I proiettori li illuminano alternativamente, Raffaello Beggiato e Silvano Contin. E alternativamente essi raccontano la propria storia. Condannato all'ergastolo per aver ucciso la moglie e il figlio di Contin durante una rapina effettuata con un complice, Beggiato s'ammala di cancro e, allo scopo di ottenere la grazia, chiede il perdono di Contin. E Contin glielo concede allo scopo di ottenere dalla madre di Beggiato il nome del complice del figlio, mai preso, e di poter compiere, così, la vendetta covata da sempre, ammazzando il contumace e la moglie.
Avete capito, insomma. «Oscura immensità», lo spettacolo in scena al Bellini, è qualcosa di molto schematico e che, peraltro, sconta pesantemente la sua origine letteraria. Infatti, il testo, di Massimo Carlotto, si riduce a un riassuntino (dura meno di un'ora e mezzo) del suo romanzo «L'oscura immensità della morte». E il ponderoso tema proposto (chi è più colpevole, il carnefice di un momento o la vittima che a poco a poco diventa lei stessa carnefice?) s'arena, come s'è visto, in una sorta di partita di tennis fra i due monologhi in questione.
In breve, e per usare un generoso eufemismo, qui di teatro vero ce n'è poco. E inutilmente la regia di Alessandro Gassmann (il quale, nel frattempo, ha deciso di ripristinare la doppia «n» del suo cognome autentico) tenta di attenuare - con proiezioni su un velatino d'immagini survoltate di commento, foto degli uccisi o, persino, granguignolesche colate di sangue - la monotonia di quei rimbalzi di dolori e rancori da un lato all'altro del palcoscenico e dall'uno all'altro degl'interpreti.
Questi ultimi, poi, non mi pare che vadano assai oltre la professionalità e l'impegno. Comunque, meglio Claudio Casadio (Beggiato) che Giulio Scarpati (Contin). E pure con un simile dislivello c'entra il peso della letterarietà.
Beggiato è un personaggio già definito, confitto in quel presente che, lo ripeto per l'ennesima volta, rappresenta l'unica opzione consentita al teatro. Contin, invece, è un personaggio in divenire, e dunque vive di flashback che, per l'appunto, sul palcoscenico risultano ingombranti. È un problema che dovette affrontare anche un certo Ibsen.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 22 novembre 2012)
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