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Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. E’ il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria”.

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... quando si schiude l’uovo del cuculo, il piccolo intruso sbatte fuori dal nido i suoi “fratellastri” caricandosene sul dorso le uova e gettandole fuori, o spingendo giù gli altri uccellini del nido se sono già nati...

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TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE (3° parte)

Post n°876 pubblicato il 20 Maggio 2012 da lecasame

TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE

(3° parte)

«Gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare»
Questo è uno dei mantra più salmodiati. Secondo l’Istat, nel gennaio 2011 ci sono in Italia 22.832.000 occupati, 14.989.000 inattivi (fra i 15 e i 64 anni) e 2.145.000 disoccupati: l’8,6% della forza lavoro, il 29,4% di quella giovanile. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532.000 unità, cioè la disoccupazione è in aumento. Nel 2010 un quinto dei disoccupati è straniero, e cioè più di 400.000 persone; nel 2011 essi sono saliti a 560.000. Alla fine del 2007 fra gli stranieri i disoccupati erano il 9,5% e fra gli italiani il 6,6%. Nel 2010 il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 del 2009 al 63,1, e quello di disoccupazione è passato da 11,2 a 11,6. I tassi di disoccupazione più alti in assoluto nel 2010 sono quelli delle donne marocchine (25,8%) e albanesi (19,3%). Nel 2005 i cassintegrati stranieri sono stati 65.546 su 613.151: il 10,7% del totale. Nel 2010 ogni 10 nuovi disoccupati, 3 sono immigrati. Da tutto questo si deduce con grande chiarezza che il mercato del lavoro italiano è in crisi, che diminuiscono i posti di lavoro e che non c’è alcuna necessità di importare mano d’opera. Di più, che gli stranieri non vengono a sopperire a mancanza di mano d’opera ma a sostituire quella italiana, addirittura favorendone l’espulsione dal mercato.

Questo trend è dimostrato dal fatto che fra il 2005 e il 2006 circa il 42% dell’aumento di occupati è straniero, la percentuale diventa il 66% nel 2006-07, cioè gli stranieri si inseriscono nel mercato del lavoro più degli italiani (nel 2007 il tasso di attività della popolazione italiana in età fra 15 e 64 anni è del 60,0% , quello degli stranieri del 73,2%). A questo concorre il fatto che gli italiani sono più vecchi ma anche che le retribuzioni medie degli stranieri sono inferiori del 24% rispetto a quelle dei lavoratori italiani. Insomma non si tratta di fare lavori che gli italiani rifiutano, ma di farli a stipendi più bassi. Questo ha anche a che fare con l’identikit delle imprese che prediligono forza lavoro immigrata, che sono essenzialmente artigiane, spesso contoterziste, collocate in settori tradizionali, a basso livello tecnologico e basate su un modello organizzativo centrato sull’efficienza derivante da bassi salari più che da aumenti consistenti di produttività. Si tratta di imprese che, per caratteristiche proprie, sono più a rischio nella progressiva globalizzazione dei mercati e per la concorrenza crescente di paesi che possono garantire produzioni a basso livello tecnologico e a costi molto bassi del lavoro. Sono perciò le attività più a rischio di chiusura e che tentano di combattere la concorrenza estera facendo lavorare manodopera immigrata, quasi una sorta di delocalizzazione del lavoro invece che dell’imprenditorialità. È un cerchio rischioso oltre che immorale: si toglie lavoro agli italiani a vantaggio di chi costa meno facendone ricadere i costi sociali sulla comunità. Senza contare che, col tempo, anche i lavoratori stranieri finiranno per costare sempre di più. Tutto questo nel campo del lavoro dipendente e scarsamente qualificato. I dati ci raccontano però anche un’altra storia.

A fine 2007 gli stranieri sul mercato del lavoro erano il 6,5% della forza lavoro totale, più della metà dei quali (il 56,2%) nei servizi, nel commercio, nell’artigianato, cioè lavoratori autonomi. Nel 2010 c’erano 213.267 imprese con titolare straniero: il 3,5% di tutte le imprese e il 7,2% di quelle artigiane. Altri 69.439 stranieri sono soci di imprese cooperative. Il fenomeno conosce tassi di aumento vertiginosi: nel Dossier 2011 le imprese con titolare straniero sono cresciute a 228.540. Secondo la Fondazione Moressa, nel 2010 ci sono ben 628 mila imprenditori stranieri (fra titolari, soci e amministratori), il 6,5% del totale degli imprenditori in Italia e quasi il 12% di tutti gli stranieri presenti. La cosa contrasta con le più generali condizioni del mercato e costituisce una evidente anomalia con origini extra-economiche. Riesce a questo punto difficile sostenere che i cinesi – ad esempio – facciano i bottegai perché gli italiani rifiutino tale lavoro, o gli egiziani i pizzaioli, o gli albanesi gli artigiani e così via. I lavori legati al commercio sono, in particolare, un evidente segno di colonizzazione e conquista del mercato, non certo una forma di sopravvivenza economica o – meno che meno – di supporto a una manodopera carente. Insomma, più della metà degli stranieri che lavorano regolarmente si dedica ad attività che in nessun modo possono essere considerate rifiutate dagli italiani. Ancora più evidente risulta la falsità del mantra per i “lavori” in nero o addirittura illegali, cui si dedica una bella fetta di stranieri, soprattutto irregolari. Forse che non si trovano più italiani che vogliano occuparsi di spaccio, prostituzione, furti, rapine, accattonaggio eccetera? Se può avere qualche giustificazione la necessità di lavoratori dipendenti di bassa qualifica, non ne ha per i commercianti e i lavoratori autonomi e diventa addirittura offensiva per il lavoro nero, la malavita o il “non lavoro” sistematico. Se le liste di collocamento, le statistiche di disoccupazione o gli elenchi di cassintegrati si riempiono di stranieri, che senso ha farne venire altri?

Nel 2010 sono scaduti, senza essere rinnovati, 684.413 permessi di lavoro (398.136 per lavoro subordinato, 49.633 per lavoro autonomo, 220.622 per motivi di famiglia e 16.022 per attesa di occupazione) costringendo gli interessati al rimpatrio o al lavoro nero, o alla disoccupazione. Al 31 dicembre 2009 c’erano in vigore 2.637.431 permessi di soggiorno, un anno dopo essi sono 1.953.018, secondo i dati Caritas. Ci sono evidentemente numeri che non trovano alcuna logica spiegazione, men che meno delle giustificazioni “di mercato”. Calano le possibilità di lavoro e aumentano gli immigrati che vengono a cercarne. Cosa c’è dietro? Inoltre, è vero che alcuni di loro fanno lavori pesanti, socialmente squalificati o anche pericolosi ma è sicuramente vero che tali lavori non vengano assunti dagli italiani solo perché non vengono pagati abbastanza. È un problema che potrebbe essere risolto sia lasciando operare la legge del mercato (se non si trova nessuno che lo voglia fare a quel prezzo, si aumenterà il prezzo) che incentivando economicamente i lavori più disagiati.

Il primo caso non può però funzionare se il mercato viene lasciato aperto a tutti i disperati del mondo: ci sarà sempre qualcuno disposto anche solo temporaneamente ad accettare le condizioni più sfavorevoli e il prezzo sarà perciò tenuto basso. Lo fanno solo per un po’ e poi trovano qualcosa di meglio innescando così un doppio processo perverso: l’esigenza di lavoratori a basso costo diventa continua e l’operazione di abbassamento del costo del lavoro si trasferisce anche verso l’alto e finisce per intaccare tutti i livelli sociali. Anche fra la dirigenza – ad esempio – ci sarà così qualcuno disposto a prendersi qualsiasi mansione a meno. Il danno è generale con il degrado della qualità del lavoro, l’abbassamento dei salari e l’allontanamento dei lavoratori autoctoni più anziani o specializzati che non possono sostenere la concorrenza sleale dei nuovi arrivati. Questi accettano posizioni disagiate (o a condizioni meno favorevoli) per un po’ ma poi si sindacalizzano e diventano come gli altri, e così il gioco si ripete all’infinito con danno per tutti. Con alcuni miliardi di diseredati al mondo ci sarà sempre qualcuno disposto a concedersi per meno fino alla catastrofe economica e sociale.

Già oggi ci sono stranieri con ruoli dirigenziali e il processo di “scavalco” delle fasce più deboli degli italiani è favorito dai livelli di istruzione degli immigrati (il 12% ha una laurea, il 41,2% un diploma): il fenomeno del brain waste (sottoutilizzo delle capacità intellettuali) non può che essere temporaneo e nel tempo gli stranieri più giovani, più scaltri o istruiti finiranno per “scavalcare” gli italiani meno capaci relegandoli sempre in fondo a tutte le classifiche sociali ed economiche. Da mettere in conto al fenomeno immigratorio c’è il peggioramento delle condizioni degli italiani più deboli. Si parla di lavoratori da fare venire in un paese in cui c’è un tasso di disoccupazione fra i più alti del mondo occidentale, in cui si pagano sussidi di disoccupazione e stipendi a “lavoratori socialmente utili” giusto per mantenerli, in cui ci sono milioni di pubblici dipendenti (una bella fetta dei quali “poco utili”), ci sono milioni di pensionati baby e di finti invalidi a cui si passa una pensione a mo’ di regalia, e dove ci sono legioni di cassintegrati. Una grossa fetta della ricchezza prodotta serve per mantenere gente che non ha lavoro, che non vuole lavorare o che fa pochissimo per il vantaggio della comunità. Si tratta di una cospicua forza lavoro che potrebbe essere impiegata a uguale costo in attività più utili per tutti. In ogni caso è folle sostenere la necessità di fare venire da fuori qualcuno che faccia il lavoro che potrebbero benissimo fare tutti questi.

Se proprio ci sono attività molto sgradite (e ci sono), si deve risolvere il problema con i mezzi che abbiamo (e ne abbiamo). Se non bastano le leggi di mercato si trovi il modo di integrare gli stipendi per i lavori sgraditi ma necessari. Costerà sempre meno che mantenere tutto l’ambaradan dell’immigrazione. Si possono dare stipendi da nababbi a conciatori e raccoglitori di rifiuti e risparmieremo in ogni caso, come comunità, una montagna di soldi che ora va in assistenza, accoglienza, prevenzione, controllo, rimpatrio eccetera, degli immigrati. Ma ci sono altre strade per risolvere il problema. Ci sono in Italia migliaia di detenuti che costituiscono un costo esorbitante per la comunità: questi galeotti potrebbero occuparsi dei lavori che nessuno vuole fare. Abbatterebbero i costi del loro mantenimento, farebbero del bene a sé stessi guadagnando qualcosa, non marcendo nell’ozio e rigenerandosi col lavoro (assecondando così un diffuso cliché sociale) e contribuirebbero al bene comune, oltre che a ripagare i loro debiti con la società anche in termini monetari.

Ci sono lavori che non possono essere affidati a dei galeotti, come quello di badante. Qui si può ricorrere alle sovvenzioni (che costerebbero comunque infinitamente meno dell’assistenza generalizzata a tutti quelli che si presentano) oppure al lavoro sociale. È stata abolita la leva militare obbligatoria che è sempre stata fonte di discriminazioni e ingiustizie: si potrebbe richiedere a tutti i cittadini (indipendentemente dal sesso, dalla condizione sociale o dallo stato fisico) di prestare per un anno, al raggiungimento della maggiore età, un lavoro veramente utile alla società in assistenza agli anziani, ai disabili, negli ospedali eccetera. Questo avrebbe un valore comunitario ed educativo straordinario e servirebbe a risolvere molti dei problemi posti dall’invecchiamento della popolazione. Alla finzione dell’immigrato che fa lavori che i nostri rifiutano ricorrono con uguale baldanza sia i sindacalisti che gli industriali. I primi devono giustificare la propria esistenza al mondo e i propri lucrosi stipendi, gli altri cercano solo i vantaggi economici di una mano d’opera sottopagata scaricandone i costi sulla comunità. Una strana alleanza fra capitalisti della mutua (letteralmente) e sindacalisti che viene pagata da Pantalone e dalle fasce più deboli della società.

Una superficiale occhiata ai numeri “ufficiali” genera ulteriori perplessità (o certezze). Gli iscritti all’Inps sono nel 2010 circa 2 milioni. di questi 628 mila sono imprenditori o lavoratori autonomi e 560.000 percepiscono un sussidio di disoccupazione. Se si sottraggono anche i 294.000 che ricevono una pensione, si arriva ad avere circa 520.000 stranieri che presumibilmente: 1) hanno un lavoro regolare, 2) sono lavoratori dipendenti, 3) fanno un lavoro che altri italiani potrebbero fare, ma che forse non vogliono fare. Quanti sono, in definitiva, gli stranieri che davvero fanno un lavoro che gli italiani rifiutano? Se va (molto) bene arrivano al 5% dell’intero numero degli immigrati. Cioè, per ogni straniero che fa un lavoro disdegnato dagli italiani, ce ne sono 20 che lavorano per sé, che tolgono il lavoro a un italiano, che lavorano in nero, che non lavorano, che fanno lavori non proprio commendevoli, che vengono mantenuti da altri.

«Abbiamo il dovere della solidarietà»
La solidarietà e l’amore per il prossimo rientrano sicuramente fra i doveri cristiani che sono parte essenziale della nostra cultura, ma che meritano alcune considerazioni: innanzitutto il prossimo (lo dice la parola) è chi ci è prossimo, vicino, parente, famigliare. Il nostro prossimo vero è chi appartiene alla nostra comunità antica, è chi ha sottoscritto con noi un contratto sociale anche istituzionale. Poi – se è possibile – ci si dedica agli altri, ma questa estensione non può comunque essere intesa come un dovere comunitario: può e deve essere solo una scelta singola che non deve coinvolgere gli altri. Il principio di porgere l’altra guancia è strettamente personale: non si può porgere l’altra guancia di nostra madre o del nostro vicino di casa. La generosità e l’umiliazione valgono solo per la nostra guancia. Anche nella comunità padana, considerata (spesso a torto) opulenta, ci sono molte migliaia di indigenti, di disabili, di anziani, di malati, di sfortunati che hanno bisogno della vera solidarietà e assistenza della nostra gente. Ci sono sacche geografiche di povertà straordinaria in aree marginali, di montagna ma anche di città, che richiederebbero interventi sostanziosi. A questi dobbiamo dedicare le nostre risorse e attenzioni. Oggi la Padania è una delle aree con la più alta concentrazione di volontariato e di assistenza (un tempo si sarebbe detto “di carità”) ma non basta: dobbiamo aumentare i nostri sforzi per i nostri fratelli meno fortunati. Ogni energia dedicata ad altri è tolta ai nostri: ogni nuovo arrivato da fuori toglie spazio e attenzione ai nostri. Ogni nuovo immigrato peggiora le condizioni dei più deboli dei nostri. Più avanti si esaminano i dati – espressi dalla stessa Caritas – che mostrano come i numeri del disagio “autoctono” siano in preoccupante aumento.

Noi non possiamo farci carico di tutti i diseredati del mondo che sono centinaia di milioni. Qualcuno ha festeggiato nei giorni scorsi la nascita del settemiliardesimo abitante del pianeta: un atteggiamento delirante davanti a quella che sta diventando una vera emergenza ambientale. Cento anni fa c’erano al mondo 1,587 miliardi di persone; nel 1940 erano 2,196 miliardi. Negli ultimi sessant’anni la popolazione globale è più che triplicata. Ogni anno la popolazione del mondo aumenta di circa 80 milioni di persone, se aprissimo indiscriminatamente le porte potremmo ovviare alla altrui esuberanza testosteronica per non più di 3 o 4 mesi e poi verremmo annientati. Lo stesso vale per i rifugiati, per le vittime di guerre e carestie, e di persecuzioni politiche. Lo status di esule politico viene concesso con troppa facilità. L’articolo 10 della Costituzione stabilisce che sia concesso diritto di asilo «allo straniero al quale sia impedito di esercitare le libertà democratiche». Oggi il mondo pullula di guerre e di regimi poco democratici: è perciò estremamente facile essere (o farsi passare per) un perseguitato politico, profugo o vittima di qualche carestia o sciagura ambientale. Nel 2006 le richieste di asilo sono state 10.348, nel 2008 sono salite a 30.324. Non tutte vengono accolte: in ogni caso c’erano nel 2010 circa 55.000 rifugiati politici riconosciuti. Gli ultimi avvenimenti in Nord Africa hanno accresciuto di molto le richieste.

I rifugiati godono di speciali privilegi. Lo Stato provvede al loro sostentamento attraverso un “Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati” (Sprar) con un contributo di assistenza fornito dalle Prefetture. Ogni rifugiato riceve al suo arrivo un contributo di 976,15 Euro per i primi 35 giorni (che si riducono a 557,80 in caso di respingimento della domanda d’asilo). In seguito, secondo la Fondazione Leone Moressa, lo Stato affronta una spesa diretta di 14.600 Euro l’anno (40 Euro al giorno) per persona e altrettanti in prestazioni indirette (spese sanitarie e servizi generali dello Stato, calcolati per analogia, considerando che tali voci impegnano circa la metà del Pil nazionale): quindi allo Stato ogni rifugiato politico costa circa 29.200 Euro l’anno. Per i 55.000 rifugiati del 2010, la spesa dovrebbe perciò essere di un miliardo e 600 milioni di Euro. Un decreto legislativo del novembre 2007 stabilisce inoltre che i rifugiati possano accedere al pubblico impiego in deroga alla necessità di avere la nazionalità italiana e che godano di tutti i privilegi dell’assistenza sanitaria, del sostegno allo studio e dell’integrazione all’attività lavorativa. Se i rifugiati che hanno un lavoro non arrivano, con tre figli a carico, a un reddito di 23.200,30 Euro l’anno, viene loro concesso un sussidio integrativo: un’altra voce di spesa non calcolabile.

Oltre a tutto questo si devono aggiungere stanziamenti che sono impossibili da quantificare, che vanno dai corsi di italiano per rifugiati agli sconti sui mezzi pubblici in molti comuni, dal sostegno assistenziale e culturale, all’assistenza legale e altro: il Consiglio Italiano per i Rifugiati provvede a servizi di orientamento legale, supporto sociale e attività di cura e riabilitazione dei “rifugiati sopravissuti a tortura”. A essi si interessa una miriade di associazioni di volontariato e d’altro genere, oltre che un numero imprecisabile di provvedimenti legislativi settoriali. Un decreto del 1996 stanziava, ad esempio, 35.000 Lire giornaliere per ogni zingaro profugo dalla ex Jugoslavia. Il costo complessivo dell’asilo politico è impossibile da quantificare ma non è certo inferiore ai 2 miliardi. La cifra è destinata a crescere esponenzialmente con gli ultimi massicci arrivi.

Il mondo produce una quantità impressionante di esuli veri e fasulli: è impossibile accoglierli qui senza autodistruggerci e non possiamo certo permettercelo. Un corollario al dovere dell’accoglienza è rappresentato dall’altro mantra che ripete che “anche noi siamo stati paese di emigrazione e che perciò dobbiamo essere ospitali”. La nostra emigrazione è stata il risultato della formazione storica dello Stato italiano e non è stata una bella cosa: oggi è ancora a causa delle inefficienze e dell’esosità dello stesso Stato che siamo costretti a subire l’immigrazione. La causa resta la stessa, aumentano e si diversificano le vittime. Ci sono comunque differenze notevoli fra le due situazioni storiche: i nostri emigrati andavano dove c’era posto e bisogno, e quando non è stato così ne hanno subito le conseguenze. Ci andavano sapendo di ricevere una concessione e non con l’atteggiamento di chi pretende diritti e privilegi. Così la stragrande maggioranza di loro rispettava le leggi del posto, e viveva restrizioni e patimenti come un normale viatico e cercava di integrarsi al più presto. Ci sono stati mascalzoni e mafiosi che si sono comportati in ben altro modo ma questo – pur rendendone più difficile l’assimilazione – non ha contagiato il rispetto e i vantaggi che tutti gli altri si sono duramente conquistati, né può oggi in alcun modo costringere gli attuali cittadini italiani– soprattutto quelli delle aree esenti da vocazioni ed esportazioni malavitose – a subirne le conseguenze in una sorta di purificazione collettiva celebrata subendo come ineluttabili e “meritati” tutti i guasti dell’immigrazione. È invece significativo di una mentalità carica di buonismo masochista che i complessi di colpa vengano addossati proprio principalmente a quelle comunità che non hanno avuto responsabilità nella cattiva nomea di certa parte della vecchia emigrazione italiana.

Un altro strampalato corollario è costituito dal descrivere l’immigrazione come una sorta di “giusta” punizione per i nostri peccati colonialisti del passato. L’inconsistenza dell’argomentazione cade di fronte ad alcune semplici considerazioni: 1) eventuali colpe di passate generazioni non possono essere addebitate a quelle presenti anche per rispetto di un elementare principio giuridico, oltre che per normale moralità; 2) se c’è stato un colonialismo italiano, esso è stato voluto da una ristretta casta politico-economica e non certo dal popolo che ne è spesso stato vittima pagandolo in tasse e sangue; 3) il colonialismo italiano ha precise responsabilità storiche (peraltro già pagate) nei confronti di alcuni paesi che però non sono quelli da cui proviene l’attuale immigrazione; 4) tutti nel corso di millenni sono stati colonizzati od oppressi da qualcuno e questo non può costituire titolo di rivendicazione perpetua.

«La società multirazziale è l’ineluttabile futuro di tutti»
La società multirazziale è una ineluttabile evoluzione del nulla. È l’invenzione e lo strumento che viene oggi tirato fuori da chi vuole distruggere: dopo avere usato la lotta di classe senza raggiungere gli obiettivi devastanti che si era prefisso, oggi impiega lo scontro etnico con lo stesso fine di scardinare le strutture comunitarie esistenti, in un generico e pericoloso slancio rivoluzionario. Il rimescolamento delle culture e l’annientamento delle diversità, la distruzione dei riferimenti tradizionali e lo spaesamento sono strumenti di chi vuole annientare bellezze, specificità e libertà.

Ci sono ambientalisti che teorizzano la biodiversità, che fanno giustamente guerra contro l’introduzione di specie animali e vegetali esogene in habitat diversi, ma che favoriscono l’immigrazione selvaggia, il mescolamento e la distruzione delle culture diverse. Non vale l’attenzione per le specificità culturali nel rispetto per la biodiversità? L’integrazione non ha mai funzionato: nei posti dove si sono trovate a convivere comunità diverse si sono generati ghettizzazione e conflitti. La multietnicità porta generalmente a un aumento della criminalità e dei problemi sociali. È così anche da noi, dove non siamo mai veramente riusciti ad assorbire del tutto le migrazioni interne, che pure presentano diversità molto minori. È impossibile integrare comunità, come – ad esempio – quella cinese (che ovunque nel mondo si è rinchiusa in ghetti autogestiti), o quella islamica che è aggressiva, invasiva e intollerante. Lo sradicamento ha come conseguenza la distruzione delle culture di chi migra e di chi li ospita. È la distruzione di ogni identità. È proprio in quest’ottica che l’immigrazione è uno straordinario strumento del processo di gobalizzazione, ma anche – nel nostro caso – è un mezzo impiegato dal centralismo italiano per distruggere le identità locali proprio in un momento in cui queste mostrano di risvegliarsi con decisione, è un modo per imporre una sorta di solidarietà italiana (riproponendo una identità davvero esangue) sulla base delle maggiori differenze rispetto agli altri. L’italianismo di destra e quello di sinistra sono, come sempre, simili e alleati: gli uni per riproporre una italianità inventata, gli altri per arrivare a un mondialismo annientante.

É interessante su questo tema un affettuoso passo della presentazione del Dossier 2011: «Gli immigrati sono propensi a frequentare gli italiani e hanno anche voluto festeggiare i 150 anni della nostra storia unitaria, mostrando un sincero interesse a sentirsi parte viva del Paese e ad essere riconosciuti come nuovi cittadini; tuttavia, con grande realismo sintetizzano in due termini ciò che li preoccupa: “permesso di soggiorno” e “razzismo”, cioè la mancata garanzia di un inserimento stabile e di una solida prospettiva interculturale basata sulle pari opportunità». C’è davvero il campionario di gran parte delle argomentazioni emotive e ideologiche cha stanno dietro l’atteggiamento incondizionatamente accoglientista della Caritas, che sfoggia per l’occasione anche un tasso di patriottismo poco consono con la sofferta storia del cattolicesimo italiano degli anni risorgimentali e del processo unitario.

Nel discorso sulla multiculturalità richiede una breve considerazione il ruolo dell’Islam, cui fa riferimento la maggioranza relativa degli immigrati. I musulmani mostrano una propensione all’integrazione tendente allo zero e invece una forte vocazione – supportata dalla loro religione-ideologia – all’occupazione territoriale sostituendo le modalità di vita delle comunità in cui si insediano con quelle derivate dalle proprie credenze. Questo pone gli islamici in una condizione diversa da quella di tutti gli altri immigrati, che non può essere affrontata solo in termini di analisi sociale ed economica ma che necessita di speciali attenzioni e difese. Non è immigrazione, intrusione o penetrazione: è invasione caratterizzata da elementi di violenza, arretratezza e intolleranza che contrastano con i fondamenti della civiltà occidentale. Con (si spera) involontario gusto per l’umorismo macabro, il Dossier 2011 scrive: «Nel primo semestre del 2011, i drammatici eventi del Nord Africa hanno evidenziato ancora una volta che è possibile favorire l’incontro tra musulmani e cristiani». Copti compresi, naturalmente.

 
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