Creato da cloudonmyhead il 27/07/2009
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Messaggi di Maggio 2012
La sofferenza fiacca il corpo e lo spirito. Ovviamente a chi la subisce, ma anche a coloro che la guardano da fuori, sentendosi impotenti in ogni momento di dolore che scandisce il tempo della morte. Toglie la dignità. Ti lascia spoglio e tremante come un animale scampato ad un disastro. Perché tale ti senti: qualcosa di speventoso ti ha colpito da vicino, non così vicino da annientarti, ma abbastanza per lasciarti cicatrici indelebili negli occhi e sul cuore.
Vorresti poter essere dio, o qualcosa di molto vicino al concetto di dio. Spegnere quel residuo di vita che non è più vita, in virtù di una pietas umana che dio spesso non conosce. Vorresti poter rispondere alle domande che ti girano nella mente, capire perché siamo destinati al dolore solitario e inutile dell'agonia. E magari con una di quelle risposte sollevare il corpo dolente e macerato dalla malattia con braccia forti e sicure, ed elevarlo al ruolo di anima, di puro spirito.
Ecco, così dovrebbe essere il trapasso. Non un contorcersi nel dolore senza senso e senza amore.
Non scegliamo davvero quasi nulla in questa vita. Spesso ci limitiamo a percorrere strade che altri hanno solcato per noi, figurarsi poi se possiamo scegliere come morire. Ma dovremmo potere. Dovremmo poter dire che non la vogliamo la sofferenza sterile del dolore senza scampo. Dovremmo poter scegliere la nostra personale forma di pietas umana.
Almeno questo anelito di dignità dovremmo poterlo avere.
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Mentre me ne sto qui, ripiegata su me stessa in ascolto della vita che cresce, c'è una vita vicino a me che lentamente si spegne. L'entusiasmo ha lasciato il corpo, la forza se ne va un pochino ogni giorno, il viso, trasfigurato, non ha più colori, persino gli occhi sono liquidi, lontani, persi in un altro mondo, in una nuova storia.
Questa volta, guardare l'esistenza che si spegne, è un dolore lontano. Sordo e attutito. La vita che ho dentro mi rende in qualche modo impermeabile. Ha esteso una corazza intorno al mio corpo e quasi nulla riesce a penetrarla e a incidermi la carne.
Amore mio. Vorrei poterti inglobare in questa corazza. Sollevarti da quel battere sordo che hai nelle tempie e dalle lacrime che ti crescono negli occhi e portarti qui, nel mio mondo di sole, dove il battito di un piccolo cuore ammutolisce ogni altro suono, dove la luce che non si vede offusca tutte le altre. Non sono capace di farlo e tu non mi lasci leccare abbastanza il tuo dolore per poterlo lenire.
Prima di avere un figlio, non c'è niente di più terribile che vedere un genitore lasciarci.
Siamo accomunati da uno strano destino noi due: tua madre sta morendo nel corpo e la mia, invece, muore nella mente. La nostra bambina non avrà nonne che la vizieranno quando non guarderemo, nessuno le comprerà un gelato prima di cena e la coccolerà quando si sbuccerà le ginocchia.
Avrà foto da guardare e fiori da posare per imparare a riconoscere le sue radici. Saremo noi a doverle innaffiare, perché non muoiano e lei non perda la sua storia.
Sarà un fuoco che toccherà a noi tenere vivo. E ci riusciremo.
Te lo prometto.
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Se oggi dovessi fare un bilancio della mia vita, mi scoprirei molto più donna e meno ragazza di un tempo. Più cinica e meno incline al perdono.
Di buono c'è che mi prendo meno sul serio, sorrido e rido di più, fottendomene delle rughe che così solcheranno il mio viso.
Certo non entro più nei miei pantaloni bianchi taglia 42 (e sospetto che non ci entrerò nemmeno dopo aver sfornato l'erede), non sopporto i tacchi alti e le lenti a contatto per 12 ore di fila e non prendo un aereo ogni tre giorni. Ma in compenso non sono costretta a sorridere a merde travestite da uomini di potere, non devo sentirmi chiamare velina e percepire i loro occhi sul culo mentre passo da una stanza all'altra.
Guadagno meno, me la godo di più. Vedo i miei genitori quasi tutti i giorni, seguo l'incedere dei loro anni guardando le loro schiene ingobbirsi impercettibilmente ancora un po’. Dedico più tempo agli amici, bevo molto meno e non piango più se sono brilla.
Amo la mia casa, che finalmente sento casa. Ho imparato a cucinare senza per forza dover scongelare un piatto già pronto. Esco dall'ufficio quando ancora c'è luce fuori e mi resta tempo per fare la spesa, qualche pulizia o anche solo per spiaggiarmi sul divano a limarmi le unghie.
Abbraccio mio marito con amore e non più solo con affetto, la sua spalla sotto la mia testa è casa e rifugio e profumo di pelle sbarbata e tabacco.
Non mi importa di fare carriera, mi interessa di più costruire rapporti che durino nel tempo, che vadano oltre una stretta di mano ed un caffè al tavolo di una sala riunioni. Rapporti fatti di panchine al sole, dehors estivi nel centro città, telefonate chilometriche, sguardi che parlano, mani che toccano cuori duri e feriti.
Lecco ancora le mie ferite e sto più attenta a non procurarmene altre, ché esiste un tempo per l’autolesionismo e non è questo il mio.
Faccio voli pindarici che mi sbattono a terra. Ma mi rialzo dopo ogni caduta, butto le spalle indietro, raddrizzo la schiena, mi asciugo le lacrime e ricomincio il cammino. Questo non è cambiato: sono ancora come Wile Coyote.
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