Creato da marina1811 il 04/01/2009

PAROLE ONDEGGIANTI

Tutto ciò che ho voglia di scrivere

 

Precious

Post n°93 pubblicato il 26 Settembre 2011 da marina1811

Precious Jones ha diciassette anni, un corpo obeso e un figlio nel ventre (il secondo ed entrambi sono frutto di incesto). A scuola viene derisa dai compagni anche perchè non ha ancora imparato a leggere e scrivere. A casa la madre non solo non la difende dalle violenze paterne ma la accusa di averglielo rubato oltre a cercare di ostacolare in ogni modo i suoi tentativi di riscatto dall'ignoranza. Precious però, solo apparentemente ottusa, tiene duro. Accetta l'offerta di iscriversi a una scuola con un programma speciale dove finalmente comincia ad apprendere come leggere e scrivere e, soprattutto, decide di tenere il bambino. La strada verso l'autodeterminazione non è però facile.
Una vera sopresa positiva questa opera seconda di Lee Daniels. Ispirato a un romanzo di Sapphire il film non ha nulla di letterario e non a caso, prima di essere presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, ha vinto al Sundance il Premio del Pubblico e il Gran Premio della Giuria. Entrambi meritati perchè questa storia di ordinaria violenza domestica e sociale è narrata con uno stile decisamente originale e si avvale di una protagonista che riesce a trasformare il proprio problema fisico in una risorsa di indubbio impatto. Se vedendola comprendi come il mondo che la circonda possa trovare più di un'occasione per deriderla, Daniels riesce a farti aderire immediatamente all'universo dei suoi desideri non facendo ricorso a un facile pietismo ma lavorando sul suo immaginario.
Precious è una ragazza di diciassette anni prigioniera di un corpo fuori misura che però non si sogna magra. Il suo universo ideale ha altri territori in cui cercare percorsi diversi da quelli ormai a lei ben noti della brutalità di una vita in cui domina l'ignoranza. Perchè Daniels riesce a farci quasi respirare un clima saturo di un odio e di una perfidia dettati dalla totale mancanza di un benchè minimo orizzonte culturale. Lo fa però con la leggera profondità di chi sa che si può trovare uno stile piacevole per proporre riflessioni su temi gravi. Riuscendoci.

 
 
 

Super 8

Post n°92 pubblicato il 26 Settembre 2011 da marina1811

Ohio, estate del 1979. Nel tentativo di girare un scena particolarmente efficace per un film in super 8 da mostrare ad un festival provinciale, un gruppo di ragazzi è involontariamente testimone di un terribile disastro ferroviario dal quale “qualcosa” fugge.
La questione è talmente importante che la loro cittadina si riempie di militari intenti ad indagare mentre misteriosamente dalle case spariscono oggetti tecnlogici, persone e cani. Alla fine starà ai ragazzi riuscire a mettere insieme i pezzi di una storia che procederà comunque, con o senza il loro intervento, e dalla quale dovranno uscire vivi.
“Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù! Ma chi li ha?” dice Richard Dreyfuss nella scena finale di Stand By Me, riassumendo nel 1986 il senso di una stagione del cinema americano che si andava chiudendo dopo aver messo al centro dell'immaginario cinematografico il mondo della preadolescenza di provincia e aver creato un vero e proprio sottogenere. Cuore e motore di quell'ondata fu Steven Spielberg, a lui e ai primi film della sua Amblin Entertainment è esplicitamente ispirato Super 8.
Al suo terzo film J.J. Abrams gira la sua opera più complessa, l'unica in grado di fondere le molte diverse ossessioni della sua carriera anche televisiva. Partendo dall'idea di aderire agli stilemi e all'estetica di certo cinema spielberghiano (i ragazzi, le biciclette, la provincia, la fine degli anni ‘70, i problemi con i padri...), gradualmente Abrams contamina il suo film-omaggio di elementi personali. Invece che immedesimarsi totalmente e girare un film amblin al 100% Abrams sceglie di non rinunciare ai suoi controluce che provocano bagliori lenticolari, al suo gusto per la gestione del mistero, ai filmini d'epoca che rivelano segreti, al grande incidente o all'utilizzo di figure mostruose come metafora delle paure (come avveniva già nel Cloverfield da lui prodotto e nell'unica puntata di Lost di cui è stato regista, quella pilota).
Super 8 non va quindi considerato come la riproposizione di una storia e un modo di fare cinema vecchi di 30 anni, ma la messa in scena del cinema di Spielberg visto dagli occhi di Abrams. Infatti mentre nella prima parte il film abusa di topoi Amblin, nella seconda, quella in cui alla descrizione dello scenario si sostituisce l'avvicinarsi dell'incontro ravvicinato, comincia a dosare quello, applicandolo solo in certi punti (l'inquadratura rivelatoria della bacheca con tutti gli annunci di cani scomparsi e il particolare anatomico della creatura che si svela solo a distanza ravvicinata gridano Spielberg a squarciagola).
Se c'è invece qualcosa che davvero marca la separazione tra il cinema di oggi e di ieri, tra Abrams e Spielberg, è il modo in cui i due guardano al cielo. La meravigliosa speranza, poesia e commozione con la quale il regista di Incontri ravvicinati del terzo tipo aspettava i suoi alieni buoni è totalmente assente, al suo posto uno sguardo che più che essere rivolto in alto guarda in basso. Gli alieni moderni di Abrams hanno il medesimo ruolo di quelli di District 9 o Monsters, sono lo specchio delle barbarie umane e non delle loro aspettative più alte.
Citazionismi e ricalchi a parte, alla fine il senso dell'operazione è dimostrato dalla capacità di raccontare una piccola storia che si inserisce in una più grande. Super 8 ha il merito di riuscire a ricongiungere trama e personaggi alla maniera di E.T.. Uno stile fondato prima di tutto su un casting a regola d'arte, che trova sei ragazzi perfetti per dare vita ai sei caratteri scritti su carta, tra i quali si distingue l'eccezionale Elle Fanning (sorella dell'altro prodigio Dakota Fanning, ma cosa danno da mangiare in quella famiglia?). E in seconda battuta concentrato a non perdere mai di vista la coerenza interna data dai caratteri infantili, volontà simboleggiata dal piccolo piromane (uno dei personaggi più riusciti) che anche nella più terribile delle situazioni si chiede dove siano le sue miccette.

 
 
 

Guttuso e gli amici di Corrente

Post n°91 pubblicato il 18 Settembre 2011 da marina1811

Il percorso espositivo prevede oltre 70 opere. Tra queste dipinti e lavori grafici di Renato Guttuso, alcuni delle quali verranno riproposti all’attenzione del pubblico e della critica dopo anni di oblio, che abbracciano l’intero viatico artistico di Guttuso: un arco produttivo che va dagli anni Trenta ai Settanta. A completamento dell’evento, per meglio comprendere i rapporti e le tematiche culturali, politiche ed anche sociali, che hanno visto coinvolto l’artista nel suo lungo e infaticabile percorso, una parte cospicua della mostra è dedicata ai suoi amici più cari, appunto, quelli del gruppo di “Corrente” (Treccani – Birolli – Sassu – Migneco – Morlotti, tra gli altri) con i quali Guttuso aveva instaurato un sodalizio fortissimo.

 

 
 
 

Crazy, stupid love

Post n°90 pubblicato il 18 Settembre 2011 da marina1811

Cal Weaver e signora sono sposati da venticinque anni, hanno due figli e pochi problemi. Almeno fino a quando lei non lo informa di averlo tradito con un collega e di desiderare il divorzio. Improvvisamente single, Cal finisce ad ubriacarsi ogni sera di vodka al mirtillo in un bar dove non aveva mai messo piede prima, evitato da tutte tranne che dalla babysitter di suo figlio, una diciassettenne perseguitata dal ragazzino ma cotta del padre. L’autocommiserazione ostentata di Cal, al bancone del bar, infastidisce Jacob Palmer, giovane seduttore seriale, che si ripromette di aiutarlo a dimenticare la moglie e a tornare in pista.
Coppia di sceneggiatori celebrata (Babbo Bastardo), quando si mettono dietro la macchina da presa Ficarra e Requa sembrano preferire copioni ibridi, nei quali commedia e dramma non si sfiorano soltanto a tratti ma si annodano così strettamente che è difficile, alla fine, sciogliere del tutto l’enigma. Era stato così per Colpo di Fulmine – Il mago della truffa, ed è così per Crazy Stupid Love. Anche qui, al centro della vicenda c’è una coppia di uomini (e dunque un pubblico di riferimento insolito per il genere), diversissimi eppure bisognosi l’uno (dell’esempio) dell’altro, ma non c’è dubbio che il colore dominante sia il rosa e che il film rientri comodamente nel genere sentimentale, con tris di coppie a ribadire il concetto.
Il poker di interpreti principali è notevole. Steve Carrel sguazza nel suo acquario, sommerso da qualcosa di più grande di lui che lo rende prima vittima da consolare e poi piccolo grande eroe, mentre il fatto che funzioni anche Ryan Gosling depone solo a favore del suo talento, tanto è fuori ambiente (cinematografico di riferimento) nei panni del macho ultragalante. Merito del talento, dunque, ma anche dell’accoppiata credibile con Emma Stone, vera candidata al ruolo di femmina forte della commedia romantica del futuro prossimo (posto, peraltro, vacante da anni). Se Julianne Moore e Kevin Bacon, infine, rifanno se stessi su due registri opposti (più drammatico-sentimentale lei, più sopra le righe lui), il tocco di grazia al cast viene da Marisa Tomei, in straordinaria forma comica. Per quanto limitato nella tempistica, il suo contributo porta la commedia pura in un film che altrimenti non sarebbe scontato definire tale. Nonostante, infatti, la sceneggiatura contenga diversi spunti ironici già nell’idea (un uomo colpito dalla crisi di mezz’età della moglie, una ragazzina in pieno fermento ormonale in una pericolosa terra di mezzo tra padre e figlio), dietro la macchina da presa i due registi scelgono spesso di dilungarsi sui sorrisi amari dei loro personaggi, sugli occhi che trattengono le lacrime, tanto degli adulti quanto dei ragazzini. L’incertezza di tono è tanta, forse troppa, ma non risolve le cose un finale che riporta senza strappi l’ordine (pre)stabilito. L’incipit, invece, è da classifica delle migliori ouverture del genere.

 
 
 

Precious

Post n°89 pubblicato il 18 Settembre 2011 da marina1811

Precious Jones ha diciassette anni, un corpo obeso e un figlio nel ventre (il secondo ed entrambi sono frutto di incesto). A scuola viene derisa dai compagni anche perchè non ha ancora imparato a leggere e scrivere. A casa la madre non solo non la difende dalle violenze paterne ma la accusa di averglielo rubato oltre a cercare di ostacolare in ogni modo i suoi tentativi di riscatto dall'ignoranza. Precious però, solo apparentemente ottusa, tiene duro. Accetta l'offerta di iscriversi a una scuola con un programma speciale dove finalmente comincia ad apprendere come leggere e scrivere e, soprattutto, decide di tenere il bambino. La strada verso l'autodeterminazione non è però facile.
Una vera sopresa positiva questa opera seconda di Lee Daniels. Ispirato a un romanzo di Sapphire il film non ha nulla di letterario e non a caso, prima di essere presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, ha vinto al Sundance il Premio del Pubblico e il Gran Premio della Giuria. Entrambi meritati perchè questa storia di ordinaria violenza domestica e sociale è narrata con uno stile decisamente originale e si avvale di una protagonista che riesce a trasformare il proprio problema fisico in una risorsa di indubbio impatto. Se vedendola comprendi come il mondo che la circonda possa trovare più di un'occasione per deriderla, Daniels riesce a farti aderire immediatamente all'universo dei suoi desideri non facendo ricorso a un facile pietismo ma lavorando sul suo immaginario.
Precious è una ragazza di diciassette anni prigioniera di un corpo fuori misura che però non si sogna magra. Il suo universo ideale ha altri territori in cui cercare percorsi diversi da quelli ormai a lei ben noti della brutalità di una vita in cui domina l'ignoranza. Perchè Daniels riesce a farci quasi respirare un clima saturo di un odio e di una perfidia dettati dalla totale mancanza di un benchè minimo orizzonte culturale. Lo fa però con la leggera profondità di chi sa che si può trovare uno stile piacevole per proporre riflessioni su temi gravi. Riuscendoci.

 
 
 

Verso l'autunno

Post n°88 pubblicato il 09 Settembre 2011 da marina1811

L'estate sta proprio finendo, ricomincia la vita di sempre e la sera torna la voglia di guardarsi un film sul divano... per questo ricomincio a pubblicare qualche nota su ciò che vedo e ciò che leggo...

 
 
 

Il giardino delle vergini suicide

Post n°87 pubblicato il 09 Settembre 2011 da marina1811

La famiglia Lisbon, composta dai genitori e da cinque ragazze fra i 13 e i 17 anni, vive in una cittadina dell'Oregon. Le cinque sorelle sono tutte molte belle e affascinanti ed esercitano sui ragazzi del vicinato un fascino irresistibile. Tutto cambia quando la più giovane, Cecilia, si suicida buttandosi dalla finestra. I genitori reagiscono alla tragedia impedendo alle figlie ogni rapporto con l'esterno, ma una notte le sorelle riescono comunque ad invitare i ragazzi a entrare in casa.

Locandina del film Il giardino delle vergini suicide

 
 
 

Karate Kid

Post n°86 pubblicato il 09 Settembre 2011 da marina1811

Il dodicenne Dre Parker è costretto a lasciare la sua casa e i suoi amici di Detroit per trasferirsi con la madre in Cina. Dopo l'iniziale smarrimento, anche a causa di alcuni bulli della scuola capeggiati dal perfido Cheng, Dre fa amicizia con la sua compagna di classe Mei Yin, ma le differenze culturali rendono il loro rapporto quasi impossibile. Dre, vessato e senza amici in una paese straniero, si sente completamente spaesato ma un aiuto inatteso arriverà dal responsabile della manutenzione del suo condominio, Mr. Han. L'uomo, che in realtà è un maestro di kung fu, aiuterà Dre a superare le sue difficoltà con Cheng e gli farà vivere un'emozionante avventura (Remake del film "The Karate Kid - Per vincere domani", di John G. Avildsen)

 
 
 

Italian job

Post n°85 pubblicato il 21 Giugno 2011 da marina1811

Charlie Croker e la sua banda hanno messo a segno un colpo miliardario sottraendo lingotti d'oro da un palazzo veneziano. Ma qualcuno all'interno del gruppo ha deciso di tenersi tutto per sè, non esitando a eliminare il vecchio John, padre spirituale del gruppo, pur di mettere le mani sul malloppo. Urge vendetta: e quale vendetta migliore che riappropriarsi del maltolto, inscenando il più gigantesco ingorgo della storia per poter scappare indisturbati o quasi a bordo di tre Mini? Che la fantasia ad Hollywood sia in drastica diminuzione si sa da tempo, e "The italian Job" lo conferma appieno: qui si va addirittura a ripescare un titolo non memorabile del 1969 pur di portare a casa uno straccio di idea. Ma l'idea in sè non basta, se non valorizzata da una sceneggiatura all'altezza. E qui, escludendo il buon inizio veneziano e l'adrenalinica mezz'ora finale, ci sono almeno sessanta minuti sonnacchiosi. Cast sulla carta notevole, ma decisamente sottoutilizzato: il regista viene dal video - clip, e purtroppo si vede benissimo.

 
 
 

Red

Post n°84 pubblicato il 17 Maggio 2011 da marina1811

Frank Moses è un ex agente della CIA in pensione, che vive in una villetta uguale alle altre cercando di fare una vita uguale alle altre. Purtroppo per lui e per Sarah, la ragazza ingenua e sognatrice che ha conosciuto al telefono, i segreti di stato in possesso di Frank lo hanno trasformato da strumento di morte a bersaglio dell'Intelligence: qualcuno da eliminare e in fretta.
Inizia così quella che può apparire come la fuga di Frank Moses ma altro non è che il giro di reclutamento dei vecchi compagni: il vecchio Joe, il folle Marvin, il russo Ivan, lady Victoria, dopo di che la canna della pistola compie un giro di 180 gradi e la fuga si fa vendetta, la diaspora riunione, la pensione una nuova missione.
Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell'inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa.
Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c'è solo l'eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c'è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c'è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l'arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell'operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità.
Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche “la regina” Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest'alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione.
Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della “palla al piede”. Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.

 
 
 

Idiocrazy

Post n°83 pubblicato il 09 Maggio 2011 da marina1811

Joe Bowers è un militare che fa il suo dovere senza infamia e senza lode in attesa della pensione. Non sa che l'Esercito statunitense ha messo gli occhi su di lui perché, proprio in quanto perfetto rappresentante dell'uomo medio americano, può essere l'individuo giusto. Per cosa? Per un esperimento di criogenetica. Verrà ibernato (e insieme a lui, ma in un altro contenitore, una prostituta desiderosa di sfuggire al proprio protettore) e riportato in vita a tempo debito. Peccato che la realtà non rispetti i piani e che il degrado a cui gli States vanno incontro faccia sì che i due si risveglino nel 2505.
Qui iniziano i problemi a cui ci hanno abituati tutti i film e i romanzi sulle macchine del tempo fin dall'epoca dell'ironico 'americano alla corte di re Artù' di Mark Twain? Sì e no. Perché qui il viaggio è in avanti ma di fatto all'indietro. Gli Stati Uniti sono infatti diventati un Paese (ma forse è meglio usare la 'p') popolato da utentici idioti incapaci di risolvere qualsivoglia problema. L'umorismo corrosivo di Mike Judge ha così modo di espandersi a tutti gli aspetti di una società ormai in inarrestabile declino (guardate come è descritto l'ospedale e poi pensate a Michael Moore).
Come ogni buon osservatore dei costumi dei propri contemporanei il regista cerca nel nostro presente i germi di un futuro secondo lui carico di negatività. Su tutto domina il problema dei rifiuti che non si riescono più a smaltire (sembra di sentire le cronache recenti dei TG nostrani). Ma se è vero che nel regno dei ciechi il monocolo è re per il nostro Joe c'è la possibilità di diventare leader…
La satira di Judge è molto 'made in Usa' ma può estendersi per molti aspetti all'intero pianeta e ai suoi usi e costumi sempre più 'bassi'. Godetevi ad esempio, nella fase iniziale, la rappresentazione all'acido muriatico del detto 'la madre dei cretini è sempre incinta'. Colpisce al centro con grande precisione.
Per il resto, anche se con qualche discontinuità, il film raggiunge l'obiettivo. Perché Judge è un ottimista. Nel senso però di una battuta del film No Man's Land. Alla domanda sulla differenza che intercorre tra un ottimista e un pessimista si risponde: "Il pessimista pensa che le cose non possano andare peggio di così. L'ottimista pensa di sì". È difficile essere più 'ottimisti' di Judge.

 
 
 

4 minuti

Post n°82 pubblicato il 26 Aprile 2011 da marina1811

L'ottantenne Traude Krüger si reca ogni giorno presso il carcere femminile di Lickau dove insegna a suonare il pianoforte a un numero sempre più esiguo di allieve. Il corso rischia di essere chiuso ma la donna, grazie anche alla solidarietà di un guardiano, riesce a convincere il direttore. Un giorno però sarà la stessa guardia carceraria, massacrata di botte da una detenuta, Jenny, a cambiare idea. Jenny è infatti in carcere accusata di omicidio. Ha uno straordinario talento per il piano ma è preda di crisi di violenza che la gettano nello sconforto. Traude, inizialmente diffidente nei suoi confronti, deciderà di insistere riuscendo, nonostante i vincoli burocratici e non posti dal personale del carcere, a portarla fino alle soglie di un Concorso per giovani pianisti. C'è però un altro ostacolo che pare insuperabile: Jenny ama svisceratamente l'hip hop col quale riesce ad esprimere sulla tastiera la sua creatività e la sua rabbia. Traude invece lo detesta.
I film sul rapporto insegnante-allievo/a in cui l'uno cerca di spingere l'altro a esprimere il suo talento grazie al rigore rischiano sempre di fare la stessa fine: conflitti, incomprensioni, progressi e poi il trionfo che fa contenti tutti. Non è così in 4 minuti dove la dinamica narrativa è molto più complessa e affronta direttamente non solo il tema dell'arte e di chi ne è dotato ma anche quelli, altrettanto importanti, dell'influsso di un passato il cui peso è difficile da portare e della rieducazione in ambito carcerario.
Traude e Jenny non sono due personaggi da "romanzo di formazione" trasposto sullo schermo. Sono due esseri reali (la sceneggiatura ha vinto nel 2004 un importante premio in Germania) fatti di nervi, di rigidità, di scarsi abbandoni e di improvvisa (per Jenny) quanto incontrollabile violenza. Sono due donne ferite nel profondo che cercano (l'una chiudendosi in un rigore quasi ottocentesco e l'altra cercando la regola della nessuna regola) una via d'uscita. Che passa anche attraverso il rifiuto dell'altro come persona. Come se fosse possibile insegnare e apprendere senza mettersi in relazione al di là della 'tecnica'. Le due protagoniste saranno costrette reciprocamente a scoprirsi ad accettare pregi e difetti dell'altra (anche quelli che sembrano non emendabili). Solo così potranno dare un senso a una 'rieducazione' che dovrebbe essere lo scopo di ogni carcerazione e che invece molto (troppo) spesso non lo è. A dare corpo e nervi a Traude e Jenny Monica Bleitbtreu e Hannah Herzsprung. Attrice notissima in patria la prima e figlia d'arte la seconda costituiscono un'ulteriore prova del fatto che il cinema europeo esiste ed è in buona salute. Ma i nostri schermi parlano quasi solo americano (doppiato).

 
 
 

Somewhere

Post n°81 pubblicato il 26 Aprile 2011 da marina1811

Johnny Marco vive in un appartamento dell'hotel Chateau Marmont. Tra spettacoli erotici di dubbia eleganza e avventure amorose brevi e disimpegnate , trascorre le giornate in un'apatia ovattata e silenziosamente distruttiva. L'inaspettata permanenza della figlia Cleo impone un cambiamento nel ritmo quotidiano dell'attore. Videogiochi, nuotate, esposizioni al sole e un'incursione alla serata dei Telegatti italiani riempiono le giornate dei due famigliari. L'equilibrio apparente dura fino alla partenza di Cleo per il campeggio. E il ritorno alla vita di Johnny.
Dopo il pernottamento a Tokyo di Lost in Translation, Sofia Coppola sposta l'attenzione su un altro hotel, il famoso Chateau Marmont, residenza alternativa di molte star hollywoodiane. Siamo a Los Angeles, in un posto riconoscibile e leggendario, ma i luoghi del film (stanze, piscine, studi televisivi) sono fondamentalmente ‘non luoghi', ambienti senza radici, che, allo stesso tempo, assumono il ruolo di deposito di emozioni forti ma taciute. Le abitudini edoniste del protagonista assicurano l'illusione del successo ma sono così portate all'estremo da trasformare l'eccitazione in indifferenza. Lo sguardo sottile della regista (anche sceneggiatrice del film) ci introduce al personaggio con delicata tenerezza. Non condanna la sua pacata amoralità né giudica l'impacciata ricerca di incontri sessuali; preferisce invece svelare la sostanziale cifra di quei comportamenti, drammaticamente sconsolati e privi di vitalità. Lo stile di ripresa, fatto di lunghi silenzi, inquadrature ferme (dove spesso è uno zoom lentamente graduato ad avvicinarsi al soggetto) e piani-sequenza densi di suggestioni, mettono in luce le contraddizioni esistenziali di Johnny. La regista mostra gli opposti in gioco con un senso dell'ironia seduttivo. L'arrivo discreto della figlia scombina questo piano narrativo e diventa lei la responsabile della riconquista emotiva del padre. È la piccola Cleo il personaggio attivo che ‘pattina' con grazia sulla strada sottosopra del genitore.
Il circuito chiuso della scena iniziale, dove una Ferrari corre in moto perpetuo, è la rappresentazione visiva dell'aridità umana dell'attore. La scarsità di parole dei dialoghi bilancia la ruvidità del rombo del motore o del chiasso delle festicciole private, per dire che l'affetto, per manifestarsi, non ha bisogno di fare rumore. Il cinema della Coppola, ancora una volta, predilige l'omissione alle dichiarazioni esplicite e in questa rarefatta rinascita del rapporto tra padre e figlia chiede agli attori una gestualità posatissima ma, al tempo stesso, ricca di microespressioni che svelano l'amarezza interiore. Il trash abbonda (l'Italia televisiva è un paese dal quale scappare di corsa) e si insinua nelle camere d'albergo come nell'intimità delle persone, ma rimane, in questo caso, a coprire il ruolo di comparsa. Come Benicio Del Toro in ascensore o Laura Chiatti a Milano. Figuranti di uno spettacolo che va in scena da ‘qualche parte', ovunque e in nessun luogo.

 
 
 

Intervista con il vampiro

Post n°80 pubblicato il 22 Aprile 2011 da marina1811

San Francisco. In una stanza d'albergo un giovane giornalista ascolta la storia di Louis: ricco proprietario terriero tormentato dalla perdita della moglie e della figlia, dopo esser stato morso da un vampiro, riemerge dalle acque del Mississippi.
Siamo nel 1791. Sulle rive del fiume, abbandonato da qualche parte fra la vita e la morte, il narratore della vicenda ammira lo splendore dell'alba per l'ultima volta. Lestat, questo il nome dell'assalitore, ben presto diviene suo maestro e compagno di caccia. I due incominciano a mietere vittime alla "Taverne du chat noir", come negli ambienti nobili di New Orleans (il sangue degli aristocratici eccita Lestat più di ogni altra cosa).
Tuttavia, il giovane vampiro creolo, continua a conservare una sensibilità umana che gli impedisce di assecondare la sua nuova e oscura natura. Suggestiva, a tratti violenta e ambigua deriva vampiresca del genere horror, la pellicola di Neil Jordan, tratta dall'omonimo romanzo cult della scrittrice americana Anne Rice, del 1976 (primo capitolo delle "Cronache dei Vampiri"), ha una struttura narrativa (San Francisco, New Orleans, Parigi, ancora la città sul Mississippi, infine si ritorna a San Francisco) capace di catturare e coinvolgere lo spettatore in un affresco gotico che rivaluta la tradizionale figura del vampiro e le dona nuove e profonde sfumature. Come nel Dracula di Coppola, anche in questo film, attraverso gli occhi di una creatura della notte, il cinema riflette poeticamente su se stesso e sulla magia della propria illusione: in una splendida scena Louis, abbandonato il Vecchio Mondo per tornare nella sua America, scopre quella meravigliosa invenzione tecnica che gli permette di vedere l'alba, per la prima volta, dopo duecento anni. Il cinema, appunto.

 
 
 

Acqua di casa mia

Post n°79 pubblicato il 22 Aprile 2011 da marina1811

 

Perchè scegliere l'acqua del rubinetto

Quattro sono i motivi fondamentali per i quali scegliere l’acqua del rubinetto:
Qualità/Sicurezza; Rispetto dell’ambiente; Risparmio; Comodità

L'acqua del rubinetto non pesa niente.

Una famiglia di tre persone che consuma acqua in bottiglia invece è costretta a trasportare e sollevare una tonnellata di bottiglie ogni anno.

L'acqua del rubinetto è già a casa tua.

 

L’acqua: buona, sicura e di qualità ti arriva direttamente a casa.

Basta aprire il rubinetto.

Perché dunque accollarsi la fatica del trasporto di pesanti e scomode confezioni acquistate nei supermercati?

L’acqua del rubinetto è buona e non pesa. E’ buona e non inquina perché te la portiamo a casa noi, attraverso la rete acquedottistica che anche la tua bolletta contribuisce a riparare e migliorare.

L'acqua del rubinetto è conveniente.

Una confezione di acqua in bottiglia costa mediamente 2,40 euro, la stessa quantità di acqua del rubinetto neanche un centesimo.
Una famiglia risparmierebbe mediamente 250 euro ogni anno.

L'acqua del rubinetto ti fa risparmiare.

Avete mai calcolato quanto spende ogni anno la vostra famiglia per acquistare acqua imbottigliata?

Calcolando un prezzo medio di 2,40 euro per una confezione di 6 bottiglie da 1,5 litri ed ipotizzando che ne acquistiate due alla settimana, alla fine dell’anno avrete speso circa 250 euro per portarvi faticosamente a casa circa 936 litri d’acqua.

Avete mai pensato quanto vi costa la stessa quantità d’acqua ma dal rubinetto?

L’acqua che avete a disposizione ogni giorno a casa vostra ha un costo medio di circa 2,00 euro per metro cubo, ovverosia 1000 litri.

Perché pagare due volte?

Perché oltre alla bolletta (il cui ammontare medio nel territorio di Publiacqua è, nel 2009, di 217 euro l’anno a famiglia e nella quale si paga non solo l’acqua potabile ma anche, soprattutto, gli investimenti ed i servizi di fognatura e depurazione), pagare una cifra simile o addirittura superiore, come nel nostro esempio precedente, per l’acqua imbottigliata?

 

L'acqua del rubinetto rispetta l'ambiente.

Bere acqua in bottiglia fa accumulare tonnellate di rifiuti di plastica da smaltire, un costo per i cittadini e un danno per l'ambiente.

L'acqua del rubinetto è pulita.

L’acqua di rubinetto è disponibile  tutti i giorni al rubinetto di casa  perché  Publiacqua provvede ad assicurare ogni giorno dell’anno, ogni secondo della giornata, continuativamente, l’erogazione in ogni punto del territorio.

Diverso, invece, il percorso delle acque imbottigliate che vengono trasportate per migliaia di chilometri e poi stoccate per settimane non sempre in maniera corretta e quindi non protette dal calore e dalla luce che può alterarne le caratteristiche originali.

Tutti possiamo fare qualcosa per il nostro pianeta, cominciando, magari, dai piccoli gesti quotidiani.

Utilizzare l’acqua del rubinetto aiuta l’ambiente perché riduce l’utilizzo di bottiglie di plastica la cui produzione, il trasporto ed il difficile smaltimento sono importanti fattori di inquinamento.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando, ecco alcuni numeri ripresi dalla relazione del dott. Giorgio Temporelli  (Fondazione AMGA) in occasione di un convegno tenutosi a Genova il 22 marzo 2010, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua:

disegno di tre bottiglie di plastica celesti
1Kg PET
25 Bottiglie
=
disegno di una pompa di benzina celeste
2Kg
di petrolio
+
disegno stilizzato di una vasca con due _nde celesti
17,5 Lt
di acqua

“In fase di produzione 1 kg di PET (da cui possono derivare 25 bottiglie da 1,5 litri) necessita di 2 kg di petrolio e di ben 17,5  litri d’acqua. Un autotreno, come quelli che attraversano la penisola trasportando l’80% dell’acqua imbottigliata commercializzata nel nostro paese, immette nell’ambiente circa 1.300 kg di CO2 ogni 1.000 km. La produzione di acque in bottiglia (Italia 2007) è stata di 12.400.000.000 litri di cui l’80% confezionata in contenitori PET (il rimanente 20% in vetro), ciò significa 6.400.000.000 contenitori plastici da 1,5 litri prodotti in un anno e cioè l’equivalente del peso di una superpetroliera (255.000 tonnellate). Se le stesse bottiglie venissero poi compresse e messe in fila comporrebbero una linea lunga 64.000 km (circa 64 volte la lunghezza dello stivale) e se messe in piano una superficie di oltre 25 km quadrati (3750 campi da calcio)”.

Numeri impressionanti che dobbiamo tenere ben presenti nel nostro agire quotidiano.

 

L'acqua del rubinetto è buona.

Perchè controllata di più dell'acqua in bottiglia, non contiene batteri, è filtrata ed ha caratteristiche che la rendono un'acqua di alto livello.

L'acqua del rubinetto è sana.

L’acqua del rubinetto è sottoposta al controllo quotidiano del gestore e ai controlli periodici dell’ASL.

Per questo motivo l’acqua erogata da Publiacqua  è sicura e disponibile tutti i giorni dal rubinetto di casa.

Le caratteristiche organolettiche (odore, sapore) sono quelle che influenzano maggiormente la percezione dei cittadini nel definire l’acqua buona o meno buona.

Una delle obiezioni più frequenti di coloro che non bevono l’acqua di rubinetto riguarda appunto il suo sapore ed odore di cloro.

L’acqua distribuita in rete, per legge, deve essere resa sicura mediante aggiunta di cloro.

Per questo il cloro è ritenuto da molti uno degli ostacoli principali all’uso per bere dell’acqua di casa.

Publiacqua dal marzo 2003 ha attivato presso l’Impianto di Potabilizzazione dell’Anconella un importante trattamento a carboni attivi che ha migliorato decisamente la qualità organolettica dell’acqua distribuita.

Oltre a ciò è bene sapere che il sapore e l’odore di cloro possono essere eliminati semplicemente facendo riposare l’acqua in una brocca o in una bottiglia (aperta) prima di portarla in tavola.

Anche la durezza e il contenuto di sodio sono aspetti sui quali è alta l’attenzione dei cittadini.

Il calcio, principale componente della durezza di un’acqua, è un elemento minerale necessario alla crescita ed alla salute dell’organismo, il sodio al contrario è dannoso se in concentrazioni elevate: a differenza di quanto affermato da alcuni,  nell’acqua del rubinetto i minerali si trovano in misura equilibrata per un corretto uso alimentare.

L’etichetta della nostra acqua non teme confronti con quelle di qualsiasi acqua imbottigliata in commercio.

 
 
 

Gioco di donna

Post n°78 pubblicato il 19 Aprile 2011 da marina1811

Gioco di donna, segna il ritorno del melodramma più classico, attualizzato dall'esplicita rappresentazione delle passioni e del sesso estremi. Il regista e sceneggiatore John Duigan sa di cosa parla e senza alcuna inibizione mette in scena i miti letterari e mondani che hanno fatto dell'Europa a cavallo tra gli anni 30 e 40 un centro mondiale di sperimentazioni belliche, esistenziali e artistiche. Le ombre di Gertrude Stein, di Jean-Paul Sartre, di Scott Fitzgerald, di William Somerset Maugham, fino a Frederick Forsyth, sono una presenza palpabile, talvolta indigesta, ma non priva di fascino. Si potrebbero elencare all'infinito le fonti di ispirazione di Duigan, non escludendo Douglas Sirk, per quel dolcemente atroce e convenzionale ritratto di donna, ma non di signora.
Charlize Theron, abbandonati il peso, il volto e l'oscar dell' orribile eroina di Monster, supera l'esame, sfoderando la sua ammaliante bellezza ed un temperamento che la rimandano alla migliore Lana Turner, della quale è la sola erede.
Il tessuto storico che colora l'intera vicenda è un nobile bignami di tutto quanto è accaduto nella prima metà del secolo scorso. Il giovane irlandese Guy (Stuart Townsend), si vede piombare nella sua casa a Cambridge, bagnata e trafelata, la splendente Gilda, in fuga dal fidanzato e da allora i due vivranno la loro relazione tra mille incongruenze, illusioni e drammi. Tre anni dopo saranno assieme a Parigi, in un "ménage a troi" che coinvolge Mia (Penelope Cruz), una giovane spagnola, zoppa a causa di un incidente. In Spagna la guerra civile è ormai inevitabile e dopo alcuni tentennamenti Mia e Guy, che è un idealista, abbandonano Gilda e vanno a combattere per i repubblicani: chi poteva dubitarne? La partitura drammatica ha qui un'ulteriore accelerazione, svaniti i toni fatui, con Hitler che bussa alla porta, tutto affonda nel dramma storico. Guy torna in Inghilterra e Gilda si concede al nemico che ha invaso Parigi. Dramma e melodramma si fondono in un pastiche non privo di emozioni e convenzioni.
In breve: prendere o lasciare, senza alternative, poiché di ogni cosa è vero anche il contrario. Gioco di donna non si fa gioco degli spettatori, ma li incalza con sfrontato autolesionismo, fino a meritare l'assoluzione.

 
 
 

Inside man

Post n°77 pubblicato il 09 Aprile 2011 da marina1811

Nel cinema contemporaneo succube delle logiche di globalizzazione, dell'evoluzione della tecnologia, del marketing e della commercializzazione, è sempre più difficile percepire la mano, lo stile di un regista.
Spike Lee è un'eccezione.
I suoi film hanno un marchio di fabbrica unico. I movimenti di macchina (odiati da alcuni), i carrelli, la fotografia, i riferimenti al razzismo, l'uso spropositato delle parole, sono elementi perenni del suo cinema che esprime emozione, attraverso i contrasti e l'onanistico utilizzo della macchina da presa.
Inside man ne è un'ulteriore conferma. Divertita e assoluta.
In una struttura da noir classico (altro genere con cui si confronta il regista), una banda di rapinatori, guidata da Dalton Russel (Clive Owen) entra in una banca e prende in ostaggio dipendenti e clienti. Il caso viene assegnato allo stiloso e brillante Detective Frazier (un sempre meraviglioso Denzel Washington), che instaura un rapporto telefonico con l'autore del sequestro. Per Frazier, un problema non è abbastanza, e un losco intrigo si intreccia con la rapina, coinvolgendo una donna (Jodie Foster) a difesa delle istituzioni.
Perfetto nella sceneggiatura intelligente e "tricky", intoccabile nella cura dei particolari (il gessato bruciato, il cappello avana, la camicia bianca e la cravatta regimental oro e blu di Denzel sono classe pura), ricco nella regia che culmina nel piano sequenza all'interno della banca, questo "magic touch" d'autore diverte nel mettere in scena una storia che cita Spillaine e Chandler, immergendoli nella poetica da strada del cineasta.
Inside man è vero cinema. E Spike Lee is the Man.

 
 
 

Speriamo che sia femmina

Post n°76 pubblicato il 30 Marzo 2011 da marina1811

Declino di una famiglia del latifondo toscano (Grosseto) che gestisce un'azienda agricola e in cui contano (e lavorano) soprattutto le donne. Grande film borghese che arricchisce il povero panorama del cinema italiano degli anni '80 per il sapiente impasto di toni drammatici, umoristici e grotteschi, la splendida galleria di ritratti femminili, la continua oscillazione tra leggerezza e gravità, il modo con cui – senza forzature ideologiche – sviluppa il discorso sull'assenza, la debolezza, l'egoismo dei maschi. Scritto dal regista con Suso Cecchi D'Amico, Tullio Pinelli, Benvenuti e De Bernardi.

 
 
 

Non č peccato

Post n°75 pubblicato il 25 Marzo 2011 da marina1811

La Quinceañera è la ricorrenza che ogni ragazza di origini latino-americane attende con ansia: è una sorta di debutto in società che segna il passaggio all’età adulta. Magdalena spera che la sua festa sia bella come quella della cugina Eileen ma, durante i preparativi e a qualche mese dal suo quindicesimo compleanno, scopre di essere rimasta incinta. Lei e il fidanzatino non hanno consumato fino in fondo il rapporto ma nessuno le crede e il padre, un predicatore della Chiesa Evangelica, la caccia di casa. Magdalena va a vivere dal vecchio zio Tomas dal quale alloggia anche il fratello di Eileen, Carlos, come lei ripudiato dal genitore. Se all’inizio i rapporti tra i due cugini sono difficili, alla fine sboccerà una tenera amicizia. Nel frattempo Carlos inizia a frequentare i nuovi proprietari e vicini di casa, una facoltosa coppia gay bianca che presto rovinerà l’idillio della famiglia facendo sentire i tre degli emarginati in un paese che li ha accolti non senza difficoltà. Non è peccato - La Quinceañera ritrae con sensibilità una comunità di messicani in un quartiere di Los Angeles. All’interno di Echo Park l’equilibrio tra i bianchi americani e i latini scorre su un filo sottile che separa le due razze. Se da una parte c'è chi lavora in tv e dà feste esclusive riservate a pochi intimi, dall’altra ci si sacrifica per l’istruzione dei propri figli, prestando servizio in case benestanti o vendendo per strada il champurrado (tipica bevanda calda al cioccolato), aspettando la prossima Quinceañera. I registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland raccontano con credibilità un mondo intero attraverso una storia dai tratti drammatici (ma che riserva un lieto fine) con il supporto di dettagli non trascurabili, come il cartello inquadrato per pochi secondi che pubblicizza un corso per eliminare l’accento spagnolo. A Echo Park si ride e ci si commuove, ma soprattutto si scoprono valori - la famiglia, l’amicizia - senza il peso della retorica.

 
 
 

Collateral

Post n°74 pubblicato il 24 Marzo 2011 da marina1811

Michael Mann si conferma ancora una volta fra i migliori registi d'azione e presenta alla Mostra del Cinema di Venezia, un lungometraggio con continui cambi di ritmo che si svolge, temporalmente, tutto in una notte.
Los Angeles, atmosfera sincopata. Max, tassista modello, compie una corsa con un procuratore donna che avrebbe dovuto discutere un caso in tribunale la mattina successiva. Immediatamente dopo, un nuovo cliente, Vincent, che gli fa una proposta allettante, accompagnarlo per l'intera notte in cambio di 700 dollari. Max si fa convincere, senza sapere che da quel momento avrebbe iniziato un viaggio allucinante. Vincent è infatti un killer di professione che deve regolare i conti con cinque persone, una delle quali, a sua insaputa, sta a cuore al conducente di taxi.
Difficile dichiarare se l'elemento più coinvolgente di questo riuscito action movie sia quello visivo o quello della sceneggiatura. I primi piani strettissimi, la notte losangelina, il montaggio serrato (spettacolare la scena della discoteca con un incessante e ipnotica musica martellante) e l'uso del digitale che rende le immagini notturne più nitide con un conseguente iperrealismo, si fondono con i dialoghi ironici, a volte tarantiniani, fra Vincent e Max, e che lentamente assurgono a una sfida sulle orme delle regole dell'arte della guerra di Sun Tzu.
Tom Cruise e Jamie Foxx si affrontano a viso aperto diretti da un nuovamente grande Mann, saggia mano del cinema adrenalinico di classe.

 
 
 

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