Creato da giulio.stilla il 21/04/2014
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LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO (2)

Post n°96 pubblicato il 03 Aprile 2017 da giulio.stilla

LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO   (2)

 

Gli argomenti a sostegno della dimostrazione dell’esistenza di Dio cadono, quindi, fuori della ricerca filosofica, che per definizione è la ricerca razionale dei fondamenti. Essi sono oggetto di indagine della Teologia razionale ovvero della Teodicea, elaborata per la prima volta da Goffredo Leibniz, filosofo razionalista e scopritore fra l’altro del cosiddetto “Calcolo Infinitesimale” per misurare le differenze infinitesime.

Discutere sulla esistenza di Dio e sulla sua bontà è legittimo come è legittimo discutere sulla sua non esistenza. Con la sola differenza che scommettere, direbbe Biagio Pascal, sulla esistenza di Dio è più vantaggioso ed utile per noi che asserire a priori la sua non esistenza. Oltre tutto, anche questa affermazione resta una mera ipotesi, che, come tutte le ipotesi, aspetta di essere verificata. E questo per rimanere fedeli ad una metodologia di natura scientifica. Se si sopravviverà alla propria dipartita, si avrà anche la cura di verificare.   

Nel frattempo, vita natural durante, non resta che sottolineare, sulle tracce della filosofia di Soren Kierkegaard, l'aspetto "assurdo" del Cristianesimo, che, come l'assurdo della vita di ognuno, può essere rischiarato, direbbe il cardinale Carlo Maria Martini, solo dalla prospettiva escatologica, cioè finalistica della storia, per reggere la quale occorre la fede, soltanto la fede, antidoto ad ogni disperazione e ad ogni angoscia. Assurdità, riflette il filosofo danese Kierkegaard, è l'essenza del Cristianesimo. Assurdo è che il figlio di Dio si lascia mettere in Croce da quattro sgherri; assurdo e folle è che Abramo si appresta ad uccidere il figlio Isacco, il suo unico figlio, in sacrificio a Dio; assurda è l'apparente solitudine dell'uomo nel dolore della storia. Ma l'uomo di fede, nonostante tutto, crede e scommette, perché alla fine di ogni assurdità una spiegazione razionale ci sarà. Una spiegazione razionale del Corso della Storia, non quella matematica e fisica, che non spiega i fini ultimi del destino dell'umanità e nemmeno il profondo senso immanente dell'Universo, forse nato dal Caos, ma si arresta a spiegare gli eventi e il possibile, quando questi si sono verificati. L'accaduto, proprio perché accaduto, reca con sé la spiegazione. Il matematico, per sua formazione, liquida semplicisticamente e spocchiosamente, ogni prospettiva finalistica, perché esclude a priori l'esistenza del mistero e, quindi, qualsiasi ipotesi di spiegazione. Contro lo stesso metodo galileiano, fatto di ipotesi e di verifiche, che ha sorretto fino ad oggi il lavoro complessivo della ricerca scientifica, lo scienziato non credente si priva del fascino del mistero, negando a se stesso ogni ipotesi di spiegazione.

Per mera ipotesi, quindi, se ammettiamo l’esistenza di Dio, dobbiamo ammettere, anche la sua “bontà”, perché sarebbe davvero assurdo ed inconcepibile asserire l’esistenza di un Dio malvagio, cinico e spietato, indifferente alla presenza del male nel mondo e alle grida di dolore che da sempre sono elevate a Lui dalla Umanità.

Anzi, il Dio dei Cristiani ha mandato in terra il suo Figliolo, perché condividesse in assoluto, tranne che nel peccato, la condizione drammatica dell’uomo, fino alla follia della Croce. Non sarebbe stato meglio per Dio e per gli uomini impedire l’insorgenza del male nel mondo, considerato che la sua Bontà, la sua Onnipotenza e la sua Prescienza erano certamente in grado di consigliarGli di muoversi in tal senso. Se non lo ha fatto e non lo fa, come noi uomini gridiamo, preghiamo ed imprechiamo, vuol dire che c’è una ragione che sfugge alle nostre capacità di comprensione.

Al cospetto rabbrividente dei genocidi perpetrati nella storia o difronte al dolore disperato di una madre che piange la morte del suo bimbo innocente per una malattia devastante, sorge spontanea la invocazione “oh! mio buon Dio, se ci sei, aiutaci”. Ma il Buon Dio non risponde o almeno così sembra, tanto da autorizzare i non credenti a dire che Dio non risponde, perché molto semplicemente Dio non esiste.

Intanto, per l’uomo di fede, non è vero che Dio non risponde. Le sacre Scritture e la vita quotidiana sono cosparse di esempi degli interventi miracolosi e risolutivi della Misericordia di Dio a cominciare dalla Resurrezione di Lazzaro di fronte al pianto disperato della sua sorella Marta.

Ma torniamo ai filosofi della Teodicea, a cominciare da Sant’Agostino e da Goffredo Leibniz, che amano distinguere tre tipi di male nel mondo per allontanare la idea che Dio non esiste o, se esiste, la idea della sua malvagità e cinismo, in contraddizione, del resto con il concetto stesso di Dio, che per definizione non può che essere buono.

Ritengono i filosofi credenti che l’uomo vive ontologicamente la sua finitudine. Essendo stato creato finito, l’uomo per costituzione soffre i limiti del suo essere in questo mondo. Soffre la sua precarietà, la sua fragilità, la malattia dei suoi organi corporali, la stanchezza della sua spiritualità, il tedio, la noia, lo smarrimento della sua identità, soffre, insomma, la sua finitezza. Se si fosse creato da solo, certamente si sarebbe creato perfetto, senza alcuna anomalia o debolezza strutturale.

E questo è un altro motivo in più a sostegno della tesi di coloro che ritengono che l’uomo sia stato creato da un Ente Infinito e non da un essere finito, come amano sostenere i fautori della tesi che l’uomo, come del resto tutti i viventi, è l’anello finale di una lunghissima catena di evoluzione, la quale, a mio modesto parere, se fosse dettata da cause, anch’essa evoluzione dovrebbe, a rigore del pensiero debole, rimandare ad una programmazione.

In altri termini, anche il divenire dovrebbe avere origine da un progetto, elaborato da una Intelligenza, che non possiamo reputare finita, perché il finito non nasce dal finito, come l’ordine non nasce dal disordine, l’armonia universale dal Caos. Prendete le lettere dell’alfabeto, diceva un simpatico Pensatore, gettatele per un numero infinito di volte per terra ed aspettate che venga fuori la Divina Commedia. Forse, può darsi che per il calcolo delle probabilità si potrebbe verificare anche questo portento, ma, secondo me, è più facile pensare che l’Ordine sia stato progettato, voluto ed eseguito da una mirabile Coscienza Infinita e Trascendente anziché da un inimmaginabile Disordine originario, da un Caos incomprensibile, spoglio di Intelligenza e privo della coscienza dei fini.    

Sono questi i motivi che ci inducono a pensare che l’uomo sia stato creato da una Intelligenza Infinita, senza sollevare scandalo o mordace ironia per tutte quelle intelligenze finite, non in linea con questi filoni di pensiero, ma incapaci pur esse di dimostrare il contrario.

L’uomo è stato creato così com’è, con la morte che incombe sulla testa di ognuno. E’ il nostro male ontologico o metafisico, come riflettono Sant’Agostino e Goffredo Leibniz. L’uomo è un essere finito, ma con un’ansia di Infinito, cioè mosso per tutta la sua esistenza dall’ansia, dalla volontà, dalla bramosia di tendere all’Infinito. Si adopera in mille modi per superare i suoi limiti fisici e spirituali.  Si ingegna, nel senso che tormenta il suo ingegno, il suo talento, in fatiche sovrumane per procedere oltre l’orizzonte del finito. Ma resta sempre al di qua degli ostacoli, che sono infiniti. La vita di ognuno è “streben” ovvero “sforzo” per rendere reale la propria libertà dai bisogni e costruirsi come affermazione morale nell’azione e nella conoscenza, così come pensa un altro grande filosofo tedesco, Giovanni Amedeo Fichte, l’iniziatore del Romanticismo filosofico, assetato di Infinito.

L’uomo non cede alla rassegnazione. Deve affermare la sua libertà, la libertà dai limiti, anche se in questi sforzi sovrumani puntualmente cade all’indietro per ricominciare da capo. E’ la sua natura di essere stato creato libero. La libertà è l’essenza costitutiva della sua esistenza. La libertà è la sua Umanità. La libertà è il contrassegno fondamentale della sua nobiltà, quando essa si realizza come Umanità.  La nobiltà dell’uomo è la sua libertà, che realizza nella di lui esistenza le sua essenza, cioè la sua Umanità. L’uomo non è infinito, ma è stato creato per l’Infinito. Ad Deum creatus, pensa Biagio Pascal.  (CONTINUA)

 
 
 

LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO (1)

Post n°95 pubblicato il 02 Aprile 2017 da giulio.stilla

LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO    (1)

 

Ricercare per via razionale la spiegazione della presenza del male nel mondo come hanno tentato di fare 2000 anni di filosofia è una impresa tanto difficile quanto impossibile. Eppure su questa strada si sono messi in cammino straordinarie intelligenze senza approdare, in verità, a risposte e criteri logici e persuasivi. Il filosofo tedesco Goffredo Leibniz, scrivendo l’opera Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal e cioè “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male”, pubblicata ad Amsterdam nel 1710, intendeva rispondere al filosofo francese Pierre Bayle, morto nel 1706, che, con il suo Dictionnaire historique et critique, “Dizionario storico e critico”, sosteneva la tesi che non è umanamente razionale ammettere la esistenza del Dio unico, Sommo Bene, Onnipotente ed Onnisciente, che avrebbe creato l’uomo, dotato di libertà, pur sapendo in anticipo che avrebbe fatto del male a se stesso e agli altri. In altri termini, per il filosofo francese ci si pone in patente contraddizione ammettere contemporaneamente la suprema Bontà di Dio e la sua Prescienza, cioè la sua consapevolezza che l’uomo sarebbe stato una sorgente non solo di bene ma anche di male in forza della sua libertà.

Leibniz, invece, sostiene esattamente il contrario e, cioè, che non c’è contraddizione nel sostenere la esistenza della Bontà e della Prescienza di Dio e la Libertà dell’uomo, a cui il filosofo tedesco, sulle orme di Sant’Agostino, fa risalire l’origine del male nel mondo.

Il titolo della sua Opera di Teodicea, termine che fu coniato da Leibniz  -  (dal greco: ϑεός – théos: «dio» e δίκη – dìke: «giustizia») - intende dimostrare la conciliabilità della somma bontà di Dio con la libertà dell’uomo e la presenza del male nel mondo.

Egli parte dalla distinzione già pensata dal Santo d’Ippona sulle tre forme di male:

a)    Male ontologico o metafisico;  (Proprio della creatura)

b)   Male morale;  (Il peccato)

c)    Male fisico.  (La conseguenza del peccato)

Per ambedue i filosofi, uomini di fede e di santità, il Male ontologico non esisterebbe e, quindi, non sarebbe stato creato da Dio. Questo tipo di male, cioè, non avrebbe sostanzialità, nel senso che non avrebbe una sostanza ontologica originaria, creata come gli altri Enti, da un presunto Dio malvagio e, come tale, in contraddizione con il concetto di Dio, che per definizione non può non essere che Sommo Bene e Perfezione Assoluta.

Se il male metafisico non può esistere come “sostanza”, esiste però come “mancanza”, come “mancanza” di Bene. Gli Enti esistenti, cioè, compreso l’essere “uomo”, non sono Enti infiniti, ma finiti. Sono stati creati con una serie di limiti strutturali, non valicabili né dalla intelligenza né dalla volontà né dall’istinto. Se fosse stata possibile l’autocreazione, l’uomo si sarebbe creato infinito, senza limiti e senza fragilità.

Il finito, quindi, per sua natura e per richiamo dialettico si relaziona all’infinito, la creatura al Creatore, il relativo all’Assoluto, il contingente all’Eterno. Potrebbe sembrare un mero esercizio retorico, ma se la logica dell’uomo ha un senso, necessariamente essa è la manifestazione più evidente di un rapporto concreto ed ontologico tra l’uomo e Dio, tra il Mondo creato e l’Autore del Creato, tra il finito e l’Infinito. Come per logica matematica 2 + 2 fanno 4, e cioè due patate + altre due patate fanno 4 patate, così per deduzione logica l’effetto ha una causa, il risultato presuppone un’azione, l’oggetto di un’azione rimanda ad un soggetto agente, sulla cui natura possiamo discutere quanto vogliamo, ma, di certo, dobbiamo ammettere la sua esistenza.

Condivido in forma totale la critica rivolta da Kant alle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, ritenute dal filosofo di Konigsberg del tutto insufficienti a dedurre una realtà ontologica dall’analisi di un semplice concetto logico, come argomentavano Sant’Anselmo prima e poi Cartesio.

La verità, obietta Kant, è che non si può saltare dal piano mentale a quello reale senza passare attraverso l’esperienza. Quando noi abbiamo definito tutte la proprietà di “cento talleri”, dice Kant, resta da dimostrare che essi esistono. E questo può accadere solo attraverso la verifica dettata dall’esperienza. Non è sufficiente “pensare” i cento talleri, cioè avere di essi un “concetto”, per possederli realmente in saccoccia.

Così sul piano logico noi possiamo pensare tutte le perfezioni di un concetto, ma questo non significa che quelle perfezioni esistono realmente sul piano ontologico. Una dimostrazione tradizionale, quindi, dell’esistenza di Dio è scientificamente impossibile. La riflessione del filosofo non fa una grinza.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio non è la formulazione di un giudizio analitico a-priori, all’interno del quale la verità del concetto del predicato è tutta contenuta nell’analisi del concetto del soggetto. Nel concetto di Dio non c’è la sua esistenza. La idea di Dio non garantisce la sua reale esistenza. Noi di Dio possiamo predicare tutti i possibili predicati, ma alla fine la sua esistenza aspetta ancora di essere dimostrata. “Dio esiste”, non è una proposizione “identica”, direbbe Leibniz, poiché il concetto di esistenza non è racchiuso nel concetto di Dio. Il concetto del predicato non è deducibile dal concetto del soggetto, come nella proposizione “il triangolo ha tre angoli”. Questa, assevera Kant, non aumenta la nostra conoscenza di un millesimo di millimetro. E’ semplicemente un giudizio analitico a priori, poiché dall’analisi del concetto del soggetto deduciamo il concetto del predicato del tutto identico al primo. Ma il concetto del predicato non aggiunge nulla di nuovo al concetto del soggetto, il quale, per il principio d’identità, è anche il soggetto di un giudizio universale e necessario, perché tutte le menti, dotate di raziocinio, sono capaci di questa analisi. Ma è un giudizio sterile, perché non fa crescere la nostra conoscenza.

Per la dimostrazione dell’esistenza di Dio abbiamo bisogno di un giudizio scientifico, che kantianamente deriva dalla sintesi di due elementi fondamentali: la materia e la forma. Per materia deve intendersi l’oggetto dato dall’esperienza, senza la quale non si va da nessuna parte, e per forma deve intendersi l’elemento universale che ci deriva dai “giudizi sintetici a priori”, senza i quali non esistono giudizi scientifici.

La proposizione “Dio esiste” non è un giudizio scientifico, perché la esistenza di Dio non la possiamo ricavare dall’analisi del semplice concetto, ma non è nemmeno un “giudizio sintetico a posteriori”, perché della esistenza di Dio mai nessuno ha fatto reale esperienza. Potrebbe essere un “giudizio sintetico a priori”, se identificassimo Dio con la causa dell’esistenza del Mondo. Ma se aspettiamo la dimostrazione della esistenza di Dio, come possiamo erigere Dio a causa del mondo? Tutti gli uomini sanno a priori che “ogni evento ha una causa” e che non esistono eventi incausati. Ma questo non significa che Dio sia la causa del Mondo. Tutti gli eventi hanno una causa e capitano nel tempo e nello spazio, ma la causa di tutti gli eventi va sempre ricercata nell’esperienza e nel tempo e nello spazio. Dedurre l’esistenza di Dio dall’esistenza del mondo è un passaggio indebito e privo di capacità dimostrativa. Ecco perché, riflette Kant, anche la prova cosiddetta cosmologica o causalistica, che dir si voglia, di origine tomistica, è una prova del tutto simile a quella ontologica. Si parte cioè dal concetto di Dio per dimostrare la sua esistenza già presupposta dal concetto stesso. E’ un ragionamento ingannevole e privo di fondamento.

Asserire, quindi, l’esistenza di Dio per via razionale non è affatto possibile. La proposizione “Dio esiste” è una mera ipotesi, che aspetta di essere verificata, così come tutte le teorie pensate, prima di diventare scientifiche, sono sottoposte galileianamente a sperimentazioni o, se si preferisce, restano valide fino a dimostrazione “popperiana” della loro fallibilità. La teoria della relatività, pensata da Albert Einstein, sarebbe rimasta una pura teoria, se non fosse stata verificata dalla misurazione matematica dei fenomeni.   (CONTINUA)

 

 
 
 

LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO (1)

Post n°94 pubblicato il 02 Aprile 2017 da giulio.stilla

LA PRESENZA DEL MALE NEL MONDO    (1)

 

Ricercare per via razionale la spiegazione della presenza del male nel mondo come hanno tentato di fare 2000 anni di filosofia è una impresa tanto difficile quanto impossibile. Eppure su questa strada si sono messi in cammino straordinarie intelligenze senza approdare, in verità, a risposte e criteri logici e persuasivi. Il filosofo tedesco Goffredo Leibniz, scrivendo l’opera Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal e cioè “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male”, pubblicata ad Amsterdam nel 1710, intendeva rispondere al filosofo francese Pierre Bayle, morto nel 1706, che, con il suo Dictionnaire historique et critique, “Dizionario storico e critico”, sosteneva la tesi che non è umanamente razionale ammettere la esistenza del Dio unico, Sommo Bene, Onnipotente ed Onnisciente, che avrebbe creato l’uomo, dotato di libertà, pur sapendo in anticipo che avrebbe fatto del male a se stesso e agli altri. In altri termini, per il filosofo francese ci si pone in patente contraddizione ammettere contemporaneamente la suprema Bontà di Dio e la sua Prescienza, cioè la sua consapevolezza che l’uomo sarebbe stato una sorgente non solo di bene ma anche di male in forza della sua libertà.

Leibniz, invece, sostiene esattamente il contrario e, cioè, che non c’è contraddizione nel sostenere la esistenza della Bontà e della Prescienza di Dio e la Libertà dell’uomo, a cui il filosofo tedesco, sulle orme di Sant’Agostino, fa risalire l’origine del male nel mondo.

Il titolo della sua Opera di Teodicea, termine che fu coniato da Leibniz  -  (dal greco: ϑεός – théos: «dio» e δίκη – dìke: «giustizia») - intende dimostrare la conciliabilità della somma bontà di Dio con la libertà dell’uomo e la presenza del male nel mondo.

Egli parte dalla distinzione già pensata dal Santo d’Ippona sulle tre forme di male:

a)   Male ontologico o metafisico;  (Proprio della creatura)

b)   Male morale;  (Il peccato)

c)Male fisico.  (La conseguenza del peccato)

Per ambedue i filosofi, uomini di fede e di santità, il Male ontologico non esisterebbe e, quindi, non sarebbe stato creato da Dio. Questo tipo di male, cioè, non avrebbe sostanzialità, nel senso che non avrebbe una sostanza ontologica originaria, creata come gli altri Enti, da un presunto Dio malvagio e, come tale, in contraddizione con il concetto di Dio, che per definizione non può non essere che Sommo Bene e Perfezione Assoluta.

Se il male metafisico non può esistere come “sostanza”, esiste però come “mancanza”, come “mancanza” di Bene. Gli Enti esistenti, cioè, compreso l’essere “uomo”, non sono Enti infiniti, ma finiti. Sono stati creati con una serie di limiti strutturali, non valicabili né dalla intelligenza né dalla volontà né dall’istinto. Se fosse stata possibile l’autocreazione, l’uomo si sarebbe creato infinito, senza limiti e senza fragilità.

Il finito, quindi, per sua natura e per richiamo dialettico si relaziona all’infinito, la creatura al Creatore, il relativo all’Assoluto, il contingente all’Eterno. Potrebbe sembrare un mero esercizio retorico, ma se la logica dell’uomo ha un senso, necessariamente essa è la manifestazione più evidente di un rapporto concreto ed ontologico tra l’uomo e Dio, tra il Mondo creato e l’Autore del Creato, tra il finito e l’Infinito. Come per logica matematica 2 + 2 fanno 4, e cioè due patate + altre due patate fanno 4 patate, così per deduzione logica l’effetto ha una causa, il risultato presuppone un’azione, l’oggetto di un’azione rimanda ad un soggetto agente, sulla cui natura possiamo discutere quanto vogliamo, ma, di certo, dobbiamo ammettere la sua esistenza.

Condivido in forma totale la critica rivolta da Kant alle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, ritenute dal filosofo di Konigsberg del tutto insufficienti a dedurre una realtà ontologica dall’analisi di un semplice concetto logico, come argomentavano Sant’Anselmo prima e poi Cartesio.

La verità, obietta Kant, è che non si può saltare dal piano mentale a quello reale senza passare attraverso l’esperienza. Quando noi abbiamo definito tutte la proprietà di “cento talleri”, dice Kant, resta da dimostrare che essi esistono. E questo può accadere solo attraverso la verifica dettata dall’esperienza. Non è sufficiente “pensare” i cento talleri, cioè avere di essi un “concetto”, per possederli realmente in saccoccia.

Così sul piano logico noi possiamo pensare tutte le perfezioni di un concetto, ma questo non significa che quelle perfezioni esistono realmente sul piano ontologico. Una dimostrazione tradizionale, quindi, dell’esistenza di Dio è scientificamente impossibile. La riflessione del filosofo non fa una grinza.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio non è la formulazione di un giudizio analitico a-priori, all’interno del quale la verità del concetto del predicato è tutta contenuta nell’analisi del concetto del soggetto. Nel concetto di Dio non c’è la sua esistenza. La idea di Dio non garantisce la sua reale esistenza. Noi di Dio possiamo predicare tutti i possibili predicati, ma alla fine la sua esistenza aspetta ancora di essere dimostrata. “Dio esiste”, non è una proposizione “identica”, direbbe Leibniz, poiché il concetto di esistenza non è racchiuso nel concetto di Dio. Il concetto del predicato non è deducibile dal concetto del soggetto, come nella proposizione “il triangolo ha tre angoli”. Questa, assevera Kant, non aumenta la nostra conoscenza di un millesimo di millimetro. E’ semplicemente un giudizio analitico a priori, poiché dall’analisi del concetto del soggetto deduciamo il concetto del predicato del tutto identico al primo. Ma il concetto del predicato non aggiunge nulla di nuovo al concetto del soggetto, il quale, per il principio d’identità, è anche il soggetto di un giudizio universale e necessario, perché tutte le menti, dotate di raziocinio, sono capaci di questa analisi. Ma è un giudizio sterile, perché non fa crescere la nostra conoscenza.

Per la dimostrazione dell’esistenza di Dio abbiamo bisogno di un giudizio scientifico, che kantianamente deriva dalla sintesi di due elementi fondamentali: la materia e la forma. Per materia deve intendersi l’oggetto dato dall’esperienza, senza la quale non si va da nessuna parte, e per forma deve intendersi l’elemento universale che ci deriva dai “giudizi sintetici a priori”, senza i quali non esistono giudizi scientifici.

La proposizione “Dio esiste” non è un giudizio scientifico, perché la esistenza di Dio non la possiamo ricavare dall’analisi del semplice concetto, ma non è nemmeno un “giudizio sintetico a posteriori”, perché della esistenza di Dio mai nessuno ha fatto reale esperienza. Potrebbe essere un “giudizio sintetico a priori”, se identificassimo Dio con la causa dell’esistenza del Mondo. Ma se aspettiamo la dimostrazione della esistenza di Dio, come possiamo erigere Dio a causa del mondo? Tutti gli uomini sanno a priori che “ogni evento ha una causa” e che non esistono eventi incausati. Ma questo non significa che Dio sia la causa del Mondo. Tutti gli eventi hanno una causa e capitano nel tempo e nello spazio, ma la causa di tutti gli eventi va sempre ricercata nell’esperienza e nel tempo e nello spazio. Dedurre l’esistenza di Dio dall’esistenza del mondo è un passaggio indebito e privo di capacità dimostrativa. Ecco perché, riflette Kant, anche la prova cosiddetta cosmologica o causalistica, che dir si voglia, di origine tomistica, è una prova del tutto simile a quella ontologica. Si parte cioè dal concetto di Dio per dimostrare la sua esistenza già presupposta dal concetto stesso. E’ un ragionamento ingannevole e privo di fondamento.

Asserire, quindi, l’esistenza di Dio per via razionale non è affatto possibile. La proposizione “Dio esiste” è una mera ipotesi, che aspetta di essere verificata, così come tutte le teorie pensate, prima di diventare scientifiche, sono sottoposte galileianamente a sperimentazioni o, se si preferisce, restano valide fino a dimostrazione “popperiana” della loro fallibilità. La teoria della relatività, pensata da Albert Einstein, sarebbe rimasta una pura teoria, se non fosse stata verificata dalla misurazione matematica dei fenomeni.   (CONTINUA)

 
 
 

DUE COMMENTI

Post n°93 pubblicato il 19 Febbraio 2017 da giulio.stilla

DUE COMMENTI

 

Don Salvatore Camillo, in data 26 gennaio u.s., riportava su FB la seguente riflessione del cardinale  Carlo Maria Martini:

 

“Senza uno sfondo escatologico, senza questa certezza del Signore che tornerà a giudicare la storia, non si capisce nulla del Cristianesimo, nulla della preghiera, nulla della provvidenza, nulla del complesso del divenire storico di questo mondo con tutte le sue assurdità, e non si capisce neanche il senso della vita e della morte di Gesù”.

 

 
 
 

COMMENTO ALL'ARTICOLO DEI DIEGO DALLA VALLE.

Post n°87 pubblicato il 28 Dicembre 2016 da giulio.stilla

                                                                                                                                                                 

 

CLAMOROSO DELLA VALLE: “I POLITICI SONO INUTILI, MESSI LÌ PER CASO: SU 6 MINISTRI 4 SONO IMBECILLI”

“Da quando ho iniziato a parlare del restauro del Colosseo, ho incontrato sei ministri. Di questi sei, almeno 4 erano imbecilli, persone inutili messe lì per caso”. E’ questa la caustica esternazione diDiego della Valle rilasciata al quotidiano britannico Financial Times, che continua così: “In Italia c’è una macchina amministrativa che da 30 anni, o forse di più, è così male amministrata che è più semplice per noi del settore privato dire: fatevi più in là, lasciate stare, ci pensiamo noi”

Nell’immaginario collettivo prende quindi forma il Della Valle prossimo leader di un progetto politico e annuncia che in ottobre verrà aperta a Milano la sede di “Noi Italiani”, un movimento che, stando alle parole delle stesso imprenditore, “mirerà a dare slancio all’imprenditoria e ad educare i più giovani sul tema della competitività”.

Noi Italiani non sarà un partito politico. “Non lo è. E’ oltre la politica” Nell’intervista al quotidiano britannico Della Valle ribadisce che il problema più grosso da scardinare è la cultura amministrativa italiana e l’equivoco sul ruolo dell’imprenditoria privata, che nella percezione comune è vista come egoista e interessata esclusivamente al profitto. ”Quello che voglio insegnare ai ragazzi, agli imprenditori di domani, è che è loro dovere restituire ciò che hanno, la Ferrari e il jet privato non sono tutto”.

fonte:www.ilgazzettino.it

                                                                                                                                                                 

                                                                                                                                                                Giulio Stilla 28 dicembre 2016 at 14:12

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Mi dispiace che Diego della Valle se ne sia avveduto soltanto in questi giorni, quando le politiche dei cialtroni e degli incompetenti hanno raggiunto il fondo dell’obbrobrio e del ridicolo. Questi nostri malviventi parlamentari hanno tutto l’interesse a perpetuare le povertà sociali e culturali in mezzo alle genti italiche, in particolare meridionali, perché sono astutamente consapevoli del fatto che, fino a quando il popolo grosso e crasso rimarrà nelle condizioni, in cui per trovare un posto di lavoro o la lusinga di trovarlo, dovrà farsi dipendere dalle cordate clientelari degli imbecilli delle politiche locali e regionali, che fanno poi capo a quelli nazionali, questi tutti godranno lunga vita, prima che ci sia l’estinzione della specie. La riprova di questo che affermo è data dalla proposta di fonte governativa di liquidare i parlamentari regnanti con una somma di 50.000 euro per consentire la fine della legislatura ed andare al voto prima del mese di settembre per le ragioni che tutti sappiamo. Altro che incompetenti, carissimo Della Valle: questi sono figli di buone mamme e dicono di amare il popolo bue, paziente e forte, perché spera sempre di migliorare la propria sorte in attesa di tempi migliori. Non illudiamoci più, perché questa classe politica degenere e degenerata da quella che ci ha governato con la “Prima Repubblica” ci porterà tutti in rovina. Non abbiamo più bisogno del “sol dell’avvenire”, ma di una rivoluzione culturale cha mandi oggi al patibolo, metaforicamente parlando, tutti i profittatori di regime e i malfattori che hanno depauperato l’Italia a partire dalla ripresa economica degli anni ’60. Persista pure, carissimo Della Valle, in questa azione di associare la dimensione culturale a quella della rivoluzione sociale, perché troverà quanto prima molte persone che la pensano come lei e come me, pronte a spendere con dignità ed impegno morale la propria esistenza. La saluto con vivissime cordialità.

 
 
 

LA RIVOLUZIONE CULTURALE OVVERO DEL CUORE E DELLA MENTE (4)

Post n°86 pubblicato il 15 Dicembre 2016 da giulio.stilla

LA RIVOLUZIONE CULTURALE ovvero DEL CUORE E DELLA MENTE       (4)   

 

C’è una sola strada da percorrere ed è quella della Scuola. Abbiamo bisogno di una Scuola seria, che s’impegni in una palingenesi delle future generazioni, nella radicalizzazione di un clima culturale e morale che si nutra quotidianamente dei contenuti educativi, sopra ricordati, e che spazzi via come monnezza le superficialità, i convincimenti sbagliati dei facili guadagni, le illusioni di cogliere miraggi e straordinari successi in tutti campi professionali, senza disporre di una sufficiente preparazione e con l’ausilio, ritenuto sempre efficace, della raccomandazione del solito cialtrone politico, sempre a disposizione in ogni angolo del Paese.

Anche per superare il test di ingresso alla facoltà universitaria occorre una spinta di lancio che appiani il divario fra lo studente preparato e quello non preparato.

Ma per avere una Scuola seria, che riformi la nostra società fatta di costumi sbagliati, lusinghe sociali e squalificati prodotti televisivi, bisogna disporre di Insegnanti seri e preparati, che non si trovano come cavoli al mercato della frutta e verdure, ma vanno reclutati come talenti sociali tramite l’investimento pubblico di stipendi dignitosi, simili o superiori a quelli che vengono pagati in Germania in ogni ordine e grado della Scuola di Stato. Un docente di scuola superiore di secondo grado guadagna, in Germania, mensilmente, nella media, oltre 4000 euro.  In Italia, 1500 euro.  Questa è, purtroppo, la Scuola italiana, che abbiamo ereditato da una visione sociale e sindacale della cosiddetta sinistra, impegnata a considerare la classe dei docenti un “personale”, parte dello stesso comparto in cui rientra il personale delle pulizie.

Personalmente, ancora tuttora, a distanza di otto anni dalla mia data di pensionamento, io mi sorprendo nel constatare come la maggior parte del cosiddetto “personale docente” della Scuola pubblica millantava e millanta di essere politicamente schierato “a sinistra”.  La spiegazione di questo tremendo psicodramma io la leggo, in verità, nel fatto che gli insegnanti, quelli maschili   -   e non le insegnati, quelle femminili, che hanno sempre trovato la loro compensazione economica nella famiglia   -    amano farsi chiamare “compagni”, prima che “professori”, perché devono pagare uno stupido tributo al convincimento di origine gramsciana, secondo il quale il vero intellettuale deve strutturarsi nell’area della sinistra politica, alla quale deve restare “organico” e per la quale deve lottare e portare a termine la “rivoluzione”.

La coscienza del delicatissimo lavoro dei Docenti, quindi, non è mai appartenuta né alla nostra classe dirigente né alle famiglie e nemmeno alla stessa Scuola che ha sempre preferito reclutare soggetti dotati di altre preparazioni, ma non di quelle didattiche, metodologiche, psicologiche e pedagogiche.

Questa stessa coscienza del dovuto riconoscimento economico del delicatissimo “mestiere” dell’Insegnante è spesso mancata alle rispettabili colleghe “donne”, quasi sempre soddisfatte del loro salario di operaie della scuola, perché inserite, quasi sempre, quali consorti, in rispettabili famiglie, il cui quoziente reddituale lasciava o lascia loro dormire sonni tranquilli.

 La crescente femminilizzazione, poi, della Scuola italiana, con tutto il rispetto e l’amore per le donne, ha finito per preoccupare recentemente molti pedagogisti e psicologi, attenti osservatori della età evolutiva dei ragazzi, dei quali molti hanno portato a termine la loro adolescenza, identificando nel ruolo della insegnante-donna la immagine del potere e della despota, in evidente contrasto con la immagine della mamma o della ragazza di cui innamorarsi. Anche un profano dei meccanismi insondabili della psiche del maschietto si accorgerebbe dei possibili rischi che sono sottesi alla sua crescita, quando la immagine della scuola d’infanzia è una donna, della scuola elementare è una donna, della scuola superiore di primo e secondo grado è una donna, e così via nelle Accademie e nelle Università.

Anche i Ministri della Pubblica Istruzione sono, in questi ultimi tempi, quasi sempre “donne”. L’ultima nominata dal neo-presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è una certa Valeria Fedeli, che succede alla Stefania Giannini, preceduta a sua volta da una certa Carrozza. E così, via via all’indietro, fino ad una certa Franca Falcucci, di cui ricordo, in particolare, che brillasse per le sue attitudini ad essere una affettuosa mamma di famiglia.

Mi sopravviene il sospetto che il Ministero che, in altri tempi, veniva assegnato a personalità dotate di grandissima cultura, come Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giuseppe Bottai, Giovanni Spadolini, ecc., ecc., oggi viene affidato a una persona qualsiasi, purché svolga un modestissimo ruolo all’interno di un Partito.  

Il lavoro dell’Insegnante non è una missione, può essere anche una missione, ma per la quasi totalità dei Docenti è simile a tutti gli altri lavori, i quali attraggono grandi intelligenze e meravigliosi talenti, solo perché sono superpagati. Desideriamo una Scuola di Stato dove lavorino personalità fortemente motivate? Paghiamo loro lauti stipendi e vedremo così, nel torno di qualche decennio, sfollare tutte quelle facoltà universitarie dove per entrarvi fanno a pugni e falsi ideologici.

 La ricerca dell’utile individuale, pensava Baruch de Spinoza, alla luce del realismo politico- economico, è alla base della ricerca dell’utile sociale. L’uomo morale, il bene che desidera per sé, lo desidera anche per gli altri. L’uomo morale è l’uomo sociale e viceversa. La Scuola è la fucina dove si costruisce e si tempra  quest’uomo. Investiamo, quindi, sulla Scuola, non a colpi di proclami e di menzogne, ma con serietà e lungimiranza, perché il farmaco per guarire la società ammalata è la ricostruzione della Scuola, non solo dalle macerie provocate dai terremoti ma anche dalle macerie provocate, con dolo ed insipienza dei governanti, per 70 anni, dalla indifferenza, dall’incuria, dalla irresponsabilità di una classe dirigente, impegnata nella corruzione dei costumi e dei valori sociali.

Costruiamo l’uomo attraverso la Scuola, dotandola di una nuova temperie culturale, quella del cuore e della mente, e avremo risolto tutti i guai di una società che ha smarrito il senso dell’imperativo morale e della responsabilità. L’uomo morale promuove e trascina lo sviluppo della società e da questa riceve gli stimoli adeguati a diventare sempre più uomo sociale. Impariamo la lezione di un altro grande filosofo dell’idealismo romantico tedesco, Giovanni Amedeo Fichte, il quale, nel suo scritto “Lezioni sulla missione del dotto” del 1794, argomenta con grande consequenzialità razionale sulla tesi che l’uomo di cultura, in particolare, ha la missione di moralizzare la società, lavorando per la libertà degli uomini. Il fine ultimo del “maestro di pensiero” è la libertà di tutti: libertà dalla ignoranza, dal male morale e dal male fisico, dall’astuzia e dalla ipocrisia, dalla tirannia del potere e dal fariseismo dei demagoghi. L’uomo di cultura ha un compito morale assai delicato ed essenzialmente pedagogico. Deve condurre gli uomini alla responsabilità personale e civile, promuovendo la loro educazione ai valori morali e sociali, con i quali si struttura la società, preparandola a vivere una rivoluzione culturale permanente, a cui ricorrere nei periodi di crisi. Perché anche le società degli uomini si corrompono, invecchiano e deperiscono.

L’uomo di pensiero non può in nessun modo suonare il piffero sotto il balcone del palazzo di Cesare, non può farsi strumento di questa o di quell’altra ideologia, perché la ideologia è la gabbia delle idee, uccide il pensiero e la libertà dell’intellettuale.

Questi per promuovere la libertà degli altri uomini non può privarsi della sua, mettendosi al servizio in maniera organica del potere politico o peggio ancora delle dittature, di qualsiasi tinta o provenienza speculativa.

L’uomo di pensiero deve educare alla libertà e alla fluidità delle idee, non irrigidirle o catturarle dentro le maglie di una rivoluzione ideologica e politica, che, ogni volta che è successa, si è svelata, nel tragico divenire storico degli eventi, sempre sanguinaria e negatrice dei diritti naturali di ogni esistenza.

I grandi cambiamenti epocali, nella storia degli uomini, non sono mai avvenuti attraverso le rivoluzioni ideologiche, portate a termine con gli strumenti rudimentali della falce e dei rastrelli o con la polvere da sparo dei moschetti o con le armi raffinate della nostra età. I grandi cambiamenti epocali si sono verificati con le rivoluzioni delle idee e non con la violenza cruenta e lo spargimento di sangue di centinaia di milioni di uomini, quasi sempre innocenti ed incolpevoli.

Il mondo, per rimanere nell’ambito della storia moderna, è stato cambiato in maniera duratura e radicale, molto di più e meglio dalle rivoluzioni culturali inglesi del XVII, XVIII e XIX secolo o ancor prima dalla Civiltà Comunale, dalle Repubbliche Marinare e dal Rinascimento in Italia, anziché dalla sanguinaria Rivoluzione Francese o da quella ancor più cinica e spietata Rivoluzione Sovietica del 1917.

Karl Marx aveva presagito con una lunga serie di scritti che la Rivoluzione Comunista sarebbe esplosa nella Inghilterra industriale del 1800, scoppiò invece nel Paese più arretrato dell’Europa, la Russia degli Zar   -   che non aveva mai conosciuto le libertà borghesi e che non conoscerà mai fino alla caduta del muro di Berlino, nel 1989  -   dove vigeva di fatto ancora la servitù della gleba e il tasso di analfabetismo si aggirava, nel 1917, intorno al 90%.

Certo, Lenin, Stalin, Kruscev o Maximilien de Robespierre, ucciso ghigliottinato egli stesso dal suo Terrore giacobino, sono rimasti nella Storia, come vanno dicendo i superstiti Comunisti italiani a proposito di Fidel Castro, scomparso recentemente.

Sono rimasti nella Storia ma non alla stessa maniera di Thomas Jefferson, di George Washington, di Abraham Lincoln o di Theodore Roosevelt.

Sono rimasti nella Storia ma non alla stessa maniera di San Francesco, di San Benedetto da Norcia o, molto più laicamente, alla maniera di Martin Luther King.

Quelli, maestri insuperabili del Terrore, hanno tenuto, per decenni, i loro popoli nella morte civile e nella fame materiale e spirituale con la promessa che sarebbe sorto il Sol dell’Avvenire.

Questi hanno gettato le fondamenta del progresso fisico e spirituale del mondo contemporaneo, hanno promosso le arti, le scienze e il commercio materiale e culturale fra gli Stati , hanno gettato le basi della recente globalizzazione, che, pure con tutte le contraddizioni transitorie, porterà presto al  progresso civile e alla fruizione del benessere occidentale in tutte quelle terre del Mondo, dove le popolazioni autoctone muoiono ancora di fame e di banali malattie o da dove scappano nell’Europa Occidentale o negli Stati Uniti, perché costrette dalle guerre intestine e dalla  disperazione.

Preferiscono morire nelle acque del Mediterraneo o sui confini fra il Messico e gli Stati Uniti, non certamente sulle sponde della romantica isola di Cuba.

Portiamo le nostre Scuole, le nostre Accademie, le nostre Università, le nostre botteghe artigiane in Africa e nel resto del Mondo non sviluppato, e avremo arrestato, in un futuro non molto lontano, i grandi flussi migratori, che nessun muro di sbarramento, per quanto alto e lungo possa essere, potrà mai scoraggiare.

Portiamo loro la nostra Rivoluzione Culturale, la nostra Rivoluzione illuministica in ogni campo della loro realtà, dall’Economia, dall’agricoltura alla industria, agli Ospedali, ai servizi, e avremo avviato quei processi di trasformazione sociale necessari per saltare da una organizzazione tribale a quella della società civile.

L’Italia, in particolare, per la sua posizione geopolitica, è chiamata dai futuri processi evolutivi a gettare i famosi Ponti sul continente dell’Africa, che per l’Europa intera potrebbe configurarsi una grande dimensione non solo morale e culturale, ma anche   economica dai risvolti inimmaginabili. C’è stato un tempo in cui tutti i Paesi d’Europa, nessuno escluso, sono corsi in Africa con i fucili e le baionette, con il frustino e le divise coloniali, per schiavizzare e sfruttarne le risorse naturali; oggi, è giunto il tempo in cui si deve andare in Africa per istruire, formare e costruire, attingendo ai propri bilanci nazionali e a politiche estere innovative, finalizzate alle capacità pervasive della cultura della pace e alla ricerca dell’utile reciproco e collettivo.

Non ci sono alternative a questi progetti, che, per quanto difficili possano sembrare, costituiscono realisticamente un percorso obbligato, a meno che non si desideri, con una sterminata dose di follia, già praticata nel secolo scorso, di dare inizio ad un apocalittico olocausto o ad altri diabolici programmi di annientamento. Per nulla remoti o impossibili, perché la demenza degli uomini è pari soltanto alla loro genialità.

Ma tornando al mio assunto iniziale, sono persuaso che nessuna grande Rivoluzione politica è possibile, in Italia, per distruggere la mala erba della corruzione, sempre infestante la nostra società sotto qualsiasi cielo politico, se prima non si passi a ricostruire l’uomo morale e a mettere in atto un’autentica Rivoluzione culturale, sostanza di ogni radicale cambiamento sociale.

Aveva ben dedotto nei suoi scritti giovanili l’ancor imberbe Hegel, che ebbe modo di leggere acutamente, con la saggezza del futuro grande filosofo, la realtà politica e sociale di quegli anni, in cui c’era un’ansia di libertà e di rinnovamento interiore degli uomini e dei popoli in maniera tale da trasformare dal profondo le Istituzioni sociali e le Costituzioni politiche degli Stati, congelate nei vecchi ordinamenti e nelle croniche diseguaglianze sociali.   

La rigenerazione interiore degli uomini a fondamento della rigenerazione esteriore dei popoli.

La rinascita morale delle persone a fondamento della rinascita dei costumi delle società.

La rivoluzione culturale della mente e del cuore a fondamento della Rivoluzione Politica.

 
 
 

LA RIVOLUZIONE CULTURALE OVVERO DEL CUORE E DELLA MENTE (3)

Post n°85 pubblicato il 10 Dicembre 2016 da giulio.stilla

LA RIVOLUZIONE CULTURALE ovvero DEL CUORE E DELLA MENTE     (3)

 

Sono parole e concetti già declinati da Socrate, il quale ci sorprende quando rapporta il suo razionalismo critico alla sua “divinità” interiore, al suo “daimon”, così come Sant’Agostino è il primo filosofo cristiano che richiama la sua fede a tendere al lume della ragione.

Fede e Ragione trovano nel pensiero del Santo d’Ippona la prima legittimazione a coesistere, assicurando al concetto dell’uomo l’armonia tipica della persona, intesa dalla Scolastica e da San Tommaso, in particolare, nella sua integralità: spirito e natura, cioè: sostanza individuale. “Sinolo”, diceva Aristotele.

E da Kant, che arricchisce il concetto, la persona è, soprattutto l’essere morale, cosciente di sé, libero e responsabile, fine e mai mezzo.

A questo tipo d’uomo tendeva la “paideia” di Socrate, cioè ad una educazione integrale e personale, che gettasse le basi per la rivoluzione morale e culturale come risposta al relativismo conoscitivo e morale in cui era caduta la polis greca con la degenerazione della sofistica, dopo l’umanismo di Protagora di Abdera.

A questo tipo d’uomo deve tendere la nostra società in profonda crisi etica, sociale e culturale, come risposta energica al gravissimo relativismo morale in cui sono immerse le nostre generazioni.

Questo uffizio, come si è detto dianzi, spetta principalmente alla Scuola, la quale non può arrancare di riforma in riforma senza dotarsi di una Idea Pedagogica, di una Paideia che dura nel tempo per la costruzione dell’uomo morale, consapevole di sé, libero e razionale, fine e mai mezzo nelle interconnessioni con gli altri uomini.

Formazione ed istruzione sono due facce della medaglia-Scuola. Se questa non respira giorno per giorno l’Ideale dell’Humanitas, non è una scuola completa e non costruisce l’uomo, l’uomo “sub specie aeternitatis”; se poi manca anche una istruzione rapportata ai tempi, la nostra Scuola è ancora più menomata e in forte ritardo rispetto allo sviluppo culturale degli altri popoli. E’ incapace di crescere perfino l’uomo richiesto dai nostri tempi contingenti: l’uomo “sub specie temporis”. La nostra classe dirigente, non soltanto quella politica, ma tutta la nostra classe dirigente, è stato stimato dagli Istituti preposti agli studi sociali, non dispone di buone competenze digitali. Manca una cultura digitale sufficiente e diffusa a qualsiasi strato della popolazione italiana. Ed oggi senza competenze digitali non si va da nessuna parte. La nostra pubblica Amministrazione è lenta e burocratica, soprattutto perché non dispone di quelle competenze informatiche obbligatoriamente presenti in altre Amministrazioni Pubbliche Europee.

Per tutto questo desidero, sentitamente, che le due gentilissime Ministre, quella dell’Istruzione, la prof.ssa Giannino, e quella della Pubblica Amministrazione, dott.ssa Madia, del Governo Renzi, che non c’è più, raggiungano ben altri lidi che non siano quelli della Penisola.

La nostra crisi sociale, quindi, proviene da lontano: è una crisi morale e culturale e, starei per dire anche religiosa, se solo mi ricordo delle omelie di Papa Francesco, che non perde occasione per condannare le pratiche religiose fondate più sull’esteriorità che sul sentimento della pietas cristiana e sulla semplicità del messaggio evangelico.

Risalendo l’aspra china della storia del pensiero occidentale mi piace cogliere, su questo versante della filosofia morale, senza pretesa di seguire una linea cronologica, ma così a caso, altre posizioni concettuali in sintonia con le riflessioni già esposte.

Penso ad Erasmo da Rotterdam, filosofo umanista olandese, vissuto a cavallo dei due secoli XV e XVI, contemporaneo di Lutero, di cui non condivise la sua Riforma Protestante. Ma per le sue idee sul decadimento morale della Chiesa di Roma, con pari vigore luterano e in contatto ideale con i Sapienti del mondo classico greco e romano, si fece promotore con i suoi scritti di una Rivoluzione Culturale, che concentrasse il suo impegno nel riscatto religioso, morale e politico della dignità dell’uomo.

La sua Opera principale, “L’ELOGIO DELLA PAZZIA”, è una satira rovente contro la decadenza dei suoi tempi, dei quali la “Follia”, resa persona, tesse le lodi e la illusione per nascondersi la brutale e squallida realtà, in cui si crogiolava irresponsabilmente la società del ‘500, tanto simile a quella nostra, che una comune follia politica si ostina ad affermare come la più bella, la più colta, la più emancipata, la più preparata.

La migliore di quelle possibili.   

Per la sua rilevante cultura sopranazionale, il nome di Erasmo, associato a quello di Socrate, SOCRATES/ERASMUS, è stato impiegato, nei nostri anni, per definire il Programma per la formazione e la istruzione degli studenti universitari nel contesto europeo. Felice a me sembra essere stata la intuizione di chi, per primo, concepì l’idea di accostare il nome di Socrate a quello di Erasmo, la Humanitas dell’ Antichità greca e latina alla Pietas del Cristianesimo, la Religione Cristiana alla Filosofia dell’Esistenza. Un concetto, questo, che ritornerà più tardi, nell’800, con la riflessione di Soren Kierkegaard sull’Esistenza, interpretata dal filosofo danese quale immagine speculare della Fede, come contraddizione, assurdità, scandalo.

La Vita è come la Fede, bisogna amarla anche quando ci sorprende per la sue assurdità e contraddizioni, ma bisogna anche illuminarla con la luce della ragione, unica guida per cambiarla, innovarla o rivoluzionarla soprattutto nei tempi di crisi sociale e morale.

Su questi filoni di pensieri umanistici e religiosi bisogna innestare la rivoluzione morale, che rimanda poi a quella culturale e politica. Non c’è rivoluzione politica che duri e innovi, se non la si fa scaturire da quella morale e storico-culturale.

Reputo che avesse proprio ragione il Machiavelli, quando pensava che, per risolvere le crisi delle società, era auspicabile ritornare ai principi storici, che certamente racchiudono le premesse genetiche e rigeneratrici dalle quali quelle società si sono originate.

Ma ritengo anche che il ritorno al passato, alla nostre radici umanistiche, oltre ad essere la soluzione per uscire dalla crisi sociale e politica odierna, sia anche la maniera per prendere la rincorsa e proiettarsi nel futuro, che sarà terreno sempre più fertile per le grandi scoperte scientifiche, finalizzate a migliorare il destino degli uomini.

Uno dei primi filosofi dell’età moderna, che presentì il pericolo che la società europea, nel 1600, si allontanasse dalla tradizione umanistica, fu Baruch de Spinoza.

Di origini ebraiche, ma nato e vissuto in Olanda, il Paese della libertà, vi moriva prematuramente all’età di 44 anni, nel 1677, lasciando alla Storia della Filosofia delle Opere fondamentali di un valore inestimabile, come il “Trattato sull’emendazione dell’Intelletto” e l”Ethica ordine geometrico demonstrata”, scritta in latino e con un lessico tipico del linguaggio matematico, perché riteneva che con il latino e la matematica potesse esprimere, con grande precisione fedele al suo pensiero, i concetti della sua speculazione etica e scientifica.

Seguitando la tradizione umanistica da Socrate a Sant’Agostino, a Biagio Pascal, auspicando il ritorno dell’uomo moderno alla sua interiorità per ritrovare se stesso e la sua felicità, sulle orme della Rivoluzione scientifica galileiana, concepisce una natura oggettiva, regolata da leggi matematiche, non al servizio dell’uomo, ma l’uomo al sevizio della natura sua interna ed esterna.

L’uomo non può non obbedire alla sua natura e alle sue leggi, non può sottrarsi al determinismo della sua natura, ma può benissimo regolare le sue passioni, i suoi impulsi, i suoi appetiti, la sua ricerca dell’utile con la sua intelligenza, con la sua ragione. L’unica guida dell’uomo morale è la sua ragione, che persegue sempre tutto ciò che è bene per lui e fugge da tutto quello che è male per la sua esistenza.

Le passioni dell’uomo non vanno derise, compiante o detestate, ma vanno razionalmente interpretate e volte al bene comune. L’uomo morale di Spinoza è un uomo sociale, il quale in armonia con la sua singolarità si adopera a realizzare il bene della collettività. Il suo razionalismo morale, che evoca quello di Socrate e prelude a quello di Kant, esprime efficacemente il clima politico dell’Olanda del 1600, molto attento a non deprimere la borghesia imprenditoriale e commerciale, che faceva del Paese della Tolleranza una grande potenza economica.

Il 1600 è stato definito il “Secolo d’oro” della intera storia dei Paesi Bassi, durante il quale lo sviluppo commerciale sui mari del pianeta, avutosi soprattutto con la creazione della Compagnia delle Indie Orientali, era pari allo sviluppo della cultura, delle arti e delle scienze.

La ricerca dell’utile individuale, contro ogni forma di ipocrisia moraleggiante, nell’Olanda calvinista, colta e ricca di risorse materiali e spirituali, era considerata dal “Machiavelli dell’etica”  -  come è stato talvolta chiamato Spinoza per il suo realismo morale  -  la base naturale della ricerca dell’utile sociale.

Scrive nell”Etica”, IV, 18, : “Nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso: nulla, dico, di più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto…. e tutti cerchino insieme per sé l’utile comune di tutti; donde segue che gli uomini che sono guidati dalla ragione …. non appetiscono nulla per sé, che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti.”

Come definire Benedetto de Spinoza con una terminologia delle categorie politiche del secolo scorso: un uomo di sinistra, di destra o di centro?

Era, a mio modesto parere, soltanto un uomo di pensiero, che desiderava per sé quello che desiderava per gli altri: la libertà del filosofo, la moralità dei costumi, l’etica della politica e dell’economia.

Che bel filosofo! Amava la vita e la natura dell’uomo senza infingimenti e ipocrisie sociali. Sapeva che l’umanità deviata può essere redenta dalla ragione e dalla buona educazione della famiglia, della scuola e della società. Sapeva che la vita morale del cittadino non dipende da una costrizione di leggi esteriori, ma dalle sue capacità razionali e conoscitive di volere per sé tutto ciò che bisogna desiderare per gli altri. La ricerca dell’utile privato deve contemperarsi con la ricerca dell’utile sociale.

La ragione, come sarà più tardi per Kant, non dirige soltanto l’attività teoretica, ma in perfetta armonia con questa deve guidare la condotta pratica per affermare il principio della coerenza tra pensiero e vita e sottostare spontaneamente all’obbligo etico di intendere gli altri sempre come fini e mai come mezzi al servizio della nostra sensibilità, del nostro egoismo, che morale assolutamente non è.

L’Imperativo Morale del filosofo di Konigsberg ci impone, infatti, di impegnare la nostra esistenza nel rispetto della dignità umana, di quella che è in noi e di quella che è negli altri, senza mai strumentalizzarla per conseguire un utile personale o per delinquere o per compiere delle scalate sociali, che sono comportamenti sempre nocivi alla nostra essenza e a quella della società.

Nella “Fondazione della metafisica dei costumi”, al punto BA 67-68, leggiamo la seconda formula della legge etica, che racchiude il cuore della filosofia pratica di Emanuele Kant:

“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

La mancanza di armonia o di coerenza tra il pensare e l’agire, tra il dire e il fare, tra la teoria e la pratica all’interno della nostra società, in particolare quella italiana, si traduce quasi sempre come negazione della prima ed affermazione della seconda, incline quasi sempre a prostituire la propria umanità, che diventa così la sentina di tutte le nostre degenerazioni e corruzioni pubbliche e private.

Io sono persuaso che si uscirà, nel nostro Paese ma anche in Europa, dalla crisi sociale e politica che non ci lascia tranquilli, solo se saremo capaci di superare la crisi morale e culturale nella quale siamo immersi da decenni.

(Continua)

 

 

 
 
 

LA RIVOLUZIONE CULTURALE OVVERO DEL CUORE E DELLA MENTE (2)

Post n°84 pubblicato il 09 Dicembre 2016 da giulio.stilla

LA RIVOLUZIONE CULTURALE ovvero DEL CUORE E DELLA MENTE.    (2)

 

Disponiamo di un patrimonio culturale unico nel mondo e di una tradizione filosofica umanistica millenaria, le cui radici si ramificano nelle terre mediterranee, alcuni secoli prima dell’avvento del Cristianesimo.

La storia culturale dell’Europa e dell’Occidente non ha nulla da mutuare da altre Culture per quanto antropologicamente significative, ma certamente più povere sul piano della Weltanschauung   (Vocabolo tedesco intraducibile come unica espressione italiana) e cioè sul piano della visione del mondo e delle vita, riferibile quasi sempre a un intero popolo, per le sue caratteristiche storico-geografiche, religiose, etiche, razziali, linguistiche, ecc.

Disporre della lettura e del godimento estetico della DIVINA COMMEDIA nella lingua di Dante non è la medesima cosa che leggere le leggende, i canti, le danze degli Aborigeni australiani, tesi a spiegare per 40000 anni come vanno la Terra, il Cielo e le Stelle.

Disporre di una grandissimo patrimonio speculativo, che ci fa riflettere sulla condizione dell’uomo nel Mondo almeno da 2500 anni, è una felice sorte, che è toccata all’Occidente e, in particolare, all’universo mediterraneo, in cui si situa l’Italia, così ricca di Storia, di Letteratura, di Filosofia, di Città d’Arte e di Valori Culturali che racchiude in sé, come in un serrato scrigno, i due terzi della Epifania umanistica mondiale.

Apriamo questo scrigno alle giovanissime generazioni, insegnando loro soprattutto a pensare attraverso l’assimilazione di Valori Cognitivi, Logici, Etici, Politici, Morali, Estetici, Religiosi, Metafisici ecc., che sono le coordinate per formare ed orientare l’Uomo o, meglio, per estrarre da lui la Umanità, che è la Essenza genetica e costitutiva della sua Esistenza.

Socrate, alludendo alla sua arte maieutica, direbbe che, oggi, nelle nostre scuole urge aiutare l’uomo a partorire la sua Umanità, che esclude l’astuzia, la cattiveria, il male, l’egoismo, l’aggressione del prossimo.

Già Protagora di Abdera, che era nato intorno al 490 a. Cristo, il maggiore protagonista del movimento speculativo della Sofistica, scriveva che “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono”. L’uomo, cioè, è un criterio di giudizio, una misura per giudicare la realtà, tutta la realtà: quella che è, in quanto è, e quella che appare in quanto appare. La realtà noumenica e la realtà fenomenica.

Si fa portatore, insieme all’intero movimento della Sofistica, di una vera rivoluzione culturale per i suoi tempi, che spostava il centro della riflessione dal mondo esterno all’uomo al suo mondo interno, inducendo i propri seguaci d assumere una mentalità critica e razionale ed elaborando un concetto di cultura integrale, che superasse le conoscenze particolaristiche e specialistiche e ponesse l’uomo sul primo gradino della scala assiologica.

Se non c’è l’uomo, infatti, non c’è nemmeno lo scienziato, il medico, il sacerdote, l’insegnante, l’ingegnere, l’architetto, ecc. ecc. Che ce ne facciamo, infatti, di un fisico nucleare che fa esplodere un ordigno atomico sulla nostra città?  Che ce ne facciamo di un Ingegnere che costruisce la nostra dimora lucrando sull’impiego dei materiali tanto che alla prima scossa tellurica crolla sulle nostre teste? Che ce ne facciamo di un medico- chirurgo che per ingordigia espianta gli organi vitali di un bambino sano per trapiantali nel corpo di un bambino ammalato?  Ovvero di un medico anestesista che nella cittadina di Saronno è accusato di aver deliberatamente ucciso i suoi pazienti? Che ce ne facciamo di un educatore o di una sacerdote che pratica, con sprezzo della innocenza, la ributtante pedofilia? Che ce ne facciamo della scienza informatica o robotica se corriamo il rischio di creare una intelligenza artificiale capace di distruggere l’umanità?

E’ chiaro per tutti che la questione, posta in questi termini, non lascia spazio ad alcuna obiezione e suggerisce ad ognuno che, quando c’è la crisi dell’uomo, c’è la crisi della società e della democrazia, come nei nostri tempi attuali in cui sono venuti a mancare molti dei Valori che hanno sorretto le nostre Comunità nazionali per molti decenni o per secoli. Urge quindi una Rivoluzione che prima di essere Culturale sia soprattutto Morale ed Etica. La fucina di questa Rivoluzione non può non essere che l’agenzia educativa più importante: la Scuola, e, di seguito, la famiglia, perché soprattutto questa è in drammatica crisi; e, poi, la Chiesa, perché, anche questa, per quanto il suo compito primario non sia quello di promuovere una Rivoluzione temporale, ha sempre svolto, anche per i non credenti, una importante azione educativa.

In ogni angolo della società degli uomini, insomma, esistono le condizioni per ripartire, basti diffondere la consapevolezza che tutti siamo chiamati, prima che sia troppo tardi, a collaborare per una Rivoluzione Etica e Morale che costruisca l’uomo nuovo, il quale, in ultima analisi, è quello antico.

Da credente nella Parola di Cristo, sarei portato a scrivere dell”uomo nuovo”, quale emerge dagli scritti di San Paolo, ma ne uscirebbe un concetto non sempre condivisibile dai non credenti, che si aspettano, direi kantianamente, di condividere una visione morale della vita assolutamente razionale e non limitata da alcuna religione per quanto nobile essa sia.

A fortiori, l”uomo nuovo” non può essere identificato con l’uomo ideologico, chiamato in causa da questa o quell’altra “ideologia” politica come sull’esempio di K. Marx, quando scrive dell”uomo collettivo” per costruire la società comunista.

Oppure dell’uomo di Bakunin, organico alla società senza Stato, o per converso dell”uomo nuovo” funzionale alla costruzione della società fascista sull’esempio di Benito Mussolini, quando declamava: “L'uomo economico non esiste, esiste l'uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero”.  (B. Mussolini, “Discorso del 14 novembre 1933”, a Roma.)-

Sappiamo, poi, come andò a finire: con l”uomo nuovo” appeso con i piedi ad una trave di un distributore di carburanti a Piazzale Loreto, a Milano.

No!  l’Homo integralis, che emerge dalla riflessione dei Maestri di Umanità, è l’uomo che esce dalla parola e dallo stile di vita di Socrate, che ammaestra e che ammonisce i giovani della sua età a comprendere le ragioni autentiche della propria esistenza, interrogandosi costantemente sui problemi dell’uomo con mentalità critica e razionale e scandagliando all’interno del proprio “io”, in un esame incessante di sé, del proprio essere-nel mondo e nelle relazioni con gli altri.

“Una vita senza esame non è degna di essere vissuta”, fa dire Platone al suo Maestro nella sua “Apologia di Socrate” (38a). E ancora nel “Gorgia”, al capoverso 488a: “Di tutte le ricerche la più bella è proprio questa; indagare quale debba essere l’uomo, cosa l’uomo debba fare”. Bastano questi brevi “pensieri” per comprendere l’umanismo socratico, valido oggi, in misura necessitante per accostarsi alla crisi morale della nostra società, fustigando, alla maniera socratica, con ironia e tecnica della confutazione, la ignoranza, la licenziosità dei costumi, la criminalità dilagante, la superficialità delle conoscenze, la “presunzione del sapere”.

Aveva fatto del motto, "Γνῶθι σεαυτόν" = “Conosci te stesso”, scritto sul Tempio di Apollo a Delfi, il vessillo della sua ricerca per procedere alla scoperta dell’Umanità, perché soltanto chi conosce se stesso, cioè i suoi limiti e le sue necessità, può investigare all’interno della sua coscienza per definire quelle verità morali necessarie alla costruzione dell’uomo: «Ti estì» ,"che cos'è?”, era solito chiedere al suo interlocutore, che aveva l’aria di sapere tutto.

Senofonte scrive nei suoi “Memorabili” ( I, 1, 11-16):  “ Egli discorreva sempre di cose umane esaminando che cosa è santità, che cosa empietà, che cosa ingiustizia, che cosa saggezza, che cosa pazzia, che cosa governo, che cosa uomo di governo, e simili cose”.

Se i nostri politici sapessero discutere e comprendere questi concetti, avremmo risolto da sempre la crisi politica che ci perseguita, perché essa si radica innanzitutto nella crisi morale e culturale della nostra età. Abbiamo un Parlamento Nazionale costituito in larga parte da persone non educate a coltivare le verità morali, il senso civico della responsabilità e la consapevolezza di appartenenza non al proprio utile personale ma allo spirito delle leggi chiamate a regolare le complesse relazioni intersoggettive nella società civile, nella famiglia, nello Stato.

Socrate per il rispetto religioso della Legge si fece uccidere da innocente. Accusato di empietà e di esercitare la corruzione dei giovani, fu condannato a morte, che accettò serenamente, bevendo il potente veleno della cicuta. Sarebbe potuto fuggire e sottrarsi facilmente alla morte, ma non volle, perché se fosse fuggito, avrebbe contraddetto tutta la sua vita, impegnata ad insegnare agli uomini il rispetto sacrosanto delle Leggi e della Giustizia.

L’uomo, infatti, esce dallo stato di ferinità originaria, quando entra in società, che è la comunità civile, proprio perché regolata dalle Leggi.

L’uomo senza la società non esiste. E’ in rapporto alla società che si qualifica come essere civile. Anzi, la società è già in esso tanto che tradire la società non rispettando le sue Leggi, significa tradire, soprattutto, se stesso. Le Leggi possono essere sbagliate. Allora bisogna migliorarle, ma mai aggirarle o sopprimerle. La Legge deve interpretare la Giustizia. Per Socrate la fedeltà alla Legge era la fedeltà del filosofo alla Libertà dal potere politico, che lo condannò alla pena capitale, perché ostile, come tutte le dittature politiche, compresa la dittatura della “democrazia ateniese” del 399 a. C., alle Idee rivoluzionarie del filosofo e alla libertà dell’Intellettuale. Scrive bene il Critico che vede nella morte di Socrate il primo grande martire della Libertà.

La sua fedeltà alla Legge era la fedeltà alla Giustizia, che, prima di essere una virtù etica e sociale, è una Virtù morale, è una Virtù dell’uomo interiore.

 

Questo richiamo incessante di Socrate alla sua “interiorità”, al suo Δαίμων  (=“daimon”,)  al suo demone, ha qualcosa della religiosità cristiana tanto che alcuni Padri della Chiesa riconobbero in Socrate un pre-Cristiano.

Scrive San’Agostino, 788 anni dopo la morte di Socrate:

“Recognosce igitur quae sit summa convenientia: noli foras ire , in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris , trascende et te ipsum……. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur”.

 

“Riconosci dunque quale sia la suprema armonia; e se troverai la tua natura mutevole, trascendi anche te stesso…..Dunque tendi là, dove si accende il lume stesso della ragione”;  ( Cfr.:De vera religione” o La vera religione, composta a Tagaste, in  Numidia, intorno al 389).

 

(Continua)

 

 
 
 

LA RIVOLUZIONE CULTURALE OVVERO DEL CUORE E DELLA MENTE

Post n°83 pubblicato il 07 Dicembre 2016 da giulio.stilla

LA RIVOLUZIONE CULTURALE ovvero DEL CUORE E DELLA MENTE    (1)

“Tutto muta, ma vi è una Legge del mutamento che non muta: è il LOGOS”, scriveva Eraclito di Efeso intorno al 500 a. C.

In Italia, in particolare, tutto continua a mutare, ma vi è il Logos della Costituzione più bella del mondo che non muta.

Nel Paese di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tutto, per la Legge eraclitea e la logica del Gattopardo, deve cambiare, perché tutto resti come prima, anzi peggio di prima.

Nei tempi di crisi generalizzata e globale, bisogna che gli Spiriti più illuminati, che governano il Mondo, mettano le loro capacità di intelligenza e di lungimiranza in fervida attività per conoscere le dimensioni della crisi e trovare le soluzioni più efficaci per uscirne più vigorosi e più motivati a costruire le fondamenta di una nuova società sovranazionale.

In Italia, ci vorranno, di certo, tempi molto più lunghi prima di intravedere all’orizzonte i primi risultati della ripresa dalla regressione economica, occupazionale, commerciale e politica, che soffriamo almeno dal 1989, con la caduta del muro di Berlino, e che, oggi, è resa ancora più problematica dai flussi migratori che scorrono impetuosi lungo il Mare Mediterraneo.

 A giudizio di molti competenti analisti di questa stagnazione dello sviluppo nel mondo, ci troviamo di fronte ad una crisi storica non facilmente riconducibile a cause di natura transitoria come per tutte le crisi del passato, che hanno caratterizzato il divenire della civiltà dell’uomo.

Questa crisi richiede uno sforzo globale e radicale che scuota dalle fondamenta l’assetto delle società nazionali e mobiliti la partecipazione laboriosa di tutti alla organizzazione di società più evolute e progredite soprattutto in quelle aree del mondo, in cui guerre etniche, devastazioni e pestilenze di ogni genere spingono ingenti masse di popolazioni ad emigrare con la speranza di raggiungere condizioni di accettabile sopravvivenza in altri Paesi del pianeta.

Io non sono uno scienziato di crisi economiche, finanziarie e sociali, ma ritengo di sapere che nel passato storico i grandi movimenti migratori cambiarono gli assetti sociali delle terre di approdo, modificando i rapporti di convivenza fra i cittadini e sollevando gravissimi problemi di integrazione, che furono risolti soltanto con il passar del tempo e con la nascita di nuove strutture economiche, idonee a superare le differenze e le diseguaglianze fra le genti.

Quando vengono in contatto gruppi umani molto diversi per la disparità dei costumi, delle religioni, delle culture, ecc., bisogna disporre di una visione globale della storia e di una classe dirigente preparata ad innovare le politiche che creino le condizioni per una nuova coesione sociale all’interno di una economia che distribuisca ricchezze e cultura di integrazione.

E’ un processo certamente difficile, ma non farlo significa creare condizioni di gravi conflitti sociali, portatori di povertà diffuse e un clima generale di intolleranza.

Una società aperta alle nuove istanze dei flussi migratori e alle difficili sfide della globalizzazione impone, oggi più che nel passato, l’adozione di una economia sociale di mercato protesa a mettere in atto, con sistematiche politiche di investimenti pubblici e privati, dinamiche di benessere materiale, ma anche sommovimenti culturali, da quelli conoscitivi, etici e scientifici e quelli estetici ed artistici.

Non credo, infatti, che si debba accettare per forza una visione dommaticamente engelsiana per capire che su una struttura economica possano insistere non solo sovrastrutture che diano origine a diseguagliane e a povertà, ma anche sovrastrutture evolute ed emancipate, capaci di originare condizioni di benessere e di ricchezze diffuse. Quando non succede che le cose vadano in questo modo, nella società aperte si aggiusta il tiro e si realizzano le riforme. Nelle società chiuse, invece, dove sovrastano le dittature, si mette mano alle purghe e alle epurazioni.

E’ stato il Croce, sulla scorta dei due scienziati fiorentini della politica, Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, a fare della economia una categoria fondamentale dello Spirito e a scoprirne la circolarità con le altre tre, interagenti fra di loro, quali l’arte, la filosofia e l’etica.

L’economia, cioè, svolge una funzione fondamentale all’interno dell’attività dello Spirito, come primo grado della sua attività pratica; essa, ricerca dell’utile individuale, non presuppone l’etica, ricerca del bene universale, ma da questa si lascia presupporre, nel senso che non esiste un bene che non sia sostanzialmente utile. La morale del “dover essere” o dell’intenzione di Kant appare al Croce astratta e priva di rapporti con la realtà. La morale deve promuovere la vita come le altre attività dello Spirito, che con le opere di bellezza, con le opere di conoscenza e con le opere di utilità avvia il processo universale della vita e il progresso storico dell’umano genere.

Pensare l’attività dello Spirito senza la categoria della economia significherebbe svuotare la vita di molti dei suoi contenuti più belli e più ricchi, perché all’economia il filosofo di Pescasseroli riconduce il diritto, la politica, lo Stato, la scienza e tutte quelle attività pratiche che non possono essere racchiuse dentro i fenomeni della forma teoretica e dell’etica, secondo grado della forma pratica. Anzi quest’ultimi, a mio modestissimo parere, stenterebbero ad esserci, perché è più facile morire di fame che produrre un’opera d’arte o un’opera di filosofia o un’opera di bene. (Cfr,: Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’ economia”, un saggio del 1907, e l’opera del 1931 “Etica e Politica”).

La ricerca dell’utile è, quindi, larga parte della nostra esistenza, che si svolge ora piacevolmente ora drammaticamente sul piano della “realtà effettuale”, così come era stato pensato dalla filosofia del Machiavelli e del Guicciardini, naturalmente con tutte le dovute distinzioni che caratterizzano i due scienziati della politica fiorentini e la Filosofia dello Spirito di Benedetto Croce.

Ora, in tempi di crisi come questi che a noi sono toccati di vivere, se vogliamo trarre qualche insegnamento utile ed effettuale, come a me sembra che dovremmo fare, dovremmo ripensare in chiave aggiornata la lezione del “Segretario Fiorentino”   -   dico il Machiavelli e non Matteo Renzi, vittima del suo recente Referendum sulla Riforma costituzionale   -   che pensava che le società degli uomini, quando si ammalano e cadono in rovina, devono essere governate da governanti dotati di grandi valori intellettivi, della “Virtus” di significato latino e, cioè, di grande capacità discernitiva.

Devono essere dotati di particolare talento e di valore temperamentale, idonei a penetrare la realtà e a conoscerla nella sua effettualità contingente.  

Devono questi uomini di governo conoscere la “Realtà” umana, storica e politica, anche psicologica dei popoli che sono chiamati a condurre, senza inseguire formule di governo che non stanno né in cielo né in terra, che non si sono mai viste nel passato, ma pensate scioccamente soltanto per sperimentare innovazioni che non producono risultati concreti ed efficaci organizzazioni.

Il mio pensiero corre a tutti quei movimenti pseudo-politici della nostra età, che con retorica “populistica”, come si dice oggi, s’illudono ed illudono molti elettori a percorrere strade politiche assolutamente impraticabili o gravate da incognite, che finiscono per rendere più fosco il futuro delle giovani generazioni.

La politica, si dice, è un’arte, un’arte nobile, che richiede come tale un rigoroso apprendistato, che un tempo veniva esperito nell’ambito dei partiti.

Oggi, sostituiti dai “clicca” informatici e dai comitati di affari, sorgenti come funghi nelle grandi realtà metropolitane come nei piccoli sobborghi.

Tutti vogliono fare politica, cioè amministrare la “res publica” senza aver mai imparato i rudimentali del mestiere, che, fino ad alcuni decenni fa, venivano assimilati attraverso le scuole dei partiti, nei dibattiti democratici e nei confronti intersoggettivi, che selezionavano le persone più brave e più preparate da quelle inette ed incapaci.

Distrutti, in Italia, i partiti, perché la misura della corruzione era colma o perché degenerati nella partitocrazia, è stato gettato via il contenitore dell’acqua sporca con il bambino.

Invece di eliminare la corruzione e conservare le palestre della democrazia, è stato distrutto il partito e conservata la corruzione, elevata oggi a sostanza del sistema politico e sociale.

Il corpus sociale italiano è molto malato, quasi in disfacimento. Non si sa più a quale santo votarsi, ed è a questo punto che mi viene in soccorso il pensiero politico del Machiavelli, esposto con fredda lucidità   sia nei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” sia ne “Il Principe”. Questi per ben governare deve conoscere gli uomini anzitutto e poi la “realtà effettuale”, la realtà del presente, per risalire ai farmaci da somministrare alla società ammalata.

Il “Principe” di oggi, ovviamente, dovrebbe essere il Partito, che è stato distrutto e che lo si dovrebbe farlo rinascere, convogliando in esso gli uomini più intelligenti e preparati, integerrimi per formazione morale e senso spiccato di civismo. I farmaci da somministrare al corpo e allo spirito dell’ammalato sono sempre quegli stessi del Machiavelli, individuati per i suoi tempi nelle antiche istituzioni della Repubblica Romana:  nel Tribunato della plebe e nella Magistratura della Censura.

E’ ovvio che queste Istituzioni dell’antica Roma non sono quelle pensate recentemente dalla Sindaca, Virginia Raggi, ma quelle che, in misura più appropriata e più efficace, sono gli ammaestramenti e le formazioni che dovrebbero arrivare dalla nostra Scuola e dagli Studi Umanistici, un tempo invidiati in tutto il Mondo, ma, oggi, quasi inesistenti o umiliati da una pedagogia e da una didattica miranti al primato esclusivo dell’algido tecnicismo, dell’automatismo e dello scientificismo.

La rivoluzione informatica, la rivoluzione più grande di tutti i tempi, sta rendendo i giovani della nostra età impacciati nella comunicazione orale e nelle espressioni linguistiche, perché non sanno più parlare e scrivere correttamente. Stentano, perfino, a compiere le operazioni aritmetiche, un tempo insegnate dal maestro elementare. Sorriderà ironicamente l’eventuale mio interlocutore, ma intelligentemente intenderà anche la mia preoccupazione, che mi suggerisce di dire che, oggi, con l’abuso dei mezzi computerizzati siamo tutti soggetti a rischio di perdere la nostra Umanità.

Si corre il rischio di smarrire la nostra formazione umanistica, un tempo costruita con sofferenza sui banchi delle scuole, dove s’insegnavano le scienze storiche e la scienze umane. Abbiamo urgente bisogno di mettere l”Uomo” davanti alla “macchina”, elettronica, informatica o telematica, che essa sia, e non la “macchina” davanti all”uomo”, con il rischio di renderlo fantoccio o malato di megalomania,  di gigantomania,  di ludopatia, di isteria e povertà neuronica. Corriamo il rischio di espandere il corpo dell’uomo al di là della siepe, verso l’infinitamente grande e di ridurre la humanitas verso l’infinitamente piccolo.

La cosiddetta “Intelligenza artificiale”, scrive un certo Elon Musk, potrebbe essere “più pericolosa delle bombe atomiche”, perché potrebbe scatenare una guerra totale, distruttiva della intera umanità. Non possiamo delegare alla macchina di pensare al posto nostro.

Scriveva E. Kant nella prolusione di apertura dell’anno accademico nel 1767 – se ricordo bene - alla Università di Konisberg: “Noi filosofi siamo chiamati ad insegnare non i pensieri, ma a pensare”.

Oggi, l’insegnamento delle humanities, le discipline che studiano l’uomo e la sua formazione, fra queste principalmente la Filosofia, regina delle Scienze Umane,  è stato bandito sostanzialmente anche dal Liceo Classico, con le conseguenze, per me molto gravi, che finiremo per costruire dei mostri informatici, non sorretti da sufficiente humanitas, come succede quando si specula e si ruba sulla ricostruzione delle zone terremotate, delle abitazioni civili e delle autostrade, sulle carriere professionali pilotate dalla corruzione, sulle opere di grande utilità sociale, sanitaria, produttiva e commerciale, sulle opere politico-amministrative dei pubblici appalti.

Nei tempi di crisi, come i nostri, che si prevedono molto lunghi, quasi epocali, nei sistemi politico-economici, nella precarietà dei lavori, negli assetti socio-culturali, nei multiformi aspetti della società, urge il ricorso immediato ad una riforma radicale della Scuola, come unico bacino a cui attingere per avviare, soprattutto in Italia, una Rivoluzione Culturale a cui hanno fatto sempre riferimento i filosofi e gli Spiriti più avveduti e capaci di leggere correttamente la realtà, quasi sempre interpretata male dai politici, molto più versati nelle relazioni mercantilistiche e nei traffici elettorali che nel buon governo dei Comuni, delle Province, delle Regioni e dello Stato nazionale.

(Continua)

 

 
 
 

LA MORTE DI FIDEL CASTRO

Post n°82 pubblicato il 26 Novembre 2016 da giulio.stilla

Giorgio Napolitano: "Giusto rendere omaggio a Castro"

Giorgio Napolitano: "Fidel Castro è stato protagonista storico di grande rilievo sul piano mondiale del secolo scorso"

"Fidel Castro è stato protagonista storico di grande rilievo sul piano mondiale del secolo scorso, e si è caratterizzato come un costruttore di un esperimento di stato fondato sulla mobilitazione e il sostegno popolare, fin quando non sono balzate in primo piano e divenute contraddizioni fatali le componenti autoritarie e la subordinazione agli schemi sovietici e al blocco ideologico-militare guidato da Mosca".

Lo scrive in una nota l'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.

"Castro -sottolinea Napolitano- è stato nel contempo mito ideale e politico per grandi masse di militanti della sinistra nel mondo, nella stessa Europa e nel nostro paese. Anche per il suo straordinario carisma personale ha ispirato movimenti rivoluzionari, in particolare nell'America Latina, e alimentato speranze immaginando un futuro libero dal dominio capitalistico. La Cuba di Castro è stata anche al centro in vari momenti di tensioni tra le maggiori e più pericolose tra i blocchi dell'Est e dell'Ovest nel periodo della guerra fredda e oltre". "La sua rivoluzione contro il regime di Batista -rimarca Napolitano- non era stata guidata da ostilità verso gli Stati Uniti, ma piuttosto da vicinanza alle grandi tradizioni di libertà di quel paese. È giusto rendere omaggio oggi alla sua figura per l'esperienza complessa e drammatica che ha rappresentato nelle sue luci e nelle sue ombre, e per la lungimirante apertura con cui negli ultimi anni ha assecondato un processo di avvicinamento all'Occidente e di superamento delle barriere che avevano a lungo tenuto isolata la sua Cuba".

E ad esaltare Castro anche Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista: "Immenso dolore per la morte di Fidel Castro, rivoluzionario vittorioso a cavallo di due secoli, che ha difeso l'umanità dalla barbarie". "Fidel -assicura- ha saputo guidare la lotta per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista e l'ha saputa trasformare in una rivoluzione socialista. Fidel è stato protagonista della difesa della rivoluzione cubana dagli attacchi degli Usa, da quelli militari come quelli economici tutt'ora in vigore con il bloqueo. In questa difficile situazione ha saputo trovare la strada per la costruzione del socialismo, dell'eguaglianza, della dignità e della libertà del popolo cubano. Ciao compagno Fidel, comunista non pentito, grazie per quel che hai fatto, riposa in pace. Continueremo la tua lotta per la dignità dei popoli, la giustizia e la libertà", afferma. Sulla stessa linea anche Marco Rizzo: "Muore il comandante Fidel Castro, ma la sua idea vive! La volontà e la lotta del grande rivoluzionario cubano ha trasformato il suo popolo ridando dignità e uguaglianza contro la mercificazione dell'imperialismo. Centinaia di volte hanno provato ad assassinarlo senza riuscirci. I popoli e le nazioni delle Americhe, dell'Africa e del mondo intero lo ricordano come portatore di idea, lotta e solidarietà. Il Partito Comunista in Italia abbassa le sue bandiere in onore del Comandante Fidel. L'idea che non muore. Con Cuba Socialista Sempre".

Commeto:

Leggendo, stamani, la notizia della morte di Fidel Castro, riportata sopra dal giornale, non mi sorprende il fatto che siano Paolo Ferrero e Marco Rizzo a celebrare la magnificenza politica di Fidel Castro, morto alla veneranda età di 90 anni.

Anzi, apprezzo la loro coerenza di comunisti italiani, sempre protesi a lottare per una ideologia politica, che annovera centinaia di milioni di morti e perseguitati in tutto il Mondo, da quando la Rivoluzione Socialista fu realizzata da Vladimir Lenin, per la prima volta, nel 1917, nel decadente regime zarista.

Ammiro di meno la impudenza di Ferrero, quando scrive che Castro, in 60 anni di rivoluzione, seppe realizzare nella piccola isola caraibica, nonostante le difficoltà di natura internazionale, “la costruzione del socialismo, dell’eguaglianza, della dignità e della libertà del popolo cubano”.

Io non sono mai stato a Cuba, ma ho sempre letto, sulla stampa libera italiana ed estera, che autorevoli osservatori politici hanno sempre parlato delle aberrazioni e delle abiezioni di un regime dittatoriale comunista, responsabile di feroci persecuzioni, martorianti non solo le libertà civili, ma soprattutto la dignità degli uomini, costretti a vivere nella miseria materiale e spirituale, nelle arretratezze dei mezzi di sussistenza, nelle povertà culturali, nella mancanza assoluta di ogni conforto sanitario, morale e religioso. Per tutti questi motivi sono portato a credere molto di più a queste mie informazioni anziché ai rispettabili convincimenti ideologici di Paolo Ferrero e di Marco Rizzo, secondo i quali, se debbo dedurre le conseguenze di quello che affermano, avrebbero voluto e vorrebbero realizzare anche in Italia “contro la mercificazione dell’imperialismo… la idea, la lotta e la solidarietà” alla maniera di Fidel Castro; “la idea che vive…. La idea che non muore. Con Cuba Socialista Sempre”.

Mi sorprendo molto, però, a leggere le dichiarazioni estremamente ambigue dell’emerito Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, espresse secondo uno stile tipico dei responsi della sibilla cumana, e cioè interpretabili in modi multidirezionali:  

da una parte, civetta romanticamente con la rivoluzione socialista di Fidel Castro, tessendone le lodi di combattente popolare, al principio non ostile perfino alla grande tradizione di  libertà degli Stati Uniti, e dall’altra sembra rammaricarsi del fatto che poi il regime castrista si lasciò catturare dalle sirene delle “componenti autoritarie”, “degli schemi sovietici” e del “blocco ideologico-militare guidato da Mosca”.

Peccato che anche lui, il nostro amato Presidente, da comunista all’italiana, non pronunziò una parola di condanna contro la invasione dell’Ungheria dei carri armati sovietici, che soffocarono nel sangue la Rivoluzione dei magiari per la Libertà, nell’ottobre del 1956.

Evidentemente, il nostro Presidente, rendendo omaggio alla memoria di Castro, “mito ideale e politico per grandi masse di militanti della sinistra nel mondo”, dimentica che il Comunismo, anche quello vagheggiato da lui, si rivelato sempre e dovunque, con un solo volto: quello del terrore, della persecuzione e della miseria di centinaia di milioni di oppositori e di “militanti”.

Egli, il nostro Presidente, si è salvato grazie all’azione politica di Alcide De Gasperi e alla spartizione del Mondo in due blocchi contrapposti, che gli hanno permesso di essere un Comunista all’italiana, una lunghissima carriera politica e gli onori e il lusso della Presidenza della Repubblica, con compensi, indennità, emolumenti e vitalizi privilegiati di milioni di rubli e di euro, che nella Cuba di Castro, nella Unione Sovietica di Nikita Kruscev e di Leonid Breznev e nei Paesi Comunisti dell’Estremo Oriente, se li sarebbe dovuto soltanto sognare.

     

 
 
 
 
 

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