Un blog creato da malcom44 il 24/10/2005

Il Rigattiere

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Post N° 19

Post n°19 pubblicato il 26 Gennaio 2006 da malcom44
Foto di malcom44

IV
Chissà perché mi viene in mente “Fai la cosa giusta”.
Forse perché è una delle domande che mi pongo regolarmente tutti i giorni, più volte al giorno.
“Quello che devo fare è andarmene da questo posto”. Tira su col naso e si guarda intorno.
Nonostante le botte, sembrava ancora energico.
Probabilmente era talmente pieno di robaccia che i dolori avrebbero aspettato ancora una notte prima di presentare il conto.
Un fastidioso nervosismo cominciò ad insinuarsi. Non riuscivo a capire. Spesso non riesco a capire. Strano. Stavo facendo ciò che avrei dovuto fare, quanto mi sarei aspettato da una qualunque delle persone che conosco e che stimo. Pensavo agli uccelli, fuggono molto prima che la natura si risvegli.
Presi la cassetta ed andai a riporla. Decisi di non soffermarmi troppo su dei ridicoli pensieri.
“Se vuoi possiamo andare a prendere un caffé”
La risposta tardò particolarmente.
“Vuoi?” Dissi affacciandomi verso l’interno della stanza.
“No grazie, me ne vado a casa”, poi mentre stava prendendo i pochi soldi nel cassetto incustodito, “faccio la cosa giusta credi Babbo Natale!”
Un brivido mi scosse la schiena ed un forte pulsare s’impadronì della mia mente. Sembrava proprio un mal di testa, un dolore sopraccigliare profondo che si estendeva dritto al centro degli occhi e giù per il setto nasale fino a ripiegare verso i denti molari.
Gli spensi il ghigno con una botta di scopa dritta su quel viso che avevo appena medicato con scrupolo.
L’uomo ruzzolò a terra ai piedi del tavolo imprecando a lasciando cadere al suolo il misero bottino.
“Che cazzo vuoi, brutto bastardo, ma che cazzo credi di fare”. Parlava, imprecava e si trascinava all’indietro verso l’uscita.
“Sei uno stronzo come tutti gli altri, sei un bastardo come qui figli di puttana che provavano piacere a sbattere le loro cazzo di scarpe lucide sui miei vestiti.”
Non volevo ascoltarlo. Avrei voluto vederlo uscire e dimenticare tutto. Volevo dimenticare di me, con i muscoli tesi, lo sguardo spianato e le mie mani contratte intorno ad un manico di scopa.
Avrei potuto gridare, parlargli, fare altro. Avevo fatto quanto odiavo di più fare. Quel ricircolo di sangue nel corpo mi sorprendeva per la sua elettricità. Quasi tremante ero ebbro d’ira, il mio corpo rilasciava sostanze prodotte nella notte dei tempi per soddisfare quanto in me era ancora legato ai miei avi, alla terra, alla natura: alla semplice causa effetto, senza la compensazione di secoli di pensiero. Ero l’uomo allo stato grezzo, argilla compattata, e, improvvisamente, potevo percepire la presenza dei miei simili attraverso le mura, le strade, le città. Li vedevo ridere di me, delle mie certezze, delle mie debolezze. Ridere nel vedermi nudo di fronte a loro nudi.
Guardavo i soldi a terra, trenta anzi quaranta euro in fogli da dieci. Guardavo le vetrine, i pezzi dell’orologio che stavo riparando sparsi un po’ ovunque come i miei pensieri.
Non udivo rumori: solo il ritmo tribale del mio cuore che mi pulsava ad ogni estremità del corpo.
Disse qualcosa d’altro prima di uscire. Disse varie cose a dire il vero. Non potevo sentire. Non riuscivo ad afferrare i concetti. Le sue labbra sembravano semplicemente torcersi in spasmi d’isteria. Sembrava un pupo siciliano senza narratore.
Il silenzio in cui scese il luogo fu desolante. Gettai a terra la scopa e mi sedetti al posto di guida della nave.
Non doveva andare esattamente così. Questo non era quello che mi sarei aspettato dalle persone che amo. Questo non era nulla. Questo era il non senso. Il vuoto della ragione assomigliava incredibilmente al risveglio dopo una serata alcolica.
Continuavo a ripetermi che glieli avrei pure dati quei maledetti soldi se solo li avesse chiesti.
Non riuscivo a giustificarmi; non riuscivo a capire come lo stesso uomo che l’aveva difeso da persone inferocite - -probabilmente per gli stessi motivi – si era potuto trasformare anche lui in una belva inferocita cieca di rabbia.
Mi tornarono vivi ricordi trascorsi, d’adolescenza.

 
 
 

Post N° 18

Post n°18 pubblicato il 21 Gennaio 2006 da malcom44
Foto di malcom44

III
Quando tutto termina, sembra di stare ai carabi dopo un improvviso temporale.
La piccola folla si disperde tra borbottii indistinti. Il viavai continua, passanti chiedono e spettegolano.
Il ragazzo, con la schiena al palazzo, ha la testa, tra le mani insanguinate, appoggiata alle ginocchia.
“Stai bene?”
“Mortaci loro, ‘sti bastardi”.
Mi guarda. Italiano, meno di trent’anni, probabilmente fatto come una zucchina.
“Vieni”
Lo aiuto ad alzarsi e lo porto con me al negozio.
“Ma chi sei Babbo Natale?”
Sorride. E’ una buona notizia.
Entrando nella bottega vi ritrovo solamente Francesco, intento a rovistare tra gli anelli della vetrina d’angolo in fondo a sinistra, vicino all’ingresso del retrobottega.
“Entra”.
L’uomo si trascina dietro di me come un cane abbandonato, tutto intento ad osservare il posto.
“Bel negozio, te la passi bene, vedo!” In strada l’ironia non manca mai, come le cicche di sigarette.
Farfuglia e sembra quasi sputare sangue dalla bocca.
“Siedi lì”. Indico una sedia mentre vado a ricercare una vecchia cassetta di pronto soccorso sul retro.
Quando ritorno lo trovo seduto con lo sguardo assente, si tocca il viso come dopo una gradevole rasatura, non provando di certo la stessa sensazione.
Francesco non parla, immobile là dov’era.
“Tua madre?”
Appoggio la cassetta sulla scrivania e cerco tra il contenuto qualche garza e del disinfettante.
“Beh?”
Lo guardo mentre m’infilo i guanti di lattice come ad un traliccio dell’alta tensione: sembra quasi di sentire il ronzio dei suoi pensieri.
“E’ uscita”, poi guardandomi smarrito, “la vado a cercare”.
Così detto esce dal negozio come da una palude infestata.
“Paura d’infettarti?”
In un primo momento pensai che la battuta fosse rivolta al ragazzino: i suoi occhi umidi dritti sulle mie mani mi fecero sentire in lieve imbarazzo. Il mio era stato un gesto istintivo, retaggio di corsi di primo soccorso. Nulla di contingente, di personale. Nulla da chiarire.
Lo sguardo dell’uomo non era in tono con la domanda. Probabilmente una battuta ricorrente del suo repertorio.
Non rispondo alla sua provocazione. Imbevo una garza d’alcol denaturato e comincio a fare qualche medicazione sul viso devastato.
“Dovresti andare al pronto soccorso, sarebbe un’idea niente male”.
Alcuni tagli mi sembravano troppo profondi per un cerotto.
“Senti Babbo Natale, buon samaritano dei deboli, degli sfigati di questa città di merda”, il suo sguardo si fa duro, “non credi che questi potrebbero essere cazzi miei?”.
Non si lamenta dell’alcol. Ci sarebbe voluto altro: questo offriva la scatola con la croce rossa sul coperchio.
Improvvisamente realizzo che il suono delle sue parole mi è sgradevole come i rotoli di ciccia di Francesco.
“Senti coso”, lo guardo con l’aria stanca di chi non ha affatto voglia di discutere del nulla, “io sto facendo solamente quello che credo giusto fare”.
Gli applico due cerotti al posto di qualche punto di sutura, metto le garze in un pacchettino e faccio ordine nella custodia prima di richiudere.
“Tu fai quello che credi”.

http://www.provincia.crotone.it/museomac/esposizione.php?A=PAGOS

 
 
 

Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 20 Gennaio 2006 da malcom44
Foto di malcom44

II
“Si, si, autogestione, quello”
Una volta a scuola, durante un’autogestione, uscimmo discendendo le grondaie. Il mio era un ricordo di divertimenti, botte, discussioni; professori feriti, giornate perse, celerini incolonnati fuori all’ingresso tranne che nei giorni delle grandi risse; allora, la “pula”, arrivava alla fine, quando ci eravamo scornati per bene: una volta li vidi raccogliere i legni di una splendida ringhiera bassa, devastata, e rimetterli scrupolosamente nel portabagagli fino a riempirlo; li immaginai la sera a casa davanti al camino con la famiglia a ridere e scherzare della giornata.
“Beh! Entrate e ve ne andate. Siete in vacanza insomma”
Mi resi conto che il tono ed un linguaggio non erano quelli che usavo solitamente.
“Magari. Appello e contrappello”. Francesco sembrava parlare con Paperino.
Mi venne da sorridere.
“Tipo sotto il militare, insomma”
“Tipo, sì”
“Cioè?” Non riuscivo proprio a capire che ne sapesse della vita militare; poi pensai ai film: ai libri no, non sembrava tipo da lettura.
“Cioè! La mattina si va in classe e la prof fa l’appello. Poi si fa autogestione e si sceglie quali aule occupare. Si gioca a carte, qualcuno si fuma uno spinello.”, si interrompe e sorride “Gepo, uno della classe nostra, ha attrezzato una sala per la musica, che forza”
“Beh, grande, te suoni qualche cosa?”
Mi guarda attento per capire se lo sto prendendo in giro.
“Disco. Ha attrezzato tutto. Piatti, ciddì. Una discoteca insomma”
Sorride il cinghiale.
“Strana come occupazione”, mi fermo a riflettere, “cosa hanno a che fare i prof con l’autogestione. Poi l’appello, il contrappello”
“L’hanno deciso quelli delle quinte. C’hanno strizza pè l’esami e hanno concordato in Consiglio d’Istituto l’autogestione”.
Sarah riapre la porta giusto in tempo per evitare che sprofondi nella malinconia.
Con la porta aperta all’improvviso entra un frastuono di grida, corse e problemi.
La vedo girarsi verso la via e mettersi le mani alla bocca. “Oh mio Dio”
Mi precipito verso l’uscita.
Poco più avanti c’è in atto una colluttazione. Quattro, cinque signori colpiscono ripetutamente un ragazzo vestito di jeans finché non cade a terra. Le urla rendono incomprensibile comprendere. Si sta formando una calca. Tra la gente intravedo il ragazzo accasciato e ricurvo preso a calci.
Corro verso di loro.
“Brutto stronzo, quelli come te dovrebbero metterli in galera e buttare la chiave”
Mi faccio strada tra la folla e chiedo ad una signora se sa qualche cosa.
“Ha scippato una donna e l’anno preso. Gli stanno dando quel che si merita”
Il ragazzo sputa sangue sul lastricato”
“Basta, basta pazzi lo state massacrando”
“Fatti i cazzi tuoi, a mia moglie quasi gli prende un colpo”
Li vedo accanirsi. Gente comune, impiegati, funzionari, commercianti, studenti. Gente che non farebbe male ad una mosca ma mossi da un’ira repressa che, penso, poco abbia a che fare con il furto.
“Sti extracomunitari dovrebbero riportarli tutti a casa loro”, strilla un signore agitando l’ombrello.
Faccio fatica a pormi tra loro ed il ragazzo.
“Ma che cazzo vuoi”. Il viso dell’uomo è violaceo, i suoi occhi sono ebbri di rabbia, vorrebbe colpire anche me.
“Così l’ammazzate!”
“Lascialo stare, dai retta al signore, non ti mettere nei guai!” La donna cerca di trascinare via il marito tirando il cappotto come una fune ai giochi di paese.
Altre grida, altre parole, altri calci.

http://www.artonline.it/xx_opera.asp?IDOpera=814

 
 
 

Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 18 Gennaio 2006 da malcom44
Foto di malcom44

I
Il vecchio orologio svizzero a parete rintoccò le cinque. Le cinque del pomeriggio. Stavo inutilmente cercando di riparare un vecchio orologio da polso Longines; me l’aveva portato un anziano signore, ci teneva molto. Molto a considerare, perlomeno, quanto era detto disposto a pagare per la sua riparazione. Gli ho fatto gentilmente osservare di non essere un orologiaio e lui “lo so. Da un orologiaio già ci sono stato e non è riuscito a ripararlo!”. Cercai di spiegargli che difficilmente sarebbe riuscita meglio l’operazione da un rigattiere. Non c’è stato verso. Mi ha chiesto insistentemente di provare, anche solamente a ripulirlo, “magari lei se ne innamora”. Dell’orologio?
In effetti, era un bel pezzo anni ’50. Portava i suoi anni con dignità e discrezione. In ogni caso non me ne sarei innamorato mi dissi. Decisi tuttavia di smontare la cassa e provare a ripulirlo.
Stavo per decidermi ad andare da Teglia per un caffé quando ecco entrare Sarah col figlio Francesco. Sarah stava tutta in tiro: giaccone aderente, pantaloni astringenti, stivali ed un maglione a girocollo. Vestita completamente di nero. Il figlio portava un bomber sopra i jeans ed una sciarpa della sua squadra arrotolata al collo.
“Ciao, come sto?” senza appello si mise a sedere di fronte alla scrivania ed il figlio vicino, sull’altra sedia.
“Ciao, come stai?”. Ottenni solamente un sorriso divertito.
“Dai, non sto bene?” Così si alzò e cominciò a ruotarsi lentamente per farsi meglio vedere.
Francesco era un multistrato di rotoli di ciccia. La testa ovale attaccata al corpo, ben salda, su di un collo alla Tyson. Aveva due occhietti da cinghiale e delle labbra sottili come carta per le caramelle. Il tutto per un’altezza di quasi un metro e ottanta, stava in piedi su delle Nike misura quarantacinque. Aveva circa sedici anni.
“Stai benissimo per avere trent’anni”
“Stupido”
Il trillo del suo telefonino non ci permise, fortunatamente, di continuare.
“Ma dove cazzo stai”. Sarah stava rovistando nella sua borsa come un chirurgo in sala operatoria: le sue mani attente a non incasinare ulteriormente le cose stipate all’interno.
“Eccolo”
Una melodia risentita si librò nell’aria.
“Pronto?...Ciao Stefania come stai!”
Mi guardò di sfuggita alzandosi di tutta fretta per uscire dal negozio.
Sarah non aveva un’amica di nome Stefania.
Scossi la testa e ripresi il lavoro dimenticandomi completamente di Francesco.
Mentre ripulivo con attenzione delle rotelle - che a qualche cosa d’importante dovevano pur servire - vidi due occhi, bassi sul tavolo al pari dei miei.
“Lavoretto interessante?” La voce di Francesco era molto simile a quella di un castrato. Mi ricordava proprio la voce di un doppiatore di film.
Appoggiai la schiena alla sedia - come spaventato - e, fortunatamente, lui fece la stessa cosa.
“Già”
Mi resi conto d’essere solo con lui nella stanza. Sarah stava allegramente conversando fuori, davanti alla vetrina. Di tanto in tanto si aggiustava i capelli. Le donne.
“Oggi non hai da studiare?”
L’argomento scuola mi sembrava l’unico piano di conversazione possibile.
“De che! Avemo fatto l’occupazione”
Nonostante l’ottima famiglia, l’accento ed il linguaggio del ragazzo erano quelli di tutti i suoi coetanei. Chissà cosa doveva pensarne il padre, professore universitario.
Ripresi smalto. La frase di Francesco mi riportò alla memoria interminabili notti all’università. Discussioni, macchine fotocopiatrici inceppate, sacchi a pelo, liti, amori, sesso.
“Bello, dormite là allora”
“Eh? Ah, No! Si fa occupazione dalle otto alle tredici”
“Autogestione” suggerii cercando di capire.

 
 
 

Post N° 15

Post n°15 pubblicato il 22 Dicembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

Il vento fuori è implacabile. Mi sento svuotato, privo di energie. Alle orecchie mi sopraggiunge un suono come quello delle conchiglie di mare. L’aria fredda s’insinua nei miei polmoni come a volerli ghiacciare.
Le vie sono affollate più del solito per via delle festività incombenti. Scarto le persone con i loro pacchi ingombranti come in un videogioco. Gli occhi lucidi per il freddo li sento vitrei, come non fossero più parte di me. Le luci dei negozi trascolorano in infinite pulsazioni di colore. Avanzo a fatica: la gente sembra proprio lì ad ostacolarmi. Non riesco a percepire i loro cuori battere, forse sono proprio nella variante di gioco del Natale. Mi appaiono tutti indifferenti alle loro compere, ai personaggi che li accompagnano. Tutti con un compito da svolgere e del quale non sembrano affatto fieri, incolpevoli, programmati per riempire le case dai vetri appannati d’inutili oggetti da sommare per lo score point assegnato. Una signora che ho urtato leggermente si gira a guardarmi come fossi di un altro pianeta: uomo frettoloso che cercare di sgusciare tra le compatte processionarie di sguardi attoniti e sorrisi congelati. A tratti mi aspetto che qualche figura m’indichi, puntandomi l’indice, urlando come il quel film: l’invasione degli ultracorpi. Immagino grandi cuori rossi battere tra la folla, portati a fatica ed in silenzio per non farsi riconoscere, per non urtare l’insensibilità dilagante.
M’immagino casa. Io che entro precipitosamente. Simone che se ne sta davanti alla finestra a fumare una sigaretta. Di solito non fuma in camera. Vedo il suo sguardo riflesso sui vetri, attraverso il suo sguardo le fronde scosse e le luci degli appartamenti lontani. Il buio della stanza è il buio del mio cuore.
“Non dovresti essere qui”
Neanche si gira nel parlarmi. Inspira un’altra boccata di fumo. Mi accendo anch’io una sigaretta.
“Perché non porti il tuo culo fuori di casa e mi lasci in pace. Sei l’ultima persona che dovrebbe essere qui”, il suo tono freddo come l’aria che ho respirato prima di entrare, “so che sarebbe passata da te. Non credo tu possa aggiungere altro a tutto quello che hai già detto”.
“Mi dispiace”
“Pensa per te. Come dici sempre, io ho vent’anni”, si ferma un attimo a prendere respiro, “ pensa ai tuoi fallimenti. Pensa a perché sei solo alla tua età, a cosa c’è nella tua testa, nella tua vita. A tutti i ragionamenti che mi fai continuamente manco fossi papà. Poi…”, vedo i suoi occhi guardarmi attraverso il riflesso, “ non è per te che l’ho lasciata. Puoi andare a dormire tranquillo. Non c’è bisogno che t’immergi le mani nella bacinella delle scuse”.
E’ un fiume in piena. Penso di aver fatto male a correre a casa. Nei due giorni precedenti non ero riuscito ad accorgermi di nulla. Riuscivo con difficoltà addirittura a ricordare se l’avevo visto per più di qualche minuto. Viviamo nella stessa casa per incontrarci così raramente. Mi resi conto che probabilmente era la persona che vedevo meno negli ultimi tempi. Uscii dalla stanza per andare in salotto. Mi versai del vino, presi il posacenere e mi misi a guardare la televisione spenta disteso sul divano. Le parole di Simone non mi avevano fatto male. Tutto sommato, erano i miei stessi pensieri a prendere forma. Mi rendo conto delle lacrime quando mi strofinai con le mani il viso. Cosa c’è che non va in me. Cosa c’è che non va nella mia vita. Esco dalla stanza e vado in salotto. Accendo un’altra sigaretta e guardo fisso il nero del televisore e mi c’immergo come in un rifugio. Penso alla solitudine dei sentimenti, penso al Saturno dei cuori. Penso che non siamo fatti per viaggiare solitari attraverso quest’autostrada, che da costa a costa ci porta dall’alba al tramonto, in automobili che son fatte per trasportare una sola persona. La solitudine genera invisibili gas anestetici per l’anima.
Simone sopraggiunge alle spalle. Mi abbraccia e poggia la sua testa sulla mia spalla. L’umido delle sue lacrime trapassa la maglia e mi riscalda la pelle.
“Non dovevo. Scusa”
“Dovevi. Tutti hanno diritto a sfogarsi. Tutti dovrebbero parlare di più delle cose che veramente contano. Dovremmo tutti parlare onestamente dei nostri sentimenti” .
Vorrei tenerlo lì ancora per molto. Lo abbraccio ed è mio padre con me ad abbracciarlo. Lo bacio sulla fronte insieme a mia madre. Carne della stessa carne.

La signora mi urla in un orecchio se scendo anch’io alla prossima fermata. Mi riprendo aggrappato ad una maniglia come ad un cuscino.
“Si scendo”
Sono arrivato a casa.
Bagliori di vario colore rimbalzano sui vetri della stanza da pranzo.
Salgo le scale rinunciando alla velocità dell’ascensore per riprendermi. La chiave gira con un rumore che riecheggia nell’atrio.
Le luci sono spente. Trovo Simone sul divano a vedere la televisione.
Mi sente entrare e si gira con uno dei suoi sorrisi migliori stampati sul volto.
“Come mai a quest’ora?”.
La cosa sembra divertirlo.
“Non mi dire che non c’era gente in giro”.
Cerco di riprendermi. La sigaretta me l’accendo davvero.
“No. E’ che oggi pomeriggio è passata Teresa”, faccio una lunga boccata, “piuttosto tesa”. Mi metto seduto sul divano vicino a lui. “Era alquanto sconvolta a dire il vero. Ero preoccupato per te”.
Tolto il bubbone mi sentivo più leggero. Simone fa la faccia seria. Seria ma non triste.
Dalla tv provengono grida di felicità. Il pubblico del piccolo studio è in piedi e batte le mani. Pare che il concorrente abbia individuato il pacco con la scolopendra. Il conduttore la incita e le dice di tenere duro perché in giro che ancora il pacco da cinquantamila euro. Ne avevo sentito parlare come uno stupido gioco di fortuna ma la passione del pubblico mi fa credere che ci sia dell’altro. Per qualche momento cerco di pensare all’importanza della numerologia nella mia vita. Probabilmente anch’io ho scelto e scartato pacchi. Magari anch’io ho dato via il mio pacco con dentro il tesoro. Però vorrei pensare non a caso. Sento ancora urla e grida e applausi. La signora lascia ancora in giro il pacco col malloppo. Pensandoci meglio stavo assistendo all’elegia mediatici del caso, della fortuna, del destino che ci tende un’invisibile mano. Altro che il superenalotto, altro che i quiz dilaganti. Questa è l’apoteosi del siamo tutti uguali, volemose bene, ognuno ha la sua occasione, siamo tutti fratelli dell’America. Questo è il sogno della nostra terra: diventare ricchi non per capacità ma per culo. Che soddisfazione con chi se lo meriterebbe ma non riesce neanche ad arrivare a fine mese!
“Te lo volevo dire, sai.” Simone ha riacquistato il suo sorriso. Probabilmente mi vede smarrito. “ ci siamo lasciati qualche giorno fa ma ci siamo visti poco ultimamente”.
I suoi occhi s’irradiano ed il suo viso mostra integra la sua giovinezza.
“ Sto con un'altra. Giulia”.
Spengo la sigaretta che mi stava per bruciare l’indice ed il medio. Simone accavalla le gambe e mi guarda entusiasta appoggiando il braccio alla spalliera del divano.
“Quant’è bona. So cotto. Ha ventiquattro anni e si sta per laureare in lettere”. Si ferma ad aspettare un mio commento prima di continuare.
“Bene.” Mi sento afasico.
“Sai”, mi guarda con gli occhi del perdono, “ a Teresa non le ho detto nulla. Le ho parlato della difficoltà del nostro rapporto per la differenza d’età…” Devo aver sgranato gli occhi perché lo vedo preoccuparsi mentre si allontana impercettibilmente dalla mia zona di tiro. “ Beh. Non me la sentivo di dirle la verità, ci sarebbe rimasta troppo male. Le ho detto di essere confuso, che pensavo agli studi, al mio futuro. Che volevo starmene un po’ per conto mio a riflettere”.
Si ferma un attimo prima di lasciarsi andare. “ Non sento più nulla, non so che farci. Da quasi due settimane nella mia testa c’è solo Giulia”.
Mi avvicino a lui che mi osserva allarmato. Gli prendo il viso tra le mani e lo bacio in fronte.
“Dovremmo parlare più spesso. Mi dispiace per Teresa: le preoccupazioni che avevo erano anche e soprattutto per lei”.
Simone sembra non voler cogliere. “ Pizza?”

 
 
 

Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 14 Dicembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

“Dove le andiamo a ricercare le parole da dire, quando non abbiamo niente da dire!”
“E’ una domanda?”
Guardavo Luca come non l’avessi mai visto prima. Che strana sensazione. A volte sembra che delle persone ci ricordiamo dei dettagli e poi solamente l’insieme. Stava vicino alla porta semichiusa per fumare una sigaretta. Mi resi conto che seppure lo conoscevo da anni vedendolo da dietro, che so, in un qualunque locale avrei potutoi non riconoscerlo. Magari esagero. Probabilmente potrei avere semplicemente qualche dubbio.
“Allora?”
Luca fumava la sua sigaretta come fosse l’unica cosa sensata da fare in quel fine pomeriggio freddo ed oscuro di novembre.
“Hai ragione,” lo guardai e pensieroso comincia ad accarezzarmi le sopracciglia “ questo mondo non accetta più i silenzi.”
“Esatto!”
Infervorato dalla mia momentanea connessione buttò la sigaretta sul selciato bagnato e venne a sedersi di fronte alla scrivania.
“Scrivere, oggi, è la prova della propria esistenza in vita”, riprese Luca con aria malinconica, “ è come se i nostri sentimenti per prendere corpo debbano essere raccontati da un io narrante”.
“Mah. Tutto sommato in molti casi è stato un bene che chiunque potesse dire la sua, un segno di democrazia”
“Certo ma che ci si riduca a ripetere, copiare ed incollare cose scritte da altri, non è segno di democrazia. Io non parlavo della notizia, mi riferivo a questa esigenza contemporanea di scrivere: siti personali, blog, forum”.
“Luca, per quanto mi riguarda ognuno è libero di fare quel che gli pare. Il problema non è per me chi scrive o fa cazzate ma chi ne parla, ci si crogiola e, quando serve, non lo manda a cagare.”
Mi stavo innervosendo, non avevo nessuna intenzione di farmi coinvolgere da Luca in queste dannate dinamiche delle community e, forse per questo, le mie risposte cominciavano a colorirsi eccessivamente.
La porta si aprì improvvisamente come un guasto alla pellicola di un film insopportabile.
Era Teresa.
“Simone non c’è!” La banalità della mia osservazione era figlia del mio stato d’animo.
“Questo posso vederlo da sola”, notai il gonfiore dei suoi occhi come si avvicinò a noi due, “non lo sento da due giorni: ci siamo lasciati”.
Vidi i suoi occhi lucidi d’amore e le sue labbra tremanti che non rendevano l’evidenza dell’enorme sforzo che doveva fare per non cedere e scoppiare in un pianto nel mezzo della stanza.
Feci per dire qualche cosa ma non ne ebbi il tempo.
“Sono passata per te”, la sua espressione si fece dura e la rabbia le procurò la forza di asciugarsi le lacrime e fermare il tremito della bocca, “ sono passata per dirti che sei uno stronzo!”
“Uscì dalla bottega sbattendo violentemente la porta. Il suono era quello di mille vetri in pezzi. Guardai la vetrina: era intatta. I vetri in pezzi li portava via Teresa con se come un manto, uno strascico luccicante quale un lago di montagna.
Le parole caddero in gola come pallottole a fine corsa. Era stato meglio così, avrei potuto fare solamente altri danni.
Luca mi guardava soffocando un sorrisetto. Lo guardai in tralice e pensai che sarei dovuto andare a cercare Simone.
“Luca chiudi te, fai il favore. Le chiavi sono qui nel primo cassetto”, mentre gli parlavo presi i soldi in cassa e mi addentrai nel ripostiglio ad imbacuccarmi, “lascia le luci accese e non tirare giù la serranda, passo dopo io. A casa ho le chiavi di riserve, quelle me le riporti domani”.
Attraversando la stanza velocemente, lo vidi sedersi al mio posto guardando la vetrina come un fantasma.

http://www.albatique.com/DenisePaquette.html

 
 
 

Post N° 13

Post n°13 pubblicato il 04 Dicembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

La bambina si accorse del vecchio appena l’autobus che l’aveva portata fin lì, a due passi da casa, rumorosamente ripartì lasciando dietro di se fumo ed acre odore di freni.
Le macchine sfrecciavano indifferenti alla vita. Dall’altra parte della strada il vecchio stava seduto su una panchina abbracciando un’enorme giara, di colore nero antracite, posta di fianco a lui.
Il vecchio sembrava sofferente, disperato.; il vento faceva vorticare i suoi lunghi capelli come spighe di grano al vento. Guardando meglio si accorse che quella chioma canuta era resa dorata dai riflessi del sole. I suoi occhi sembrarono risplendere come i loro sguardi si incrociarono.
Mentre attraversava la via sulle strisce bianche, saltellando attenta a non toccare il nero asfalto, ripensò alle parole della compagna del padre: “ Tu non devi aver paura della gente. Sei nata brutta e quel calcio di cavallo in bocca non ha provocato più danni di quelli di madre natura”.
Pensava spesso a quelle parole alle quali non riusciva a dare un senso: l’unica cosa che capiva era il silenzio del padre.
Ci pensava spesso quando le sue amiche raccontavano delle raccomandazioni fatte al mattino mentre si caricava la cartella di libri impossibili da portare e merendine noiose. Lei quelle raccomandazioni non le aveva mai sentite. Solo una lontana zia una sera, tenendola sulle gambe, le disse “Attenta agli occhi dell’odio”. Lei rispose che li vedeva tutte le sere prima di spengere la luce. Sua zia non disse nulla, vide solo che piangeva mentre la metteva a terra.
Giunta vicino al vecchio si meravigliò di trovarlo ancora seduto lì. Il suo aspetto, da vicino, era ancora più livido, ed i suoi vestiti sembravano puliti seppure dimessi.
“Cosa c’è nel vaso” chiese la fanciulla tirando su col naso.
Il vecchio la guardò come si guarda uno specchio; si aggiusto la chioma alla meglio.
“Devo lasciartela figliola”, abbassò lo sguardo alle cicche che incorniciavano la panchina, “nnon sono riuscito nella mia missione”.
“La bambina con un sobbalzo si mise a sedere vicino all’anfora accarezzandola.
“Cosa contiene?”
“I giudizi degli uomini”, fece il vecchio con fare serio, “avrei dovuto metterli tutti qui dentro perché non ce ne fossero più in giro a fare del male”.
“pensi che io ci potrò riuscire?”
“No”.
Il vecchio si mise a respirare più intensamente l’aria che vibrava tutto intorno come suoni. La bambina vide il traffico rallentare, gli guardi assenti delle persone al volante come attraverso una lente di ingrandimento. Le sembrò di percepire i pensieri.
“La natura”, riprese il vecchio alzandosi, “la natura figliola non è buona ne crudele nello scegliere. Puoi credere al caso come puoi credere al disegno della notte dei tempi. Gli estremi si attraggono. L’unica cosa che devo dirti ancora è che non devi credere di esser sola. “

http://www.artinvest2000.com/marcello_mascellani.htm

 
 
 

Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 01 Dicembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

Il gatto ha labbra grosse e zampe di tigre, sta seduto sul davanzale in granito della finestra. Guarda dentro la stanza con la pazienza di chi non è insofferente all’attesa. I bambini giocano chiassosamente. Fuori la neve scende a fiocchi grossi come palle di natale; leggera come i pensieri del primo sonno, si scioglie sul folto pelo del gatto come acqua nel deserto. Il gatto ha un cuore grande come i suoi occhi; e i suoi occhi, a guardarli bene, sembrano talmente grandi da poterci entrare dentro con una carrozza, come nel tunnel della magia alla fiera di maggio. L’aria è mite e, dalla finestra socchiusa, non entra gelo ma fresca aria d’inverno.
Il gatto osserva, con rapidi movimenti della testa, gli spostamenti della micia tra i bambini; tra le loro gambe a fare le fusa, in braccio ai più intrepidi per farsi lucidare il pelo, immobile di fronte all’unico adulto nella stanza: una giovane donna che sorridendo osserva i giochi di bimbi.
I giochi di bimbi sono il sogno dei giochi degli adulti. La giovane donna lo sa bene, mentre li guarda giocare, così sorride a ciascuno e ad ognuno è pronta a regalare un dolce e innocente “sì!”.
Qualcuno, poi, ha una storia da raccontare così che tutti ascoltano e replicano; anche la gatta ha il suo bel dire a riguardo di questo e di quel pasticcio.
La luna bussa alla finestra con aria da vigile urbano: si è fatto tardi.
La gatta, con un salto, esce dalla finestra come sfoglia di pasta tra i rulli dell’impastatrice. La donna chiude la finestra sugli sguardi attenti dei due gatti. I bimbi tornano a casa salutando i presenti e lanciando un pensiero di fiore su di un aereo di carta, miracolosamente scampato alla serata, a chi non c’era; magari vedendolo passare alla finestra, tra i fitti fiocchi bianchi, sgancerà sorrisi e piacevoli racconti per la notte.

http://www.hortusmusicus.com/opere/opere.php?aut=BeneventiAlberto

 
 
 

Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 26 Novembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

“Andiamo al cinema stasera?”
“Non so”.
Mi guardo il conto dell’operatore telefonico come una carta del menù: cerco di capire dove spendo troppo.
Sarah entra d’impeto. Mi fa temere seriamente per la tenuta della porta.
“Diavolo, avete sentito che freddo?”
Si toglie il cappelletto di lana ed è buffo vedere il suo naso rosso violaceo. Si accorge del mio sguardo e mi sorride. “Beh? Cos’è sto silenzio?”
“Ci stavamo per organizzare la serata”
“Beati voi. Tra poco vado a preparare la cenetta per il mio tesoro, poi penso nanna. Domani mattina mi viene l’idraulico. Ma che ne sapete voi!”
“Già restare scapoli avrà pure dei vantaggi”
“Solo vantaggi! Chi portate a cena stasera?” Mi guarda con aria di sfida.
“Perché guardi me? Poi non capisco come le tubature non si rompano mai nelle case degli uomini singles, solo in quelle delle donne sposate“.
Sarah non raccolse.
“Domandavo a te perché Luca sembra dormire in piedi”
Luca la guarda e le sorride. E’ rassegnato ad essere preda dei suoi strali.
“Comunque non so. Forse andiamo al cinema”
“Non fai contenta nessuna, stasera?”
Mi sta provocando. Sto al suo gioco.
No. Non ne faccio contenta nessuna: le lascio tutte alle loro gioie casalinghe.”
Mi guarda in tralice.
“Sei forse geloso dei loro uomini?” Mi guarda divertita e si mette a sedere di fronte alla scrivania.
“Si!” Devo aver fatto una faccia seria.
“Lascia stare Sarah. Stanotte ha fatto brutti sogni”. Luca interviene quasi annoiato, senza staccare gli occhi dalla pagina dei cinema del giornale che ha tra le mani.
“Invece si. Credo di esserne geloso. Tradiranno pure i loro uomini ma poi è da loro che tornano”
“Ne sei invidioso?”
Sarah comincia a seguirmi nei miei ragionamenti. Questo è pericoloso.
“Non esageriamo adesso”, un sorriso provvidenziale stempera gli animi, “ diciamo che mi faccio delle domande. A volte me li immagino a letto; lei che torna a casa dopo essere stata con un altro e lui a chiederle, distrattamente, com’è stata la serata con le amiche, dando il bacio della buona notte a quelle labbra che, fino a pochi istanti prima, hanno assaporato ben altri umori”.
“Questo capita agli uomini e capita alle donne”
“Ha ragione Luca”
“Certo. Però credo che la donna accetti per amore o per paura, l’uomo per vigliaccheria”.
“Che sogno hai fatto stanotte?” Sarah non sembra affatto indispettita dalle mie affermazioni.
“Non era ieri notte, era l’altra. Stanotte ho sognato del film che ho visto ieri sera: ‘ La sottile linea rossa ’ ”
“Ah sì, di quel regista mito inglese. E cos’hai sognato?” Sarah mentre parlava si stava già rimettendo il cappellino.
“Americano, ‘Re’ Malick è americano”, poi sorridendo, “ Ho sognato che a turno - c’era una coda lunghissima che si formava fin dalle più remote regioni del mondo - facevamo tutti noi esseri umani un giro nel Vortice di Prospettiva Totale!”
“ Eh?” Sarah non riusciva più a seguirmi. Tra l’altro stava per uscire. “Poi mi spieghi con calma, un bacio a tutti e due, fate danni stasera”. Usci prepotentemente com’era entrata. Una folata d’aria gelida prese il suo posto nella stanza.
“Telefono a Valeria. Mi ha detto di avere un’amica che voleva vedere ‘La seconda notte di nozze’ “
Sorrisi e mi spazzolai i capelli con le mani.
“Ok!” Fuori iniziava a piovere di nuovo. Chissà cosa dovrà lavare tutta la pioggia di questo inverno.

http://www.navedelarte.com/artistas/Eduardo%20Vega%20de%20Seoane.htm

 
 
 

Post N° 10

Post n°10 pubblicato il 13 Novembre 2005 da malcom44
Foto di malcom44

La nebbia è strappata da fasci di luce giallastra. Dietro ogni lacerazione il buio che non parla. La voce proviene da sotto un lampione di gesso cui il vento sottrae le polveri e lo sagoma in forme mutevoli fino alla sua prossima consunzione. Gli occhi dell’uomo, sotto la tesa del cappello, sono più neri del buio; la sua mano emerge dal cappotto come dalle acque del mare di notte, alla luna. Tende una lama scintillante alla donna che lo guarda piangendo.
“Prendilo, è il mio regalo per te”
La lama scintilla nella mano tesa e sanguinante. Le porge un manico nero di corna di muflone all’altezza del petto.
“Perché mi fai questo? Io non ti ho chiesto nulla. Tanto meno un coltello dalla parte del manico”
“Sono io che te lo offro, pronto per uccidermi”
“Io non voglio ucciderti”
“Se non mi ami uccidimi”
“Io credo di amarti”
L’uomo strinse ancora di più la lama.
“Uccidimi adesso. Meglio morire per mano tua piuttosto che per quella di uno sconosciuto alla fermata d’autobus”
“Tu non sai quando morirai ne come”
“No. Però so che accadrà”
“Io non voglio questo. Io credo di amarti ma non quanto te”
Le labbra rosse della donna tremavano sotto i colpi delle parole. Il calore dei loro colpi lasciava la nebbia sospesa intorno a loro: acquistava consistenza, come una grotta.
L’uomo mise due dita sulle labbra della donna ad interromperla. Le sussurrò all’orecchio il bacio che non le diede. Le lasciò il coltello nelle mani allontanandosi nel buio.
La nebbia tornò a posarsi sui loro corpi non più caldi come prima. Nel buio della notte le parole dell’uomo.
“L’ equilibrio dell’amore è questo”.

 
 
 
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