Creato da chevipera29 il 07/04/2010
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Alga Madìa - I filamenti d'oro

Post n°171 pubblicato il 06 Febbraio 2011 da chevipera29
 

Forse è il ricordo di una antica lettura, di una leggenda o un sogno o una favola che qualcuno mi raccontò da bambina. “Quando due persone fanno l’amore nasceranno sul loro ventre dei filamenti d’oro e loro si sentiranno legati, l’uno all’altra, per un periodo”. Non diceva per quanto tempo, o almeno io non lo ricordo, e questo negli anni mi ha sempre ricordato che nulla è per sempre: non in maniera scontata, certa, ipotizzabile. Una frase che mi fa ancora sorridere per la sua forma delicata, fiabesca, sicuramente pura – i filamenti d’oro che crescono come pianticelle di menta e si riproducono a dismisura – . Un sapore di fiaba orientale, ma dal significato profondo.

L’amore è cosa trascendente e non a caso l’anonimo autore di questo racconto di cui non so o non ricordo il seguito parla di amore e non di sesso , di amore e non di incontro casuale, celere, quasi fulmineo; di legame e non di un incontro privo di consapevolezza, di emozione, di un seguito.

Pensavo: quei filamenti crescono solo in coloro che quel gesto lo fanno spinti da un sentimento reale e profondo. In un mondo dove tutto è lecito, un mondo che a volte dimentica che l’amore, comunque si voglia intendere, è alla base di qualunque credo religioso e che ha una composizione non solo chimica, ma morale, spirituale, cerebrale. Forse l’unica vera attrazione di questa vita.

Ciascuno di noi è consapevole dei  filamenti sulla sua pancia e sicuramente non è fondamentale la durata di questo periodo, ma è umano immaginare che sia per sempre: sperarlo come nella consapevolezza di eternità.  E rubo le parole al testo di una canzone preziosa di Nicolò Fabi, bella quasi come credere ai fili d’oro – “quando un gesto primitivo si fa divino” . Ecco un gesto antico, bestiale ma che può assumere i connotati di  soprannaturalità.

Mi perdonino i miei lettori più arditi, più audaci, ma credo valga la pena pensare che in un gesto così sublime dovrà per forza esserci qualcosa di sovrannaturale, trascendentale, meglio, di divino.

Alga Madìa

 
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Alga Madìa - Quel sogno che sembrava realtà

Post n°170 pubblicato il 06 Febbraio 2011 da chevipera29

Il cappotto blue con un piccolo rever di pelliccia chiaro lo aveva appoggiato sul braccio, anche se poi lo rivide sul bracciolo della poltroncina su cui era seduto. Erano uno di fronte l’altra e il suo sguardo era sereno, quasi dolce di chi è venuto sin lì con un compito preciso. I ricordi di Emma era sbiaditi ma in quei minuti insieme le sembrò tutto sin troppo chiaro. Il bar che li ospitava non era molto accogliente, sicuramente piccolo, ma poco importava, noncuranti com’erano di ciò che li circondava.

“Devi avere pazienza con lui, tanta pazienza. Sapessi quanta ne ho dovuta avere io. … e poi devi considerare che lui tutte le sue energie le ha investite nel combattere la malattia e ora che l’ha vinta, sicuramente sarà un uomo diverso”

“Ma lei da che parte sta?” gli chiese Emma alzando lo sguardo e cercando in lui la complicità che le stava offrendo.

“Ma dalla tua, no? Ti pare che sarei venuto fin qui, a Nettuno, sennò? Avrei fatto prima ad alzare il telefono e parlare con lui … Poi c’è un’altra cosa che devi sapere: è importante.

“Posso?” si avvicinò in cameriere con la bottiglia di prosecco che avevano ordinato. Ne versò prima ad Emma poi fece per versarne anche a lui, ma il suo giocherellare con le dita sul bordo del bicchiere glielo rendeva pressoché impossibile.

“Posso, Avvocato?”  Lui era concentrato sugli occhi di Emma, che forse cercava risposte ed era per questo che era andato fin là: per dargliene. Staccò di colpo la mano dal flut lasciandone libero l’accesso, rispondendo ironicamente.

“Se vuoi, certo che puoi farlo, anche se io in realtà ho smesso di bere da un pezzo!” il cameriere non comprendendo il senso della sua risposta versò da bere anche a lui, senza interrompere ancora la conversazione tra i due che già sembravano molto attenti ai dettagli delle loro parole.

Anche un gesto, un sorriso, una gestualità diversa poteva essere importante. Non era suo costume fare delle domande, quindi lei si accontentò di ciò che le veniva detto, parole di chi sa e ti vuole necessariamente mettere al corrente del suo sapere. Emma bevve sorseggiando quello che a lei sembrava il più prezioso dei vini e lui la guardava, quasi a rassicurarla …. ecco, non voleva che lei si spaventasse.

“Ora devo andare via” disse con tono un po’ più deciso e alzandosi le passò la mano tra il collo e l’orecchio disegnando con un breve movimento parte del tondo del suo viso, fino al mento. Lei si sentì sicura, almeno in quel momento le parvero sufficienti le sue risposte. Alzando un po’ la voce si rivolse al cameriere dicendo:

“Tanto qui è tutto pagato dall’altra volta, no?”

Non ci fu un saluto formale fra loro, né un appuntamento futuro. Emma non si girò a guardarlo andar via oltre quelle vetrate: sapeva bene che non lo avrebbe visto … I suoi occhi rimasero incollati alla sedia su cui lui era stato seduto fino a qualche secondo fa. E quando vide che il suo cappotto, quel cappotto col colletto di pelliccia, era rimasto lì, sorrise. Sapeva bene che  ora apparteneva ad un’altra persona.

Alga Madìa

 
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Alga Madìa - La vita che è ora

Post n°169 pubblicato il 06 Febbraio 2011 da chevipera29
 
Tag: Vita

 

Una vita fatta di certezze. Cose delle vita che paiono apparentemente statiche, granitiche, come dentro un forziere. Ecco, mi viene da domandarmi  quanta superficialità appartenga alla specie umana. Com’è possibile  dare per scontata la propria salute, il proprio lavoro, la vita.

La vita cambia o se ne modificano alcuni aspetti, spesso diversi, insieme ai nostri pensieri, il nostro credo, la nostra stessa faccia.

A vent’anni è tutto permesso perché si ha ‘il mondo in mano’ e si immagina la propria invincibilità, l’immortalità. La sfida è aperta fino ad essere capaci di farsi del male, tanto si è sempre più forti di qualsiasi cosa. Oltre i trenta questo è sinonimo di stoltezza.

Succede che, quando meno te lo aspetti, le cose cambiano, a tuo favore sicuramente, ma anche al contrario: e cambiano. Le avevi in mano, in pugno, erano tue. Potevi essere sana, bella, ricca, famosa, intelligente, ma ogni cosa si può modificare in pochi istanti o magari seguendo un percorso più lento, ma continuo e inesorabile, a volte irreversibile.

Ecco, la stupidità di alcuni  si spinge fino a questo: a non godere oggi di una giornata in cui il sole entra e pervade il corpo di quel calore che dà nuova linfa alla giornata, perché tanto il sole ci sarà pure domani. A non apprezzare la preziosità di un sorriso, della carezza di quella mano ormai solita che la consuetudine dovrebbe rendere ancor più tesoro, perché è ancora quella pelle che cerca di sfiorare. Perché il movimento di quelle dita che delicatamente disegnano il contorno del nostro viso può tradursi in parole che racchiudono un sentimento profondo.

E magari si passano giornate intere a pensare ad altro, ad arrovellarsi il cervello per cose che non fanno la felicità, ma la negano. Difficile comprendere quando l’epoca del ‘gaudeamus igitur’ comincia ad allontanarsi dal nostro percorso e il mondo, la vita,  non stanno sempre nelle nostre mani: sfuggono, si modificano. 

C’è una fermata: si scende. E così ciò che era scontato nel nostro quotidiano non c’è più. “Deve essere difficile lasciare andare qualcosa di così prezioso” , frase celebre di favola un po’ sciocca e dal finale davvero scontato.

L’invito a godere appieno dei momenti semplici che una vita preziosa regala perché è nel sapere apprezzare le cose semplici che sta la differenza. Salvo poi non trovare il coraggio di prendersela contro gli astri o con la maledizione della prima luna.

Alga Madìa

 

 
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Alga Madìa - Armonia....

Post n°168 pubblicato il 16 Gennaio 2011 da chevipera29
Foto di chevipera29

Se fossi un poeta dedicherei una poesia ad una parola: armonia. Non lo sono, ma credo contenga i significati più belli che si possano racchiudere dentro un unico termine.

La natura è armonia, il giorno esiste perché c’è la notte e il loro susseguirsi è lento, delicato, mai traumatico. Il passaggio tra un giorno e l’altro prevede tutte le sfumature di colore che si potrebbero ritrovare nella tavolozza del più grande pittore: al tramonto, all’alba.

L’armonia della natura disorienta chi è capace di coglierla, chi sa dedicare tempo alla vista della perfezione del creato: minuti preziosi che spesso vengono spesi per arrabbiarsi, per colpire l’avversario, per cercare di vincere a tutti i costi, in questo mondo di primi della classe, sgomitando e bluffando per essere i migliori agli occhi del prossimo.

Le fasi lunari, la terra che risponde pronta, attenta, puntuale. Le maree, le onde del mare che con qualunque  forza paiono danzare e muoversi seguendo il ritmo di una valzer lento. I venti che disegnano i contorni delle dune nel deserto, che ne evidenziano i colori del rosso e dell’oro. Il grano che il vento sposta lentamente facendolo ondeggiare, ricordando il movimento dell’esile giunco.

Armonia sono i colori, il nostro imparare a mescolarli, abbinarli per dare un tocco personale a una casa, una camera, a noi stessi. Vestire di colori che fra loro facciano pendant con l’incarnato, nelle gradazioni che ricordano quelli della terra, del cielo, del mare … evitando il grave errore che ci faccia sembrare caduti in un’unica tanica di vernice.

Armonia è garbo nel parlare, nella gestualità, nello scrivere. Ho sempre pensato che un bravo scrittore non sia solo uno che ha ben studiato la grammatica al liceo e sappia usare la sintassi perfettamente, ma che sia una persona capace di assemblare parole in maniera armoniosa, appunto, fino a produrre in chi le legge emozione, riflessione, silenzio.

Ecco, anche il silenzio credo sia armonia: quando si abbandona la presunzione di primeggiare, di non sbagliare mai e si resta ad ascoltare la propria coscienza, il rumore delicato del respiro che accompagna i pensieri. Così, nell’incertezza di una decisione, di un giudizio affrettato e presuntuoso guardare il sole che si accommiata dal mondo regalando ancora una volta lo stupore di un tramonto solito, ma sempre nuovo, mentre un’armonia inaspettata pervade la mente e il cuore: immediatamente dopo ci si sente più liberi e la strada è descritta.

di Alga Madìa

 
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di Alga Madìa - A Latina il VII Festival pontino del cortometraggio

Post n°167 pubblicato il 11 Gennaio 2011 da chevipera29

Non c’è un sipario in questo teatro e così si è concluso solo, si fa per dire, fra gli applausi e il gradimento del pubblico il Festival pontino del cortometraggio. Un festival lungo ben cinque giorni e pieno zeppo di film, pardòn, di corti.

Al Teatro Moderno di Latina c’è un pubblico attento, di quelli un po’ ricercati, che ama il cinema, che ama  giudicare da sé, prima di leggere le recensioni, per non farsi condizionare. Un festival che è giunto alla sua settima edizione e sta varcando sempre più i confini nazionali con corti che sono arrivati da 42 paesi diversi.

I premi suddivisi per categorie sono stati assegnati tutti col supporto del gradimento del pubblico presente in sala. Una cerimonia un po’ lunga, ma resa più piacevole dalla presenza sul palco di numerosi registi venuti un po’ dappertutto. Molti i collegamenti via skype e telefonici; alcuni resi un po’ comici da qualche piccolo problema di linea.

E’ così che a Latina si è aperto il nuovo anno: all’insegna della cultura. Una cultura non spocchiosa, ma di quanti amano realmente il cinema. Vedere, guardare, ascoltare prima di esprimere giudizi. Una cultura che nelle province, in genere, si pensa sia appannaggio di quei pochi che si ritengono dotti e, in maniera, come dire, provinciale, giudicano e valutano a volte senza sapere, magari snobbando. Qui, in questi cinque giorni, si è respirata un’aria di semplicità, forse di sola voglia di scoprire, se ci sono, e ce sono, nuovi talenti, nuove professionalità, artisti nuovi.

L’impressione è che tutti seguano con grande attenzione lo svolgersi del concorso e, come a Venezia durante le prime, si applaude, si fischia, si resta freddi, si ride. Un’organizzazione divenuta negli anni sempre più complessa perché il successo di questa kermesse ha portato quest’anno 502 corti da visionare e selezionare nei mesi precedenti. Quindi un notevole dispendio di energie dei ragazzi capitanati da Meri Drigo, storica colonna portante del festival e supporto morale e concreto per tutti gli altri.

Meri sorride: è visibilmente soddisfatta del consenso crescente di questa sua creatura che sta diventando ormai grande e, pur condividendo il successo con tutta la macchina organizzativa, gioisce e si commuove all’applauso generale che le viene rivolto in segno di apprezzamento e stima personale.

Una provincia, Latina, in realtà agli ultimi posti in tutte le classifiche nazionali che ha offerto, in questi giorni, uno spettacolo di grande rilevanza culturale e artistica, di persone che masticano sapere ma non lo ostentano, che con pochi soldi costruiscono  – in termini di tempo – piccoli capolavori.

Piacevoli e sicuramente molto interessanti anche i corti di animazione. Resta solo da chiedersi dove, chi non ha avuto, come chi scrive, il piacere di partecipare, si possano vedere. Un sito cui fare riferimento e su cui saranno pubblicate, nel dettaglio, tutte le classifiche dei film in concorso: www.festivalpontino.com.

Altrimenti, perché un film in sala è tutta un’altra storia, per tutti, l’appuntamento è per l’anno prossimo per quella che sarà l’ottava edizione. Ad majora …

Alga Madìa

 
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Alga Madìa - di anonimo, di non si sa quando (sicuramente era la fine di un anno) e non si sa perchè....

Post n°166 pubblicato il 30 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

Cominciava a far freddo in sala. Non era ordinario tutto questo. Lui pensava a quella volta che era entrato in chiesa. Era un pomeriggio d'inverno, pioveva. Lei lo aveva invitato senza dirlo, accadde tutto in modo ordinato, naturale. Era entrato, lei era raccolta nel banco di quinta ultima fila, raccolta con intensità. Prima di avvicinarsi l'aveva seguita di lontano, aveva pianto nel vederla, cosi.
le toccò una spalla, lei lo guardò con occhi partecipati, quasi con un velo di lacrime.
lui capì' che l'amava più dell'amore.

La chiesa era muta, eppure era piena di voci. Lei indicò la croce e raccontò una storia. la storia di uno che non credeva, uno scettico. Lui era lì sulla croce retto da due fili, ma pareva volare. Non c'erano tanti altri segni, la chiesa era pulita. Lei non finì di raccontare la storia della croce, troppo sentiva quell'incontro. Lui non parlò, guardava i muri, il tetto di travi di legno, una capanna di un Dio che sarebbe stato umile e senza paramenti.
L'avrebbe baciata per la carne che è la scelta del Dio che si è fatto carne. lei e lui si erano incontrati. incontrati, e lui scoprì la fede che era credere che tutto non sarebbe finito qui. e lei era la prova che c'era un'altra vita.

 

 

 

 
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L'anno che verrà

Post n°165 pubblicato il 29 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

C’è un momento per tutto nelle nostre giornate:  un momento per parlare, per agire, per ascoltare, per fare silenzio. Ecco, questi sono i giorni in cui si dovrebbe fare silenzio.

Abbiamo consegnato da poche ore Natale 2010 al passato, alla storia e adesso è tempo di bilanci: consuntivi e preventivi. Cosa avremmo voluto dal 2010, cosa avremmo preferito non ricevere in dono dall’anno che si sta per concludere? E dal 2011 cosa ci aspettiamo? Quali sono le richieste che stiamo per fare all’anno nuovo?

Che confusione: nel silenzio i pensieri si mescolano fra loro. Le cose belle come le onde del mare agitato si uniscono, si fondono con il male, con le esperienze negative che vorremmo dimenticare, che magari avremmo preferito non vivere.

Forse non esiste il buono e il cattivo. Leggo che in ognuno di noi ci sono entrambe le componenti. Forse le persone quando fanno del male non se ne rendono conto. Il mare forza 7 smuove la sabbia che è sotto, e il suo colore diventa indefinito, indefinibile.

Provo a ripetermi che il buono non esiste, non esiste il male. Allora logica vorrebbe che va tutto bene. Perché porsi domande, chi pensa invecchia e chi dice ciò che pensa è scocciante, infastidisce, come il grillo parlante.

Sarebbe bello non pensare, lasciare che le cose prendano il loro senso e la corrente sia l’unico moto che devono seguire. Perché remare contro, perché frapporsi in mezzo per modificarne  l’andamento? Tacere e ascoltare. Guardare e non parlare.

Sorrido: non saprò mai assecondare un destino che va diversamente da come credo sia giusto che vada. Sarò grillo parlante fin quando qualcuno con una sassata schiaccerà contro un muro.

Parlerò delle ingiustizie che vedo finché avrò voce e la mia penna inchiostro. L’anno che sta arrivando, fra un anno passerà e saremo ancora qua a cercare di capire cosa chiedere al prossimo e poi al prossimo ancora. Il mondo gira come deve, noi facciamo la nostra parte, senza paura, guardando la verità, con i nostri occhi, dritta negli occhi. Senza abbassare mai lo sguardo.

Non so se esiste il buono, sicuramente esiste la cattiveria. E a me il 2011 porterà ancora voglia di gridare al mondo delle ingiustizie, del male, delle falsità, del pressappochismo, di certe meschinità. Di tutte quelle cose che, ahinoi, questo nostro grande mondo, si porta addosso nel suo girare lento e inesorabile.

di Alga Madìa

 
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ALGA MADIA - L'AMORE CHE SCALDA IL FREDDO DELLA GROENLANDIA

Post n°164 pubblicato il 15 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

Un freddo che, come venisse dalla Groenlandia, coglie il nostro Natale di sorpresa. E noi.

 

Non siamo abituati e allora proviamo a scaldarci, le mani protette da guanti, sciarpe a prova di raucedine e piedi dentro stivali imbottiti.

 

A volte basta, a volta non è di quel freddo, di quello meteorologico, che soffriamo. E allora diventa tutto più difficile, invano aspetteremo un nuovo anticiclone atlantico che mitigherà la temperature. Un Natale che dovrebbe, come nel sogno di tanti, rendere felice chi non lo è.

 

Qualcuno pensa che le vipere siano quelle che in questo periodo vanno in letargo e invece tante rabbiosamente mordono dove possono, in qualunque direzione.

 

Il Natale più bello è un sogno e forse resterà un sogno, per tante persone trovare il sorriso – non la risata sgraziata -, un sorriso dolce e sincero. Persone che forse avrebbero bisogno di qualcuno che alzi loro il mento, qualcuno di cui potersi fidare, qualcuno che decida di dormire al loro fianco. In una parola un disperato bisogno d’amore. Persone disorientate, a volte ciniche, altre addirittura crudeli con l’unico interesse nella vita di arrecare del male: un male che farebbero anche alla loro stessa ombra, ferendola mortalmente per invidia, per timore, per propria insicurezza, pur di restare le uniche vincitrici indiscusse.

 

Come la matrigna di Biancaneve che immaginava di restare la più bella eliminando la sua, come dire, avversaria.   A volte ci riescono e il veleno nella mela funziona, altre no. E quando non ci riescono diventano se possibile ancora più cattive, senza trovare il coraggio di fermarsi, di dare una tregua a quella inutile battaglia monodirezionale.

A Natale tutti sono più buoni (boh), e varrebbe la pena augurare a quanti soffrono per la mancanza di amore, di un sorriso, vero e sincero, a loro rivolto, che quest’anno riescano a trovarlo sotto l’albero. L’invidia verso chi sta meglio (in qualunque senso e per qualunque cosa) non paga, non dà gioia. La cattiveria fine a se stessa alla fine si ritorce contro, portando muso lungo e viso cupo.

 

A Babbo natale chiederei di aiutare queste persone monche di una parte fondamentale che colmerebbe il loro essere, la loro vita. Rinuncerei a qualsiasi dono in cambio, non perché sia buona, ma perché significherebbe, per tutte le persone cui la vita ha regalato questo bene intangibile, impagabile e vero di goderselo senza doversi difendersi, senza più bisogno di guardarsi le spalle. Un sospiro profondo: di sollievo.

 

 

 

Alga Madìa

 
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ALGA MADIA - IL MIO REGALO DA BABBO NATALE

Post n°163 pubblicato il 14 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

Caro babbo natale ...

Iniziava così, mi pare. Vorrei scrivergli una lettera come quando ero bambina e mettevo i brillantini su uno strato di colla per rendere la mia richiesta più bella, più accattivante di quella degli altri milioni di bambini.

Avevo le idee chiare. Sapevo di cosa chiedere scusa ed immediatamente dopo iniziavo il mio elenco di regali che da lui, viste le scuse esplicite ed ufficiali, mi aspettavo. “Ruffiana” mi chiamava papà, tu riusciresti a convincere chiunque. Non capivo, ma funzionava.

Ora, con una immaginaria penna fra le mani e un foglio di carta colorato, comprato  con già i ghirigori  luccicanti, non mi viene da chiedergli niente che abbia un senso. “Fai cadere questo governo così magari uno nuovo avrà meno problemi e riuscirà a fare meglio oppure lascialo traballare come un birillo colpito violentemente ma di striscio dalla palla da bowling che dopo un lungo tentennamento riesce a decidere se andare giù o rimettersi ben fermo in mezzo alla pista”?

 Potrei chiedergli che le famiglie in difficoltà economica diventino una su cento, su mille e non una su cinque, come leggo in questi giorni o di non sentire più che una ragazza sparisce nel nulla per poi essere ritrovata morta in qualche posto sperduto qualche settimana dopo o mai più.

Parrei troppo buona, retorica, strappaconsensi. Ma forse una cosa potrei chiederla: una scatola rossa con un grande nastro dorato e con tanti fiocchi che si intrecciano sopra. Una scatola da chiudere saldamente, incollarla, se fosse possibile, per metterci dentro … tante parole.

Quelle parole inutili e offensive, quelle pesanti che involgariscono un po’ di più, se possibile, solo chi le usa e non si è ancora reso conto della grandiosità e della ricchezza del vocabolario italiano, che consente di dire di tutto senza necessariamente scadere nello stile. Ecco: parole, parole inutili, sbagliate, scorrette, fuoriluogo, che feriscono, fanno male, a volte uccidono. Sogno un mondo dove è ancora lecito sbagliare, ma doveroso chiedere scusa, un mondo dove l’offesa è solo preterintenzionale e mai voluta. Un mondo non di persone buone, la mia età non mi consentirebbe di sognare l’utopia, ma persone che sappiano cos’è il rispetto.

Almeno per sentito dire e capiscano, una volta compreso il significato, che il rispetto non si chiede, si ottiene col comportamento serio, lineare ed onesto di ciascuno. Ma si dà, si deve a quanti onestamente fanno ciò che viene chiesto loro, con dedizione ed impegno.

La custodirei, la mia scatola rossa, per tutta la vita insieme al mio sogno. Questa penna non scrive, mi sa che tanto è inutile cercarne un’altra e, se devo dirla tutta, da quando sono cresciuta qualche dubbio che babbo natale esista comincia a venire anche a me ….

E la scatola con le parole non me la porterà mai.

Alga Madìa

 
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ALGA MADIA - LOCH NESS: il mostro che non ti aspetti

Post n°162 pubblicato il 09 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

Qualcuno doveva averglielo detto che quel lago era infido, apparentemente docile, nascondeva con certezza la malvagità umana, ma lei non credeva alle chiacchiere. Da sempre doveva sincerarsi sola di quanto sentiva dire. Era un giorno di chissà quale mese, il lago era lì, la guardava e lei ricambiava la sua attenzione distrattamente. Poi guardò meglio, era calmo, quasi in maniera irreale. L’aria mite. Sembrava un quadro dipinto con colori pastello delicati da un artista con la mano leggera. Si offriva con grazia, quasi con rispetto. Decise di bagnarsi i piedi: pure la sua temperatura era gradevole. Camminò verso il centro e infine scrollando le spalle si immerse completamente in quelle acque che la avvolsero tutta. Silenzio intorno, come una culla, dondolava, nuotava lentamente, mentre tutti i suoi timori cadevano sentiva di doversi affidare. Il rumore dell’acqua che spostava muovendosi era rassicurante. Un rumore che conosceva bene. Sorrise felice. Stava per arrivare al centro di quello che sembrava un cerchio perfetto quando sentì dal fondo un movimento, ma era buio, non vedeva, sentiva ora come delle onde, quell’acqua elemento naturale prezioso, adesso si muoveva senza una regola, senza una direzione. Il suo cuore batteva forte ed improvvisamente il mostro si erse in tutta la sua grandezza spostandola di diversi metri. Forse sono tante, più di quanto noi possiamo immaginare le persone di cui non dovremmo fidarci. Forse tantissime quelle di cui non dovrebbero fidarsi le nostre bambine, le nostre ragazze. Ragazze che oggi si chiamano Yara, Sarah, Meredith; quando io ero piccola si chiamavano Emanuela, Maria Rosaria, Donatella. Il mondo si evolve ma non la sua malvagità. Cambiano gli stili degli approcci, le dinamiche, ma il male alle donne resta inspiegabilmente uguale. Mostri di cui ci fidiamo che ci fanno del male, volutamente, consapevolmente. Un male che ci toglierà i sogni, il sorriso, la vita stessa. Saremo sempre più deboli, la nostra forza fisica non sarà mai pari a quella del mostro nel lago. Un mostro che ammalia, convince, nelle cui mani siamo disponibili a mettere la nostra, affidandoci. Cosa bisogna insegnare alle nostre bambine, mi chiedo. A sorridere al mondo, cercando il meglio, anche il più nascosto, che c’è in ciascuno di noi per poi ritrovarsi vittime di zii, cugine, amici con cui si immaginava di trascorrere una serata spensierata? O diffidare di chiunque a prescindere e vivere una vita di paure perché il mostro potrebbe essere in ciascuno degli incontri che faranno? Un mostro che può avere il volto del portiere del palazzo, del postino, del datore di lavoro, di un amico di famiglia … resto perplessa e non so più trovarmi in un mondo che giornalmente scuote la mia serenità violentemente, sbattendo i mostri in prima pagina e parlando delle vittime solo per parlare del nuovo giallo da risolvere in tv o sui giornali. Emma riuscì a scappare dal mostro nuotando più forte che poteva, ma povera lei, solo dopo che il danno più grave le era stato fatto. E la sua psicologia chissà ancora per quanti anni avrebbe conservato quel ricordo che lei avrebbe voluto fosse rimasto nel punto più profondo di quel lago.

Di Alga Madìa

 
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ALGA MADIA - NOI, CHE ERAVAMO MIGLIORI...

Post n°161 pubblicato il 08 Dicembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

.… E da loro cosa vogliamo, cosa ci aspettiamo, che diventino quello che non siamo stati capaci di diventare noi?

I nostri giovani, i nostri ragazzi sono immaginati, definiti, considerati con la superficialità e l’arroganza tipica di ogni generazione rispetto a quella successiva. Li stiamo incolpando di tutto: non studiano, non parlano, bamboccioni, scansafatiche, parassiti delle famiglie in cui si rifugiano perché privi di capacità.

Viziati dalla vita e dai genitori, senza sogni né ambizioni. Esattamente questo sarebbero: esattamente quello che eravamo noi per le generazioni che ci avevano preceduto. Incapaci, allora, perché i ragazzi portavano i capelli lunghi (che: “visti di spalle chi è la donna non si sa…”) e le minigonne, noi. Quelli che, come si dice, hanno fatto il ’68 e quelli che oggi sono scesi in piazza in tutta Italia a manifestare contro una riforma della scuola e dell’università che non condividono.

Quelli che – ahimè, non mancano mai – hanno preso lo spunto per manifestare invece la loro voglia di violenza: allora e oggi. Se poi si considera che molti sessantottini, tra i più dediti all’uso della violenza, hanno ricoperto cariche politiche ed istituzionali importanti, bell’esempio che gli stiamo lasciando. Una storia infinita il conflitto generazionale pieno zeppo di adulti che si sentono arrivati, che hanno dato il massimo per riuscire nella vita, uomini – nessuno escluso – che si sono sudati la carriera e, il loro rigore morale non ha mai vacillato.

Di chi è la colpa se oggi non potranno (per alcune generazioni) intraprendere la carriera di docenza universitaria (come papà) pagando singolarmente il nepotismo sfrenato in cui si crogiolavano i loro nonni, passando da raccomandati a discriminati per ereditarietà?

Oggi vanno via di casa a trent’anni, ma forse, se sapessimo farci un serio esame di coscienza, è perché stiamo consegnando loro una società al 20% di disoccupazione, mentre “noi” l’avevamo ereditata al 4.

Di chi è la colpa, quindi? Non serve svilire i ragazzi che mentre studiano fanno i camerieri al pub, adoperano il loro tempo libero nelle associazioni di volontariato. Che per pochi soldi, e neanche sicuri, provano a rendersi autonomi economicamente rallentando il percorso di studi o comunque che in qualche maniera pensano a costruirsi un percorso di vita.

I vostri ragazzi non sono fra queste migliaia? Urge, allora un serio esame di coscienza e di autocritica. Possibilmente, se non sono troppo intenti ad autoincensarsi,  ancora costruttiva.

di Alga Madìa

chevipera@libero.it

 
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RIVEDUTO E CORRETTO - UN AMORE CHE NON CONOSCE ETA'

Post n°160 pubblicato il 03 Dicembre 2010 da chevipera29
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Di Alga Madìa

Lei è una donna di successo, di grande successo. Il talento l’ha accompagnata nel corso della sua carriera da rockstar italiana potenziandone la creatività, le scelte musicali. Nella sua vita non c’era spazio per altro, probabilmente. Di lei poco si sa, ma su tutto oggi risuona l’essere diventata mamma, all’età di 54 anni, quando per la maggior parte di noi è tempo, semmai, di diventare nonne. Il mondo si muove attraverso e con il sussidio di avvenimenti, fatti che accadono e che inevitabilmente ci modificano. Modificano le nostre aspettative, il nostro futuro (spesso) e tutto questo noi umani lo chiamiamo destino. Come se quando non siamo in grado di contrastarlo capiamo che è il momento di subirlo e lo lasciamo fare fino a  renderci snodati burattini dai fili mossi da non si sa chi. Non  ci ho mai creduto. L’uomo quando è forte riesce ad ottenere quello in cui crede sovvertendone completamente il finale. Questo deve essere successo a Gianna Nannini, quando ha deciso di diventare madre. Non ha pensato alla sua età, non ha pensato che quando la sua bambina avrà 20/25 anni lei ne avrà quasi ottanta. Forse si sarà voltata indietro e avrà sentito il bisogno di provare quella sensazione che qualcuno, con chissà quale ragionamento, ne ha fatto dono solo alla metà del genere umano. Quel sentimento di amore indefinibile, di simbiosi totale ( e reciproca) con quella creatura che da un momento all’altro mentre sei sudata, stanca, quando credi che le tue forze stiano per finire insieme alla sopportazione del dolore, qualcuno ti appoggia sulla pancia: un cucciolo, una miniatura di uomo che ti urla in un orecchio. Da quel momento la vita si trasforma. Quell’amore e solo quello per i figli, sarà il comune denominatore della vita. Niente concorrerà né distoglierà mai quel sentimento da quel bambino. Un grande bisogno d’amore, forse un po’ disperato quando gli anni sono così tanti, quando quell’amore enorme sarà l’unica offerta che si può fare a quel bimbo. Un compito duro, il suo, sicuramente più arduo di quello delle altre che diventano naturalmente madri tra i 25 e i 35 anni. Lei sarà madre e padre, sarà mamma e nonna, ma saprà diventare anche sua confidente, suo riferimento importante. Questa bambina annienterà tutto quello che fino a questo momento pareva importante. Renderà, agli occhi di quell’amore, tutto secondario e la sua mamma non conoscerà stanchezza, rinunce, rimpianti. Tutto questo in nome di un amore? Si, perché “amore” è un termine abusato, oltraggiato, sprecato e forse, proprio per evitare il rischio di contaminarlo, l’amore per un figlio meriterebbe di essere chiamato in un altro modo.

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LA VIPERA - UNA CULTURA VECCHIA MILLENNI

Post n°159 pubblicato il 26 Novembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

di Alga Madìa

Anna Pavignano è una importante sceneggiatrice, è bella, sorridente, solare. Parla dolcemente, di donne, di donne abusate, violentate nel corpo e nella mente. Succede a Sabaudia ad un convegno dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne. “Parla con lui” si intitola ma è di lui che si parla, di loro anzi, di tutti quelli che non sanno cosa sia il rispetto della donna. Uomini o bestie dal volto umano che non hanno non solo rispetto, ma neanche pudore, pena, che infieriscono sulle loro stesse figlie, sulle mogli. Violenze che si manifestano attraverso decine e decine di torture: femminicidi, mutilazioni genetiche, percosse, violenze sessuali. Un fatto culturale dice qualcuno. Poi un filmato che porta il nome del convegno con diverse interviste;  ragazzi che giustificano le violenze dicendo che in fondo sono quasi costretti a certe reazioni dinnanzi all’ostentazione sempre più frequente (anzi, senza limite) di nudi di donna. Donne che provocano. Tendono quasi tutti a minimizzare anche i più adulti: “ Si, l’ho picchiata, ma né più né meno di come avviene in tutte le famiglie”. “Se lo è meritata”. Attraverso questa “pratica” questi animali tendono  a sminuire totalmente il ruolo della funzione sociale della propria compagna o ( ex compagna ) mettendo in discussione proprio quelli che un tempo avevano riconosciuto come dei pregi, dei meriti. Amori che diventano patologia grave e sfociano nella brutalità (come l’uccisione con un coltello) proprio su quelle persone che si crede di amare. Lei è delicata, affronta il problema con serenità, ribadendo più volte che gli uomini non sono tutti uguali. Non l’ho mai pensato, come (grazie al cielo) non siamo tutte uguali neanche noi. Mentre rientro penso a come possa un amore, un amore vero, importante trasformarsi in odio. Quell’odio che può passare anche attraverso quella violenza psicologica volta ad annientare l’altra persona, ad umiliarla proprio laddove si sa essere più vulnerabile. E il problema è che spesso questi, come dire, atteggiamenti (?) diventano cronici fino a perdere il senso della misura, semmai c’è stata. Com’è vero che anche le violenze psicologiche segnano le persone ottenendo lo stesso esatto risultato di una violenza fisica. Continuo a ripetermi “un fatto culturale”. Le culture delle popolazioni non si evolvono in poco tempo, al contrario subiscono dei cambiamenti lenti e a tratti delle involuzioni. Aristotele diceva: “Una situazione di parità è nociva per tutti”. Nacque nel 384 a.C. Cosa vogliamo augurarci, che quasi 2500 anni di questa cultura siano sufficienti per iniziare ad invertire la rotta?

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CHE FORTUNA, ERA ANCORA VIVA! di Alga Madìa

Post n°158 pubblicato il 25 Novembre 2010 da chevipera29
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E‘ vero, era stata fortunata

Di Alga Madìa

La foresta non conosce zone protette, lo sapeva … cominciò a pregare in silenzio perché qualcuno la aiutasse. Non aveva altro con se. Non poteva altro. Fu allora che forse qualcuno la ascoltò, forse le accarezzò dolcemente i capelli più volte e quella mano forte sulla sua testa la rilassò fino a farle chiudere gli occhi, che nonostante il buio fitto, continuavano a restare sbarrati per il terrore. Forse Qualcuno provò finalmente pena, forse svenne, forse cadde in un sonno profondo. Ora un raggio di luce, flebile e delicato, filtrava attraverso gli alberi fitti, fitti. Si posò sulle sue gambe nude e sporche di terra, di fango, di sangue. Sentiva come un calore insieme ad un dolore sulla gamba.  Un calore ed una sensazione di liquido. Non riusciva ad aprire gli occhi, era caduta come in trance, in un sonno profondo. Trasalì mentre contemporaneamente ritrasse la gamba, come a raggomitolarsi per occupare meno spazio possibile. Un grido di dolore le uscì istintivo, ma per la paura di attrarre qualcuno, si portò una mano sulla bocca quasi a voler zittire se stessa. Un cane le era venuto vicino e si era sdraiato accanto alle sue gambe e le aveva leccato le ferite, fino a svegliarla. Ora la guardava, mansueto e incredulo per essere stato causa del suo urlo, come se l’avesse capito. Era rimasto fermo, immobile nella stessa posizione, praticamente parallelo alle sue gambe e muoveva solo la coda, in segno di offerta di amicizia. Il sole pallido le rendeva tutto più chiaro e quel cane sembrava un miracolo, lo avrebbe scoperto più tardi, qualche ora dopo. Non sapeva cosa fare, era grande ed aveva il pelo lucido, pulito, come se non fosse un abitante di quel luogo. Intorno a lei solo alberi di tutte le specie. Lei non sapeva riconoscerle, le decine di specie, ma si rendeva conto che i tronchi erano diversi fra loro. E pure le foglie. Impietrita sotto un gigantesco tronco non aveva più avuto il coraggio di muoversi. Era immobile, ma non aveva più paura: quel cane non le sembrava nemico. “Ehi!” gli disse. E lui capì, perché il movimento della sua coda si fece più rapido. Si alzò e le andò più vicino, verso il viso e cominciò a leccarla dappertutto. Lei si riparò un po’ con le mani, ma una le faceva male e la parte interna era graffiata dai tentativi di proteggersi in quelle lunghe ore. Quanti uomini quella notte l‘avevano immobilizzata, avevano abusato di le, l’avevano violentata selvaggiamente? Animali, bestie. Non riusciva a pensare molto: nel freddo delle prime ore del mattino nella foresta, l’unico calore che sentiva era quello delle lacrime che scendevano sul viso. Non riusciva ad alzarsi, ma doveva farlo. Era attonita, senza forza né fisica né morale che l’aiutasse a reagire, non aveva neanche più paura di quel posto. Pensava. – perché non sono morta?- Il cane al contrario sembrava sollecitarla ad andare via di là. Riuscì a trovare la posizione verticale, provò, con quel minimo di pudore che l’umiliazione aveva annientato, a tirar giù quella che era stata la sua gonna. Una gonna di seta beige, quasi color bronzo chiaro, fluida e larga al fondo e aderente al punto vita, sui fianchi.  Brandelli di stoffa ormai, macchiati di sangue e fango.  La guardava quel cane, non perdeva un solo attimo dei suoi movimenti, che erano incerti e goffi. Zoppicava un po’ , trascinava leggermente il piede sinistro. Si affidò all’unico essere che le sembrava umano in quella foresta. L’avrebbe riportata dove la notte prima la sua auto era rimasta in panne? Non aveva alternative. Mentre camminava sentiva colarle sulle gambe tutta la brutalità che quelle bestie erano riusciti a riversarle dentro. Una sensazione di schifo. Ancora lacrime e accanto a se il cane. Nient’altro. Pensava a quante offese aveva ricevuto nella sua vita. Ma le offese danno la possibilità di reagire, di combattere, di rivalersi. L’umiliazione, questa umiliazione, sarebbe rimasta nella sua mente e nella sua psicologia, impressa come il marchio agli ebrei quando entravano nei campi di concentramento: indelebile.  Si cominciava a sentire in lontananza il rumore di qualche automobile. Avrebbe voluto accelerare il passo ma al contrario qualcosa glielo rallentava. Aveva vergogna, pudore di mostrare a quel mondo pulito e ordinato, che aveva riposato e magari fatto l’amore, la faccia di una donna violentata, una donna resa un nulla. “Ma lei è ferita, oddio, ma che le hanno fatto? La porto subito in ospedale, vedrà, tra un poco starà meglio!” Emma non parlava, la bocca piena di lividi le faceva un male atroce. “Signorina, mia, ma perché ve ne andate in giro di notte? Io lo dico sempre a mia figlia …. Beh, comunque, le posso dire una cosa? Lei è stata fortunata. Si, perché questi balordi a volte, quando fanno quello che devono fare, alla fine le ammazzano pure, quelle povere ragazze. Ha visto quante volte succede?” Le lacrime sembrava avessero raccolto quanto di liquido avesse in tutto il corpo per uscire dai suoi gonfi occhi verdi ed arrivare giù, copiose, fino al collo. Con un fil di voce riuscì solo a dire “E’ vero, sono stata fortunata”.

 

 
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LA VIPERA - 50 ANNI DI TORTURE: E ANCORA NON BASTANO

Post n°157 pubblicato il 23 Novembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

DI Alga Madìa

50 anni non sono ancora bastati per convincere gli uomini a rispettare la donna, completamente, qualunque cosa faccia, qualsiasi cosa pensi. Troppi i fatti di cronaca, troppi i delitti impuniti, troppi ancora  gli uomini che ci pretendono come loro ci vogliono, immaginano, desiderano. Quelli che si vendicano di un rifiuto spaventandoci,  minacciandoci, usando tutta la forza che possono: fisica e psicologica. Uomini che quando usano violenza su noi riescono pure a trovarsi una motivazione valida per giustificare di averlo fatto. Che uccidono, che ricattano e violentano non solo fisicamente anche bambine.  Nel mondo in migliaia vengono trucidate e uccise e la storia custodisce secoli e secoli di umiliazioni e violenze: lo jus prime noctis, per esempio, mi pare fosse appannaggio esclusivo delle donne, che, detta così, sembra quasi una prerogativa dedicata. Siamo stanche, ma non basta. Si ricorda il 25 novembre  la giornata con cui tutto il 52% della popolazione mondiale (le donne, quelle che possono) dicono e gridano No alla violenza su loro stesse. Un grido ancora troppo flebile perché troppi ancora gli uomini che non lo sentono, che ignorano che la libertà è un diritto imprescindibile ed indiscutibile di ciascun uomo (inteso come genere umano). A Terracina ieri un uomo ha ucciso a coltellate la sua ex fidanzata. Solo l’ultimo delitto in ordine di tempo. Emma Bonino a “vieni via con me” ricorda quanto scalpore fece Lorena Bobbitt quando evirò il marito. Ancora ne ricordiamo il nome. Quanti gli uomini che commettono simili torture. Più di tremilioni di bambine vengono private della possibilità di avere una vita sessuale che soddisfi anche loro, attraverso la mutilazione dei genitali.  Un caso su quanti milioni? Una questione culturale dice qualche idiota: una definizione spesso ridicola perché abusata, ma in questo caso indigesta. Certo se pensiamo che in Italia il cosiddetto delitto d’onore è stato abolito meno di trenta anni fa … mi chiedo quanto dobbiamo ancora aspettare per avere la libertà vera di dire ad un uomo che non lo amiamo, per girare nelle strade di notte, al buio, in ascensore? Per accorciare l’orlo della gonna come ci piace. Quanto dobbiamo aspettare per non avere timore, in nessun momento della nostra vita, di essere nate donne?

chevipera@ibero.it

 
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ITALNEWS - RIVEDUTO E CORRETTO - "una data da regalare alla storia" di A. MADIA

Post n°156 pubblicato il 23 Novembre 2010 da chevipera29
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Un giorno per ricordare, un giorno per riflettere, un giorno che non vorremmo più sentire nominare, perché sarà diventato uno giorno come gli altri. Giovedì prossimo, 25 novembre, si celebra la giornata contro la violenza sulle donne. Donne, spesso bambine, violentate da sconosciuti, da parenti, da mariti; picchiate, offese e violentate anche psicologicamente. Donne che per vergogna non trovano ancora il coraggio di esporsi, di denunciare, di gridare la loro rabbia, lo schifo, l’odio che si può provare per questi uomini/bestie.

Non sempre sono persone che non conoscono, la maggior parte dei loro carnefici vive nella loro stessa casa o nelle vicinanze. Mi chiedo che soglia del dolore e quale soglia di amore debbano avere, loro, che il giorno dopo coprono i lividi mettendo su uno strato doppio di fondotinta, una sciarpa al collo e, se proprio qualcuno si accorge di qualcosa, sono subito pronte a dire che mentre tiravano giù dall’armadio un abito gli è venuta addosso una scatola di scarpe che, mannaggia, non sono riuscite a schivare. Padri che abusano delle loro stesse figlie.

Eppure l’amore è altro: questa è la patologia di un sentimento perverso e agonizzante che non può mai chiamarsi così.

Era il 25 novembre del 1960 quando tre sorelle (Minerva, Patria e Maria Teresa Mirabal) furono barbaramente violentate, trucidate, gettate in un dirupo per simulare un incidente. Lo fece un commando di uomini del regime Trujillo che come sappiamo non seppe far altro che lasciare il Paese domenicano  nell’ignoranza la sua popolazione  e più in generale nell’arretratezza e nel caos più totale.

Lo fece per circa trent’anni durante i quali molti furono, da parte della popolazione stremata e oppressa, i tentativi di reagire per provare a contrastare il regime dittatoriale. Così anche le sorelle Mirabal parteciparono attivamente  alla lotta contro Trujillo, diventando, loro stesse, rivoluzionarie.

Donne che non ebbero timore di mostrare la loro faccia più dura, diventando esempio vero di donne impegnate nella lotta per la libertà loro e del loro Paese. Ebbero questo coraggio e Minerva addirittura quello di respingere le attenzioni del Dittatore che pare se ne fosse innamorato.

Ecco perché il 25 di novembre è stato dichiarato il Giorno Internazionale per il NO alla Violenza contro le Donne, ed ecco perché in gruppi si incontrano e manifestano in tutta l’America Latina e nei Caraibi per esigere la fine della violenza contro il 52% della popolazione mondiale: le donne. Violenza che è stata definita femminicidio e che conta in America latina più di 1500 casi (ancora nell’ultimo decennio) continuano a restare impuniti. In Iraq l’onore della società irachena si garantisce attraverso innumerevoli violazioni all’integrità fisica, psichica e morale delle donne perché non raccontino apertamente quello che succede loro all’interno delle prigioni dell’occupazione.

Da quel 25 novembre sono passati 50 anni: molte cose sono cambiate, ma la violenza su noi (con le dovute differenzazioni tra Paese e Paese ) continua a rimanere protagonista nel mondo, anche in quelli “democratici” come il nostro. Tante  e varie , ahinoi, le violenza che ci toccano più o meno da vicino, ancora oggi, in forme e luoghi diversi: da noi non passa settimana che non si senta di una violenza, se non l’uccisione, spesso per motivi di gelosia o di rifiuto (esattamente come successe a Minerva Mirabal).

Succede ancora a Terracina, in provincia di Latina: l’ultima vittima solo in ordine di tempo. Vorremmo tanto regalare questa data alla storia, relegarla ai suoi libri: significherebbe che tanti di questi uomini avranno capito cos’è il rispetto, sapranno misurarsi, se proprio lo vorranno, con chi è fisicamente loro pari.

Avranno imparato ad amarci per quello che siamo e non per quello che dovremmo essere secondo il loro modo di pensare, rispettando la nostra bellezza, la nostra intelligenza, il nostro essere donne. Ma ad oggi, sembra ancora un sogno, chissà quale utopico sogno, fintanto che cronache, occultamenti, silenzi, omissioni e terrore rappresenteranno l’unico momento in cui una donna, solo per quel preciso istante, avrebbe preferito nascere uomo.

di Alga Madia

 
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LA VIPERA - CON GLI OCCHI CHIUSI

Post n°155 pubblicato il 19 Novembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

di Alga Madìa

Solita cena, soliti amici, solito argomento. Latina ha bisogno di facce nuove, i politici di professione hanno fallito, aria nuova. Poi una voce fuori dal coro: “Io vivo benissimo qui!”… E giù un elenco di motivi personalissimi per cui va bene così. Non capisco. Avevo in mente un elenco lungo almeno quanto le lettere dell’alfabeto. Poi comprendo che i motivi che il mio commensale adduce sono tutti di ordine diverso da quello comune a noi cittadini. Allora, penso: anch’io sto bene. Sono riconoscente alla vita perché da qualunque angolazione la guardi ha lasciato che si srotolasse come su un velluto, ma questo cosa c’entra con quanto ci offre il posto in cui viviamo?  La città in quasi 20 anni di amministrazione, direi poco attenta, l’ha riconsegnata ai cittadini con l’umiliazione peggiore che potessero ricevere: il commissariamento. Già questo da solo dovrebbe fare riflettere. Una città che avrebbe potuto diventare una città di mare e non restare “vicino”al mare. Una città inondata da una raccolta differenziata da terzo mondo con rifiuti buttati sui marciapiede anche in pieno centro. Una città in cui vige la legge del più forte con auto e macchinine che arroganti trovano parcheggio sulle strisce impedendone l’uso ai pedoni, anche degli scivoli dedicati al passaggio delle carrozzine. Non ci sono a questo proposito controlli di alcun genere e la polizia municipale io non ricordo che divisa indossi. C’è voluto il commissario per rimettere a posto l’orologio di Piazza del Popolo (simbolo indiscusso, che piaccia o no, della città), aprire la cassaforte di famiglia e vendere i gioielli preziosi per evitare il collasso finanziario. Latina è, nostro malgrado ( va ribadito per chi pensasse che sia un modo pessimistico di leggerla e di viverla), agli ultimissimi posti in tutte le classifiche nazionali, segno che se noi stiamo bene così, quasi tutte le altre province d’Italia stanno meglio di noi. Siamo la seconda città del Lazio (la prima è la capitale) solo in termini numerici perché la tanto bistrattata Frosinone ha strutture ( ad esempio sportive) infrastrutture e servizi che noi ce li sogniamo. Sono nata turista e curiosa, fosse per me la valigia la lascerei dietro la porta di casa e, credo di aver visitato i tre quarti abbondanti delle province italiane (Enna compresa). Salvo qualche raro caso al mio rientro sono stata costretta ad un confronto che ci ha sempre visto perdenti, iniziando dall’imbuto snervante della rotonda di B.go Piave. Da quanto poi non si trova uno spazio per l’edilizia popolare? Che dire? Essere positivi significa guardare al proprio orticello? Credo che la cultura del plurale da noi si senta poco. Quel “noi” pare utopia. L’individualismo e il benessere personale alla fine prevale su tutto. E questo è il modo migliore per continuare a crogiolarci senza mai ipotizzare un salto di qualità.

chevipera@libero.it

 

 
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LA VIPERA - PAOLA: L'AGO DELLA BILANCIA

Post n°154 pubblicato il 18 Novembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

di Alga Madìa -

 

Erano altri tempi, ma ci hanno evidentemente segnato. Era quando, negli anni ’80, la città contava circa 60.000 abitanti, quando la disoccupazione toccava il 4%, quando le donne assaporavano e cominciavano a capire cosa fosse la liberalizzazione sessuale. Quando le più audaci avevano da tempo bruciato i reggiseno mentre altre erano contente di acquistare il primo. Era quando i ragazzi cominciavano ad avere qualche piccola esperienza di tipo sessuale, ma avevano già imparato a raccontarne a decine. Era allora che cominciarono a far finta di scegliere, di sceglierci fra le più, come dire, appetibili (?). Pieno centro, mattina di sole e nubi che si scambiano il posto, e quei ragazzi sono ancora lì. Qualche anno di più, diversi di più. 30 circa. Dicono, per una donna è tutto diverso, più facile, per una bella donna quantomeno lo è sicuramente. Non ci ho mai creduto, le donne belle corrono molti più rischi mentre più sono brutte e più sono pericolose, alcune perfide come la strega di Biancaneve. Ma si scherza e quindi il discorso va, come si dice, in caciara. Ricordano e raccontano che, nel loro fantasticare storie di ordinarie passioni, avevano posto un limite entro cui una donna poteva essere “scelta”, fuori dal quale sarebbe rimasta a fare tappezzeria – come si diceva allora – e non l’avrebbero degnata di uno sguardo neanche per una serata hot. Una serata usa e getta. Proprio quello che lamentano alcune di noi fra le più disperate. Questo parametro di giudizio era netto, segnato da una ragazza di media bellezza, non bellissima, graziosa forse, non brutta. Lei, che chiameremo Paola,  nell’immaginario comune a tanti di loro era l’ago della bilancia. Loro giocavano così, si davano un tono, ma in fondo questo parametro divenne quasi una regola che forse hanno tramandato ai loro figli, oggi 15enni. Scoprono le carte e oggi il gioco è comprensibile anche a noi. Basta star lì ad arrovellarci il fegato se un uomo non ci guarda, un altro sparisce la mattina dopo, uno nasconde di avere moglie e 5 figli. Serve solo trovare una fotografia dell’allora signorina Paola, metterci davanti ad uno specchio (togliendo quel foglio di compensato che ci fa sempre credere super belle, super sexy o super bombe), consultare un giudice esterno, ed ascoltare la sentenza. Se saremo meglio di Paola, avremo qualche chance di ottenere un discreto risultato e qualche apprezzamento più – addirittura! - una serata di turbolenta passione (bah!), altrimenti, non continuiamo a prendercela con loro: anche i più giocherelloni, in fondo, hanno gli occhi!

chevipera@libero.

 

 
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LA VIPERA - VIA, VIA,VIENI VIA CON ME ....

Post n°153 pubblicato il 12 Novembre 2010 da chevipera29
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di Alga Madìa - -

Un signore replica ad un link che ho pubblicato su Facebook: “… come il grande Fratello, dice, nessuno lo vede, ma i consensi aumentano”. Bah, penso, ma sarà vero? C’è così tanta voglia di nulla in giro, di non sapere, di non vedere, di non crescere? Non gli rispondo, non posso, davvero non ho mai guardato G.F., neanche la prima puntata. Poi proprio poche ore dopo la sua frase mi trovo ad essere monopolizzatrice del telecomando. Ce l‘ho io, saldamente in mano e provo a scorrere un po’ di canali, come mi pare. Rai1, Rai2, Rai3: vedo la simpatica e dispettosa faccia di Roberto Benigni, che seguo dagli esordi a “L’altra domenica”. Mi fermo,  poso il telecomando. So che non mi servirà per un po’. Il solito attento ed acuto sfottò al premier, poi una canzone di Paolo Conte “Vieni via con me” (It’s wonderful). E’ visibilmente emozionato. Sono così poche le persone capaci ancora di provare questa sensazione e ancora meno quelle che la sanno trasmettere. La sua è percettibile: la voce non arriva a prendere le note, a tratti stonata, ma è netta una magia vera nei suoi occhi, quel pathos con cui sembra recitare: come fosse una poesia. Infine una frase che fa il verso a quella più celebre di Clint Eastwood: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con la biro, quello con la pistola è un uomo morto». Non c’è politica qui, non deve esserci, almeno quella cui siamo abituati. Non c’è sinistra, né destra. Tutto rende merito e trova spazio nel buon senso, nel senso di giustizia, di liceità. Forse è da questo senso di valori comuni agli italiani più seri ed onesti che si dovrebbe ripartire. Forse è di queste cose semplici che abbiamo bisogno. Di una bella frase, di una canzone? Ma noi abbiamo toccato il fondo. Una città allo sbando, una Nazione alla gogna, un Parlamento paralizzato e distratto dai problemi personali, sentimentali e sessuali di chi ci governa. Un fatto su tutto: l‘audience si impenna e vince nettamente il confronto (se mai c’è stato) col Grande Fratello. Segno che abbiamo voglia di sentire, di vedere, di crescere? Si. Forse abbiamo bisogno un po’ tutti di abbassare quel dito che sappiamo puntare su altri: quegli altri che sbagliano, che tradiscono, vigliacchi ed infidi. Forse solo abbassandolo sapremo ricominciare a sognare un Paese migliore, che diventerà migliore solo quando ciascuno sarà in grado di guardarsi dentro con onestà e farà si che il miglioramento parti inizialmente da se stesso. Il giudizio negativo a priori, senza alternative, senza proposte, che affonda ed umilia, quello sterile, senza speranza, senza costrutto, resterà sempre il comodo alleato di chi, in fondo preferisce che le cose restino putride e stagnanti per avere poi il gusto di infierire su quanti, mettendoci la faccia, provano a fare del loro meglio. “Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere” (Gandhi). chevipera@libero.it
 
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LA VIPERA . CINQUE PIANI IN VENTI MINUTI

Post n°152 pubblicato il 09 Novembre 2010 da chevipera29
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 -  -  di Alga Madìa - -

“A che piano va?” “Al 5°, grazie” “Io scendo prima, vado al terzo”. La signora che mi fa questa domanda mi scruta per un po’, anche insistentemente, mentre io con un lieve imbarazzo fisso lo sguardo sulle mie chiavi di casa. “Le posso dare un consiglio?” Non faccio in tempo a rispondere – dica pure – che lei prosegue come un fiume in piena. “Lasci  perdere i medici!” Ma per chi mi avrà scambiato, penso. E lei “Non ce la faccio più, sono settimane che sto facendo migliaia – dice proprio così – di controlli. Ma che pensano che uno, perché è pensionato, non ha niente da fare?” Io non so replicarle, non capisco. Il viaggio, come si può immaginare, di tre piani è breve, siamo arrivate, ma lei comincia a spiegarmi i suoi sintomi, a dirmi che gli esiti sono tutti negativi, le analisi nella norma. Sono nervosa, penso che l’ascensore possa servire a qualcun altro, mentre lei, che deve aver fatto lo stesso pensiero mi invita a scendere, - solo due minuti – aggiunge. Mi racconta tutto il suo percorso di indagine medica e anziché essere sollevata dai risultati soddisfacenti è, come dire, indispettita, infastidita. “Ma, poi, parliamoci chiaro, non dovemo morì tutti? Io, lo so che me li porto bene, ma sa quanti anni ho? 79.” D’obbligo risponderle con i miei complimenti, ma non me lo concede, mi dice che già lo sa, che glielo dicono tutti. Che grinta, penso, ma allora cosa vorrà da me? Sento alle mie spalle l’attività frenetica dell’ascensore e io bloccata sul pianerottolo del terzo piano costretta a stare zitta. “Guardi, dia retta a me, se si sente un disturbo se lo tenga, tanto non serve a niente, tutto tempo sprecato … e soldi!” Provo ad accennare che è compito del medico escludere qualunque tipo di patologia, che forse lui voleva essere scrupoloso, ma in fondo sempre a favore del paziente, quando lei insiste che in tanti anni di vita al massimo ha preso un’aspirina. “Lasci perdere, signò, lasci perdere.  Sta per ricominciare l’elenco degli esami e quante volte in quindici giorni ha dovuto entrare, suo malgrado, nell’ambulatorio del suo medico. Ben cinque. Sono nell’angolo: da venti minuti, non ne esco. Mi elenca singolarmente i motivi di ciascuna volta. Capisco il suo bisogno di parlare tanto non consente altro. Capisco infatti che non le interessa sapere cosa penso, non era di un consiglio che aveva bisogno, ma di uno sfogo contro chi fa il suo lavoro con serietà. Penso a cosa mi avrebbe detto se fosse stato un superficiale. Decido di ricordarmi di avere un ragù sul fuoco. “Devo scappare – le dico – sono contenta che lei non abbia niente. Auguri”.  Non posso permettermi di chiamare l’ascensore. La rampa delle scale e i gradini a due a due, sono la mia salvezza.

chevipera@libero.it

 

 
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