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Socrate e il paradosso del Diritto

Post n°281 pubblicato il 13 Settembre 2008 da gladiatore1973
 
Foto di gladiatore1973

Socrate è stato condannato a morte e questa condanna è divenuta il paradigma della giustizia ingiusta. Nell’attesa dell’esecuzione Critone offrì al vecchio la possibilità di sfuggire al suo destino - la sua evasione era stata organizzata e non appariva difficile - ma il filosofo rifiutò.

Pur reputandosi innocente, tanto che per sé aveva proposto come “pena” adeguata una nomina equivalente a quella di senatore a vita, sostenne che, avendo per tutta la vita obbedito alle leggi, si sentiva obbligato a farlo anche a costo della sua vita. La condanna era ingiusta ma se le leggi erano ingiuste, non bisognava violarle, bisognava modificarle. Fra l’altro allora ogni città di una certa dimensione faceva Stato a sé e dunque si poteva scegliere l’ordinamento giuridico al quale essere sottoposti. Chi non amava le leggi di Atene ben poteva andare a vivere a Tebe o a Sparta. Il filosofo aggiunse anche che aveva già settant’anni e non valeva la pena di violare leggi e contraddirsi solo per vivere qualche anno in più.


Nei secoli, la nobiltà con cui Socrate affrontò la morte è stata un topos, un classico argomento di discussione: e l’ammirazione per il filosofo è stata universale. È tuttavia lecito affermare che per questa particolare scelta di comportamento si possono avere dei dubbi.
Se il grande pensatore si fosse reputato colpevole, e avesse scelto di morire, si sarebbe potuto capire: avrebbe per così dire condiviso l’opportunità della pena inflittagli. Egli viceversa si reputava non solo innocente ma addirittura persona che aveva reso grandi servigi allo Stato: dunque non condivideva la condanna. Si limitava a rispettare le leggi solo perché leggi dello Stato e attribuiva loro con ciò stesso una sorta di sacralità, al punto che al primo posto non veniva la loro giustizia  - e infatti la sua condanna era ingiusta – ma il fatto che esse avessero il crisma dell’ufficialità. E questo è difficile da condividere.


Se le leggi, come le Tavole che Mosè ricevette sul Sinai, emanassero direttamente da Dio, sarebbe fuor di luogo discuterne la saggezza e perfezione. Ma le leggi di Atene, come le leggi di qualunque paese in ogni tempo, sono il risultato della decisione degli uomini. Ed anzi degli uomini politici. Esse dipendono dal periodo storico, dalle convinzioni dei legislatori e perfino dai loro pregiudizi. Nulla assicura che siano giuste. Fra l’altro, se fossero sacre, sarebbero anche eterne e invece mutano nel tempo. È perciò opportuno obbedire alle leggi per civismo, quando si pensa che siano ragionevoli, o per paura della sanzione: ma pretendere una sorta di adorazione della norma dello Stato in quanto tale è francamente eccessivo. Del resto questa è cosa che non richiede nemmeno il legislatore. Nel processo penale, mentre i testimoni devono giurare, prima di deporre, l’imputato non è tenuto a farlo: la stessa legge reputa legittimo che l’accusato cerchi di sfuggire alle proprie responsabilità. Anche mentendo. Anche quando sa di essere colpevole. Figurarsi quando si reputa innocente.


Si potrebbe dire che il rapporto del cittadino con la legge sia retto da questi principi:

a) la legge va obbedita quando la si condivide. Anche se si è in una strada deserta, non è bene buttare per terra il pacchetto di sigarette vuoto;

b) quando non la si condivide, si è autorizzati a violarla all’unica condizione che si sia disposti a subire la sanzione senza protestare. Lo Stato ha il diritto di punire.

c) se infine non si condivide la legge, e si è sicuri di sfuggire alla sanzione, la si può violare impunemente.

Dal punto di vista morale questo, per molti, è inammissibile, ma questa inammissibilità è molto discutibile. Innanzi tutto, l’esperienza dice che chi può violare una legge senza rischi, fin troppo spesso lo fa. Probabilmente anche coloro che hanno dichiarato inammissibile il principio appena enunciato. Poi, la filosofia del diritto insegna che la legge non chiede un’intima adesione ma l’obbedienza: è il principio dell’esteriorità del diritto.

Basti pensare che chi, in Germania o altrove, durante il nazismo, dava aiuto o nascondeva un ebreo, violava la legge e rischiava addirittura la propria vita. Lo si deve biasimare perché violava le leggi – perfettamente valide, dal punto di vista giuridico – del Terzo Reich? Una norma anche se emanata dallo Stato non è detto che sia moralmente GIUSTA e da osservare. Le leggi degli uomini a volte sbagliano come gli uomini stessi e la linea sottile che divide ciò che è GIUSTO da ciò che è INGIUSTO è nella nostra COSCIENZA. Per quanto imperfetto è l'uomo, tanto perfetta è la sua ANIMA che sa DISCERNERE il MALE dal BENE.
Quindi, Socrate avrebbe fatto bene a fuggire. Ai suoi giudici sarebbe bastato l’esserselo tolto di torno e quei pochi anni che lui ha sdegnosamente rifiutato gli sarebbero serviti a regalare a noi immortali pensieri e a se stesso la sua saggia e sorridente gioia di vivere.

 
 
 
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