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Post n°30 pubblicato il 31 Ottobre 2005 da LuvelioJUSA
Sul suo passaporto c’è scritto: attore. In verità è anche regista, sceneggiatore, riduttore di romanzi per la televisione e autore teatrale. Alcuni dicono di lui che dovrebbe fare solo l’attore; altri pensano che dovrebbe limitarsi allo scrivere; i più maligni sostengono che dovrebbe esonerarsi dalla regia teatrale. Chissà come il maestro di Fiesole saprebbe ritagliarsi indosso gli abiti a sindaco di Roma. Ipotesi irreale, ma verosimile e auspicabile per una città come Roma. Nell’epoca delle candidature “novella 2000”, la nomina di Giorgio Albertazzi al Campidoglio donerebbe dignità alla rappresentatività nostrana in generale, e alla amministrazione capitolina in particolare. Dobbiamo intanto augurarci che la baraonda del toto nomine post vacanziero si risolva in uno shakespeareiano molto rumore per nulla, e nessuno come Albertazzi potrebbe interpretarne… le soluzioni. Alleanza Nazionale sa che con Storace e Alemanno non andrà da nessuna parte, e via della Scrofa peccherebbe di intelligenza se tentasse di scalare il Campidoglio dopo il trattamento dell’elettorato romano alle regionali; avrebbe ragione Teodoro Buontempo nell’accusare il centro-destra di intraprendere la tattica dello “sconfittismo-vittorioso”, destinato a candidare uomini battuti in partenza ma in grado di incassare notorietà in breve tempo. Ciò che in fondo Baccini – che per fortuna pare aver rifiutato spontaneamente l’offerta – e Luciano Ciocchetti avevano pensato con la Lista per Roma come laboratorio del nuovo grande Centro nazionale. Per la città eterna, Albertazzi non è più opportuno del professor Zichichi? E non potrebbe meglio rivaleggiare la popolarità a basso costo raccolta dall’uomo delle notti bianche? Magari a suon di notti di mezze estati ed i suoi sogni. L J
Post n°28 pubblicato il 18 Luglio 2005 da LuvelioJUSA
Esistono gli integralisti del velo, e gli integralisti del veDo: non nudisti integrali ma guardoni integralisti.
Post n°27 pubblicato il 08 Luglio 2005 da LuvelioJUSA
A Londra è atterrato di nuovo il nemico dell’altro mondo, portando morte e terrore in mezzo alle nostre case. Forse stavolta l’alieno non ha raggiunto l’effetto sperato di seminare panico come un germe infettivo. La reazione di Londra è stata stoica, con gente che non si strappava le vesti, con media che non caricavano oltre il dovere d’informazione la recrudescenza delle immagini. È indubbio che se il terrorismo globale ha una natura parassitaria - che opera il logoramento del nemico utilizzando strumenti di quest’ultimo –, il modo migliore per debellare il parassita è impedirlo nell’appropriazione di tali mezzi. Molte voci difendono il diritto d’informazione – anche quella drogata e spettacolarizzata che fa il gioco di Al Qaeda – prima di ogni diritto alla vita, alla sicurezza e del “diritto” boteriano della Ragion di Stato. La Bbc ha preso esempio dagli Usa che - oscurando le immagini di marines rimpatriati dal fronte dentro una bandiera - altro non fanno che servire quella “Ragion di Stato” che per il Gesuita Giovanni Botero “anche tra l’api regna e forma lor di dominare insegna”. Orson Welles con la trasmissione radiofonica ispirata da La Guerra dei Mondi dello scrittore H.G. Wells, creò la sua leggenda personale innescando un fenomeno di panico totale a livello nazionale che ebbe – sessantasette anni fa – carattere essenzialmente sperimentatale e al più esorcizzante; Welles scoprì come gli alieni potevano vincerla anche senza esistere. Col solo esistere del sistema mediatico. Oggi, dopo il periodo incluso tra l’11 settembre di New York e il 7 luglio di Londra, il valore e l’influenza dei media sono irrevocabilmente mutati, così come la stessa finzione e verità hanno finito per diluirsi in una mescolanza insolubile. È per questo che la lotta al terrorismo deve passare attraverso il controllo dell’informazione e dei media, vanificando quel cavallo di troia entro cui si annida la strategia del terrore islamico. Nelle sale italiane è in scena l’ultima fatica di Steven Spielberg – che riprende l’eredità di Wells e Welles - nella sua versione cinematografica de La Guerra dei Mondi: il cineasta di Cincinnati utilizza l’incontro-scontro violento tra la nostra cultura ed una cultura aliena, rendendo chiaro il suo intento metatestuale. Se da sempre al cinema, come nell’arte in genere, la metafora serve per comunicare realtà, mai come oggi il cinema si è inestricabilmente confuso con la vita, la fiction con il dossier, la Città delle Luci con le Luci della Città. Gli alieni cinematografici non ci immergono più – com’era nelle intenzioni del cinema d’origine – in dimensioni oniriche, fantascientifiche ed in qualche modo esorcizzanti. Dopo l’11 settembre anche il cinema esce stravolto, non più deputato ad una diegetica della fantasia bensì costretto ad introdurci ad una realtà che supera ormai ogni confine e capacità d’immaginazione. Se non ché i londinesi sono apparsi assuefatti dal terrore - come ogni altro occidentale del terzo millennio bersaglio di questa vigliacca guerra; vaccinati per certi versi come non potevano esserlo gli occhi terrorizzati di Ground Zero. Ecco che una sorta di atarassia o vaccinazione rappresenterebbe un letale affronto agli alieni del terrore, da neutralizzare in ultimo oscurando le telecamere sulle loro bravate. La classe politica italiana dovrebbe invece, in vista della votazione sul rifinanziamento delle truppe, prendere esempio dal Tom Cruise de La Guerra dei Mondi che non si lascia terrorizzare dagli alieni: “Scappare, è questo che uccide. Ed io voglio vivere da morire!”
Post n°26 pubblicato il 19 Aprile 2005 da LuvelioJUSA
Nuovi assetti sorreggono la rappresentanza politica dopo il cataclisma Mani-pulite. Un bipolarismo “apparente” da allora è stato citato come legittimo successore di quel Moloc cui la storica Democrazia cristiana sacrificava - coi tripli, quadri, penta partiti e parallele convergenti-, la sana alternanza rappresentativa. Nella seconda Repubblica, d’altro canto, la polverizzazione degli storici riferimenti valoriali ha determinato una politica che tradisce il suo significato d’origine nel vocabolario della rappresentanza: chi/cosa dovrebbero rappresentare i partiti nella società orfana delle ideologie? Che funzioni restano ai partiti storici all’indomani dell’ultimo “breve” e “sterminato” XX secolo? Quali valori o idee riusciremo a conservare oltre quello spartiacque che per Francis Fukuyama si chiama “fine della Storia”? Oggi sembra che la lineare rappresentazione dell’elettorato, sulla base di una “condivisione” di Valori, stia estinguendosi, determinando una politica sempre più incapace di rappresentare se stessa: costretta a commissionare il volto - immagine e contenuti dei propri programmi-, a terzi. Attraverso questa “traslitterazione”, gli anni ’90 hanno favorito il ricorso alla chirurgia estetica, trapiantandola dalla sfera individuale alla sfera pubblica. Il bisturi simboleggia la crisi d’identità della politica, allegorizzandola con la crisi intima (e estetica) dell’individuo novecentesco. Conseguenza pure di questo generazionale disagio –o “disturbo del comportamento”- è la confusione fra “jet set” e tribune politiche; fra “vetrina” e sede di partito. Fra cortina e contenuto. Una decadenza da fa rimpiangere per assurdo l’era Tangentopoli, le cui aberrazioni –se non altro-, erano l’estrema ratio di dirigenti che non riuscivano a far quadrare il cerchio: l’ingerenza degli imprenditori nella politica – come degenerazione delle “rappresentanze d’interessi”-, trovava il suo “perché”, nell’idea –storicamente fallita ma originariamente nobile- di un’armonia sociale di memoria “corporativista”; in tal senso Tangentopoli potremmo considerarla come un corporativismo fascista, degenerato dall’egoismo utilitarista, e sterilizzato fino all’antisocialità. Tra gli altri responsabili del declino del sistema rappresentativo, un ruolo decisivo gioca la crisi del “vivaio” nei partiti politici. La politica soffre lo stesso deficit “d’allevamento” che vede le squadre di calcio versare capitali all’estero per l’acquisto di personale specializzato. Rimpingua i propri scranni dal mercato del “real Tv”, sacrificando idee e valori non alla trasversalità (che sarebbe d’auspicio), ma ad una neutralità spesso insipida e disorientante per gli elettori. E nella Babele della polis, un ruolo importante giocano i media in genere, la televisione in particolare: esasperando e rimescolando i simulacri dei rapporti politici cosicché non è possibile nessun distinguo fra “elettore” e “spettatore”, fra “politico” e “intrattenitore”. Molti dichiarano impropriamente Silvio Berlusconi emblema di questa nuova èra, quando la sua esperienza è più quella di un deus ex machina, di qualcuno che ha agito sulla trama politica imponendo se stesso dall’alto. Da sinistra, il meccanismo si presenta all’inverso: la classe dirigente commissiona a “terzi” – “ha mandato Marrazzo” -, declassando al baratro la politica. E Francesco Storace requiescat in pace. Colpevole di merito e… d’orbace.
Post n°25 pubblicato il 05 Aprile 2005 da LuvelioJUSA
È accaduto questo nel triste circo dell’abbuffata mediatica dei nostri tempi. Un Uomo, uno di quelli grandi, muore e si porta nella tomba il pianto filisteo di un popolo (mi riferisco a quello italiano) indegno. Come giustamente scrive Marcello Veneziani nel suo ultimo libro, Giovanni Paolo II rappresenta il Vinto per antonomasia del ‘900, al di là della innegabile fama internazional-popolare.
Post n°24 pubblicato il 29 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
In dicembre (2003), al teatro Sala 1 di Porta San Giovanni è andato in scena il Processo di Franz Kafka, diretto dal Claudio Boccaccini. Dopo il successo per la rappresentazione in Campo de' Fiori, del suo Giordano Bruno, il regista raccoglie nuovi consensi di pubblico, trattando la materia narrativa non certo di facile lavorazione di uno dei maestri della letteratura del secolo appena scorso. Portare Kafka in scena significa comlplicarsi la vita già per l'ambito prettamente scenografico, e Boccaccini è riuscito ad affrancarsi da gravi oneri affidandosi alla scelta del Sala 1, teatro endemicamente affine alle esigenze del rigore alla fonte letteraria; è questo un dato importante se si tiene conto che Kafka è passato alla Storia della Letteratura grazie ad uno stile che non permette ai lettori mai di discernere tra reale ed immaginario, e ancora meno di fissarne universalmente una univoca significazione letterale, per quanto insigni esegeti -come Theodor Adorno nei suoi Appunti su Kafka del '53-, abbiano difeso una simile eventualità. L'atmosfera del Sala 1 è dominata dalle volte romaniche del complesso della Basilica di San Giovanni, e ciò ne rende ottimo l'utilizzo per la rappresentazione del capitolo nono Nel Duomo; la platea un pò infelice nella sua sistemazione, per un pubblico pagante, è perfettamente funzionale al senso di claustrofobia che nel romanzo ragna; le volte, gli archi, e le colonne creano formidabili coni e zone d'ombra simili a quelli da cui, tra le righe di Kafka sbucano d'improvviso personaggi improbabili come il cancelliere capo. La scelta topica della rappresentazione è del tutto esente da leggi che possano definirsi casuali, e, addirittura il pubblico è inserito in scena come inconsapevole comparsa a rappresentare quegli astanti che nel romanzo assistono alle udienze in tribunale del protagonista Joseph K.; Kafka li ritrae come spettatori angariati con le spalle al muro e il soffitto sulla testa. Le condizioni affini sono non casuali e di forte suggestione, capaci di far eco a quel discorso di affettività - che sempre Adorno rimarcava - secondo il quale il processo d'identificazione dei lettori con i personaggi, va oltre ogni limite nel caso kafkiano e dove per inciso, sostiene Adorno, il lettore o lo spettatore tramite l'estro di Boccaccini, "teme che ciò viene narrato gli si possa avventare contro, per quello stesso investimento affettivo che in cinematografia può esser dato dall'effetto filmico della locomotica". Il disappunto dell'uomo e il suo scombussolamento dinanzi ai mostri che l'era moderna ha ingenerato è ciò che Kafka ha evidenziato nel suo romanzo, ma essendo la sua un'arte e non una scienza esatta, anzi proverbialmente umana, è pure possibile scorgervi innumerevoli angoli di dubbio, di contraddizione, di vera e propria -riferendosi in particolare alla tecnica stilistica del romanzo - antinomia letteraria. In alcuni momenti della narrazione Joseph K., che pure dall'origine è consapevole d'essere vittima di un crudele e sibillino Leviatano, di inestricabile e viziato sistema burocratico che dovrebbe servire l'uomo e invece lo perseguita, giunge quasi a giustificarne la legittimità, in un processo di autocolpevolizzazione; è ciò che accade anche all'etica sociale dell'autore praghese, compressa e alternativamente diluita tra il caldeggio delle nuove libertà moderno-borghesi, ed un socialismo, al tempo stesso eroico e puerile, molto affine a quello del nostro Italo Svevo. In comune con l'autore del romanzo psicologico italiano, Kafka conserva e dosa con genio l'ironia, che è un pò come il cucchiaino di miele propinato al bimbo malato prima dell'amaro sciroppo, per lenirne l'assunzione. Francesco Pannofino lascià nel pubblico un bel ricordo, con l'interpretazione del monologo di rammarico di Joseph Kappa, costretto in quell'asfissiante spazio tra i muri dell'industrializzazione e dello stato moderno; una realtà che recide di netto l'individuo dalla comunicazione con se stesso in quello stato meglio conosciuto dalla tradizione marxista come alienazione, o hegelianamente come oggettivazione. La società quindi come alterazione viziata e alogena, quando non diabolica dei rapporti umani. Pannofino commuove quando rivela quanto Joseph K. abbia sete di semplice e diretta comunicazione con i suoi simili, siano essi colleghi, predicatori, inquisitori o donne; il suo struggimento angoscioso di maggiore portata risiede in quest'atto di disillusione, e non appena accortosi di come sia impossibile comunicare faccia a faccia con chi gli cheide conto di qualcosa, arriva quasi ad accettare quell'insensata accusa pendente irragionevolmente sul suo capo, forse perché si convince, esortato dalle parole del sacerdote nel Duomo, che egli non sia in grado di vedere oltre più di due passi il suo naso, e Joseph Kappa muore certo che la società e quel sistema di uomini a lui simili e pari- che Kafka cita sovente col sostantivo allegorico di Castello - , non permetta all'uomo di vedere oltre quel limite. Il nome del nostro attuale guardasigilli vorrà essere solo lo scherzo della suddetta kafkiana ironia della sorte. Lj
Post n°23 pubblicato il 29 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
I film di Muccino possono considerarsi esempi di neo-neo-realismo (per il vizio del cinema italiano fatto di susseguitisi nei... ), di un'atipica maniera fabulatrice che si limita ad una messa in scena affrancata da definiti intenti critici, e non - dichiaratamente - in grado di perseguirne. Ricordati di me è un documentario di psicologia sociale, e il successo del suo regista è giustificato dalla sua modestia disarmante di raccontare come fotografare, di esaltare semplicemente riportando. Il suo è finora un cinema di reportage che non giudica nessuno e che, al limite, unica pretesa analitica muove nella collocazione del Dolore, come unico luogo di reale e possibile comunione degli attori sociali. Ma proprio per il suo essere privo di pretese tendenziose di giudizio, stimola lo spettatore alla riflessione, dotandolo di quell'appagamento proprio di chi è conferito della facoltà di giudicare. Non tutti i film lo permettono così apertamente, e in ciò sussiste il segreto del suo successo. L J (25 feb 03)
Post n°21 pubblicato il 14 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Ecco la storia di un Guerriero dei nostri tempi tragicamente svilito, forse, in una vecchiaia non delle migliori. Adesso lo ricopriranno di Oscar alla carriera, giustamente, ma incenseranno come già fanno, un film che non vale l’ombra di tutta una passata carriera. Parlo di Clint Eastwood, di quel mito vivente che da “Per un pugno di dollari” in poi, ci ha regalato esempi unici di “nuova epica”, pur in salsa western o metropolitana, di quel tipo di cinema che fece di Eastwood un attore “riconosciuto” gelosamente a Destra. Se si pensa a film come “Impiccalo più in alto” si potrebbe pure pensare ad una “Destra Anarchica”, ma insomma quello che mi preme rilevare è che la sinistra certo non aveva mai avuto modo –e pure nella storia di furti di iconolatria ne ha compiuti - di rivendicarne anche solo una lontana rappresentanza. E invece, quando meno te lo aspetti, quando vai tranquillo al cinema convinto che il film potrà solo “confermarti” ma non “sorprenderti”, figurarsi tradirti, succede il patatrac. “Million dollar baby”, avrei fatto bene a non vederlo. Facendola breve, al termine di una storia a tratti macchiettistica, il Grande Clint s’è perso nel messaggio poco edificante, quasi oltre il limite negativo di un nichilismo come quello di Sartre –mi viene da dire-, dove l'eutanasia è propinata con la facilità di un Capezzone. In più, la strada che porta E. a optare per la Dolce-morte (non so se ha visto il film, sicuramente lo vedrà), è scelta al di là di reali condizioni di malessere fisico. La protagonista non soffre particolarmente dolore fisico, ma mentale; non vuole accettare una vita a-normale. Mi ha inorridito la faciloneria di un film che è il Manifesto dell'Eutanasia, così come della strisciante Cultura Eudemonica da cui essa trae nutrimento. La "necessità di morte" è strumentalmente data a bere, come necessità di sfuggire al Dolore fisico, quando invece - se si è attenti al film e non mossi da pregiudizio - si dovrebbe vedere lapalissiano l'incolmabile vuoto a vivere di una psiche mal integrata. Una ragazza evidentemente depressa prima di salire alla ribalta dello sport; lo sport le darà la sensazione di un riscatto come una qualunque illusione; l’incidente fisico la ricondurrà al malessere iniziale. Tutto molto banale e chiaro.
Post n°20 pubblicato il 12 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Ieri, OTTO MARZO. L J da TrAmp.it
Post n°19 pubblicato il 12 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
“Giovani e politica” è un binomio che assomiglia sempre più ad un ossimoro. Senza includere quelle minoranze impegnate in ranghi costituiti, ad hoc, dai vari partiti, l’interesse della gioventù di massa verso le cose della polis, appare evidentemente trascurato. Ad oggi, gli appassionati apparentemente spontanei di politica, nella realtà della gioventù per così dire “senza tessera”, sono rappresentati per la maggiore dai famigerati centri sociali che, invero, travalicano la suddetta ipotesi dell’ossimoro, per raggiungere un’antinomia delle più aberranti: cosa svolgono di “socialmente” utile i cosiddetti centri “sociali”, non è chiaro a nessuno. La destra, di contro, ha i suoi “Giovani”, che, pur nella legalità delle proprie manifestazioni, non riescono a bucare mai la coltre della invisibilità, e il fascino sui media è determinato con grave sbilanciamento dai gruppi di sinistra, spesso gauchisti ma non meno sfruttati all’uopo dalla sinistra di palazzo. Si guardi solo alle ultime vicende di giovani sciacalli che, defraudando a viso coperto centri commerciali del nord Italia, non soltanto non hanno subìto una requisitoria mediatica adeguata alla gravità del caso, ma sono diventati - per l’arcano potere di quella “scatola magica” che li presenta al mondo come tenebrosi paladini della Libertà -, esempi per migliaia di giovani. Il web affollato da esternazioni di plauso verso questi delinquenti sociali, ne è la testimonianza esplicita; teppisti quindi, impropriamente ridipinti anche a mezzo (cattiva)informazione, come eroi del sogno rivoluzionario, romanticamente dannati e demagogicamente terzomondisti. Di qui, tutto l’aspetto negativo dell’avvicinamento dei giovani alla politica, per altro già episodica, che dimostra di esserci non senza una pericolosa fascinazione mistificatoria, e retta dall’avallo indegno del sistema mediatico. Tutta l’iconografia di sinistra, del resto –dal Guevara al marchio Feltrinelli - è uno degli emblematici e contraddittori esempi di “cocacolonizzazione” di quei principi e di quelle strutture note sotto “marchio registrato” No-Global. Ma andando oltre questo esempio certo poco augurabile di “giovani per la politica”, non si può fare a meno di constatare l’assenza, quasi “omertosa”, di una “politica per i giovani”. Le cause di una disaffezione tale devono essere addebitate ad alcuni vettori che hanno agìto sinergicamente dalla fine degli anni di piombo ad oggi, e che davvero rischiano di determinare nei giovani d’Italia, una sorta di quint’essenza dell’ “Uomo Qualunque”, assolutamente distante, incapace di evitare il “ torchio mosso da mani ignote che schiaccia i semplici cittadini”, secondo quanto scriveva Guglielmo Giannini. Georg Simmel invece aveva utilizzato, nel suo “Filosofia del Denaro”, l’aggettivo blasé per dipingere l’individuo novecentesco che, anestetizzato in ogni sua facoltà patetica dal vortice dell’iper-consumismo, perdeva capacità di appassionarsi per ogni cosa non rientrasse in quel che Marx chiamava il “feticismo delle merci”. Se in parte, la diagnosi simmeliana del blasé è omologabile alla condizione dei giovani nel rapporto con la politica, è pur vero che il problema non si esaurisce affatto nella retorica marxista, come del resto non può nella tesi qualunquista. Gravi responsabilità pesano sul capo di quanti hanno governato il paese dalla fine degli anni ‘70 ad oggi, e, soprattutto, nei pressi di quei ministeri dell’Istruzione Pubblica che mai hanno saputo incidere nel fornire un’adeguata sensibilizzazione degli studenti verso la politica e la cronaca socio-culturale; di quanti dalla stanza dei bottoni della cultura hanno preferito, per decenni, “dogmatizzare” una “certa” visione politica, attraverso la mistificazione dei libri di testo, evitando con vera “omertà” lo studio sistematico e continuativo della politica come fatto e “coagulo” sociale. Il “quotidiano in classe”, come da più parti giustamente suggerito è ad oggi una realtà ancora lontana. Qualora non volessimo davvero avallare la ipotesi papiniana di “scuola” come “inutile casamento”, sarebbe doveroso investire nella crescita di un’istituzione, qual è la scuola appunto, in perenne declino, oggi tentata in una riforma troppo attenta alla “professionalizzazione”, ma imperdonabilmente restia a sottrarre i “suoi” giovani ad altri ufficiosi istituti (centri sociali, gruppo dei “pari”, media di massa), i quali s’arrogano indisturbati il ruolo di forgiare le gioventù, magari non a propria immagine e somiglianza, certamente a proprio uso e consumo. L J
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Inviato da: LuvelioJUSA
il 29/03/2005 alle 13:52
Inviato da: LuvelioJUSA
il 18/02/2005 alle 13:28