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Hereafter

Post n°64 pubblicato il 27 Gennaio 2011 da marina1811

Marie Lelay è una giornalista francese sopravvissuta alla morte e allo tsunami. Rientrata a Parigi si interroga sulla sua esperienza sospesa tra luccicanza e oscurità, alienandosi fidanzato ed editore. Marcus è un fanciullo inglese sopravvissuto alla madre tossicodipendente e al fratello gemello, investito da un auto e da un tragico destino. Smarrito e ‘spaiato’ cerca ostinatamente ma invano di entrare in contatto con Jason, di cui indossa il cappellino e conserva gli amabili resti. George Lonegan è un operaio americano in grado di vedere al di là della vita. Deciso a ripudiare quel dono e a conquistarsi un’esistenza finalmente normale, George ‘ascolta’ i romanzi di Dickens e frequenta un corso di cucina italiana. Sarà proprio la “piccola Dorrit” dello scrittore britannico a condurlo fino a Londra, dove vive Marcus e presenta il suo nuovo libro Marie. L’incontro sarà inevitabile. George, Marcus e Marie troveranno soccorso e risposte al di qua della vita.
Non si può vedere “al di là” delle cose senza finire prigionieri del dolore. Lo sanno bene George e Marie, protagonisti adulti di Hereafter, che hanno oscillato sulla soglia, sperimentando la morte e scampandola per vivere al meglio quel che resta da vivere nel mondo. Un mondo reso meno imperfetto da un ragazzino che ha negli occhi e nei gesti qualcosa di gentile. Qualcosa che piacerà al George di Matt Damon e troverà un argine alla sua solitudine. Nella compostezza di una straordinaria classicità, che si concede un momento di tensione quasi insostenibile nella sequenza lunga e spietata del maremoto, l’ultimo film di Clint Eastwood insegna qualcosa sulla vita confrontandosi con la morte, quella verificata (Marie), quella subita (Marcus), quella condivisa (George).
Hereafter prende atto che la vita è un esperimento con un termine e si articola per questo attraverso prospettive frontali: al di qua e al di là del confine che separa la presenza dall’assenza. È questa linea di demarcazione a fare da perno al montaggio alternato delle vite di una donna, di un uomo e di un bambino dentro una geometria di abbagliante chiarezza e spazi urbani pensati per gravare sui loro destini come in un romanzo sociale di Dickens. Destini colpiti duramente e deragliati ineluttabilmente dalla natura (lo tsunami in Indonesia), dalle tensioni sociali (gli attacchi terroristici alle metropolitane londinesi), dalla fatalità (l’incidente stradale), destini che si incontrano per un attimo (o per la vita) in un mutuo scambio di salvezza. Perché da tempo i personaggi di Eastwood hanno abbandonato l’isolazionismo tipico dell’eroe americano a favore di una dialettica che mette in campo più interlocutori e pretende il contrasto.
Hereafter non fa eccezione e prepara l’incontro, il controcampo del campo: lo sguardo di Cécile De France che ha visto, quello di Matt Damon che riesce a vedere, quello del piccolo Frankie McLaren che vuole andare a vedere. Facendosi in tre l’autore mette lo spettatore al centro di qualcosa di indefinibile eppure familiare come il dolore dell’essere, produce punti di vista potentemente fuori binario sul tema della morte e offre a Damon l’occasione di comporre la migliore interpretazione della sua carriera. Disfandosi della cifra della neutralità, il divo biondo conquista l’emozione e la cognizione del dolore, abitando un sensitivo che ha visioni di morti (e di morte) al solo contatto delle mani, una tristezza profonda piena di pietà e il desiderio di smettere di vedere il passato di chi resta e di immaginare il futuro (e il sapore) di un bacio.
Clint Eastwood con Hereafter conferma la vocazione alle sfumature, azzarda l’esplorazione della morte con la grazia del poeta, interroga e si interroga su questioni filosofiche e spirituali e contrappone alla debolezza del presente e dentro un epilogo struggente l’energia di un sentimento raccolto nel futuro. Raccolto inevitabile, come un trapasso e ogni altra dinamica di natura.

 
 
 
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