caffè con alcuni colleghi, quando a un certo punto entra un tipo strano, con una magliettina attillata. Mi guarda e mi dice che ho una faccia da eroe romantico, e che dovrei fare cinema.
Antonio Banderas

Poco tempo dopo, nel 1982, quel "tipo" ingaggia Banderas per il suo primo film, Labirinto di passioni, offrendogli il ruolo di un terrorista omosessuale che rapisce una principessa. "Quello è Almodovar, ha fatto un film qualche tempo fa e non ne farà più", lo avevano avvertito i suoi colleghi prima che firmasse il contratto.

E invece quel film, per quanto bizzarro, fu il lancio della carriera di Banderas, presto seguito da altre collaborazioni con l'eccentrico Pedro: Matador (1986), La legge del desiderio (1987: primo bacio gay della storia del cinema spagnolo), Donne sull'orlo di una crisi di nervi (1988) e Legami! (1990). Dopo una pausa di quasi vent'anni, dovuta alla carriera hollywoodiana di Banderas, "bloccato" negli Stati Uniti dopo il matrimonio con Melanie Griffith - i due amici e colleghi sono tornati insieme nel 2011 con La Pelle che abito, e di nuovo nel 2013 con Gli Amanti passeggeri.

Per Dolor y Gloria, tra i film più autobiografici del regista, Almodovar ha scelto ancora una volta di rispecchiarsi nel "suo" Antonio: "Nessuno avrebbe potuto interpretare quel ruolo come lui - ha detto - Molte delle cose che racconto Antonio le ha vissute al mio fianco".

 
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Charlie says

Post n°15519 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Leslie Van Houten, detta Lulu, Patricia Krenwinkel detta Katie e Susan Atkins detta Sadie sono tre "Manson's Girls", ossia ragazze appartenute alla setta di Charles Manson, coinvolte nei suoi efferati crimini e condannate a lunghe pene dalla giustizia americana. Karlene Faith è una sorta di assistente sociale che opera nel carcere femminile dove le tre sono rinchiuse e si offre di lavorare con loro, cercando di fare quello oggi si definisce deprogrammazione. Le tre infatti, anche alcuni anni dopo la condanna, sono ancora incantate dalle parole di Manson, che ripetono a ogni occasione come un insegnamento di vita.

Charlie Says si pone così come una visione dell'altra faccia della medaglia, raccontando l'umanità soggiogata dalla setta, ma pure l'importanza che aveva la sorellanza femminile all'interno di quel microcosmo, una versione quindi femminista che naturalmente però non nasconde i crimini delle ragazze.

Diretto da Mary Harron, che con la sua carriera spesso relegata in TV testimonia la giustezza delle rivendicazioni del #timesup riguardo le poche possibilità concesse alle registe in quel di Hollywood, il film è sceneggiato dalla sua rodata collaboratrice Guinevere Jane Turner, con cui Harron aveva già lavorato in American Psycho e The Notorious Bettie Page.

Turner qui, oltre ad aver fatto lunghe ricerche ed essersi avvalsa di ben 20 fonti dirette, ha trovato una spinta verso l'autenticità anche nel proprio vissuto personale, di ragazza cresciuta in un culto. La sceneggiatrice aveva infatti raccontato la propria infanzia in un lungo articolo su "The New Yorker" intitolato appunto "My Childhood in a Cult", dove narrava gli undici anni passati con la famiglia al seguito della comunità di Mel Lyman, i cui seguaci erano convinti che un giorno sarebbero arrivati a vivere su Venere.

Le due autrici hanno scelto di ridurre la mistica intorno a Charles Manson scritturando per la parte Matt Smith, noto soprattutto per le serie Doctor Who e The Crown e di certo non il più carismatico né malefico degli attori. Infatti il suo Manson non ha alcuna grandeur ed è più che altro un invasato, non poco razzista, che fallisce nei propri sogni di gloria musicali e da lì in poi trascina il proprio gruppo in un crescendo di follia. Manson è descritto anche come misogino, ciò nonostante molte ragazze sono al suo seguito perché, al di là dei suoi momenti più brutali, le lascia libere di fare quello che vogliono e soprattutto di farlo insieme, fingendo di rispettarle. Nelle giovani che sono al suo fianco la possibilità di avere un ruolo del genere appare irresistibile, tanto che lo sopportano anche quando le umilia o diventa manesco, del resto Manson amava umiliare anche i maschi, come si racconta nella storia di Tex Watson, qui interpretato dal belloccio Chace Crawford (Gossip Girl).

 
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Io sono tempesta

Post n°15518 pubblicato il 02 Gennaio 2020 da Ladridicinema
 

Il finanziere Numa Tempesta sta per avviare un grande progetto immobiliare in Kazakistan. Ma proprio al momento di chiudere le trattative con gli investitori internazionali i suoi avvocati lo informano che dovrà scontare una condanna per frode fiscale: non in carcere, che gli avvocati sono riusciti ad evitargli, ma prestando servizi sociali presso un centro di accoglienza. Passaporto e cellulare gli vengono ritirati da Angela, che gestisce il centro, e Numa è adibito a vari compiti di assistenza - compreso quello di tenere puliti i bagni comuni.
La parabola di Tempesta è dichiaratamente ispirata a quella di Silvio Berlusconi, ma lo sviluppo del personaggio ha più a vedere con la commedia all'italiana che con l'attualità politica (anche se nella realtà spesso le due si sovrappongono).

Nelle intenzioni di Daniele Luchetti pare esserci il ritratto di un Paese che sta cambiando pelle ma che rimane ben ancorato ai suoi peggiori difetti: il qualunquismo, la rincorsa della ricchezza facile, e quella corruttibilità secondo cui tutti, nessuno escluso, hanno un prezzo.

La commedia all'italiana classica però, pur raccontando un'amoralità diffusa, fustigava i suoi personaggi. Numa invece finisce per apparire migliore degli ospiti del centro di accoglienza, fra cui Bruno, un padre che ha perso tutto tranne il figlio, e Angela, il personaggio più incoerente della storia: è impossibile dettagliare la repentinità delle sue contraddizioni senza svelare le svolte della trama.

Il personaggio meglio riuscito è quello di Nicola, il figlio di Bruno, grazie anche alla bellissima interpretazione di Francesco Gheghi, cui per fortuna manca la piacioneria televisiva che caratterizza molti dei giovanissimi attori italiani. Nicola incarna credibilmente l'amara consapevolezza di una situazione pesantemente compromessa, e la capacità di fare ciò che si deve in un mondo in cui ognuno fa come gli pare. Il trio di studentesse di psicologia appartiene invece ad un altro film, potenzialmente molto divertente e politically incorrect.

UNA FARSA SOCIALE, UN'OPERA BUFFA, UNA COMMEDIA INVERNALE SUL POTERE DEL DENARO.
Overview di Paola Casella
venerdì 30 marzo 2018

Numa Tempesta è un facoltoso imprenditore che possiede aerei privati, terreni, alberghi e un lussuoso yacht da sessanta metri. Ma a causa di una condanna per frode fiscale, che lui liquida come: "Stronzate, cose che in Italia non contano, fanno curriculum", dovrà scontare un anno ai servizi sociali, pulendo le latrine in un centro di accoglienza e adoperandosi per un gruppo di "poveracci" che faranno rapporto sul suo operato. Tempesta dovrà dimostrare verso di loro quell'empatia che non prova per nessuno - nemmeno per se stesso.

Otto anni dopo La nostra vita, Daniele Luchetti torna a raccontare l'Italia di oggi attraverso un personaggio che potrebbe fare riferimento non puramente occasionale ad un ex presidente del Consiglio.

Io sono Tempesta "è una farsa sociale, un'opera buffa, una commedia invernale sul potere del denaro", ha dichiarato Luchetti al quotidiano Repubblica. "Lontana, ma solo per essere più libera, dai fatti di cronaca e dal dovere di essere verosimile, vuole raccontare, sorridendo e con un tono di fiaba, una fetta di Italia che il nostro cinema affronta sempre col tono serio del cinema del dolore".

Nel ruolo di Tempesta c'è Marco Giallini, la cui presenza carismatica è perfetta per conferire ad un "pezzo di malacarne" una irresistibile qualità umana. Accanto a lui Elio Germano che, dopo la Palma d'oro per la sua interpretazione ne La nostra vita, si cimenta ora con l'ambiguo ruolo di Bruno, un padre travolto dalla crisi e costretto a rifugiarsi con il figlio nel centro di accoglienza cui è stato assegnato l'imprenditore.

 
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