Creato da bellicapellidgl3 il 19/11/2014

Pettino Pensieri

Oggi è un giorno perfetto per volare

 

Cominciare a correre

Post n°11 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

Un anno fa, esattamente un anno fa, mi preparavo a dare una delle notizie più difficili della mia vita.

Un giovane uomo, era un fotografo, infatti aveva un modo molto “visivo” di comunicare con le parole. 
Era arrivato da noi davvero malmesso, al posto dei piedi due moncherini dove residuava il tallone e una piccola parte del piede con una estesa lesione profonda e bilaterale.

“Siete la mia ultima spiaggia” disse.

Ma i suoi occhi dicevano altro.
Stupitemi, dicevano. Voglio credere che potrete guarirmi, non ho perso la voglia di guarire.

Era una sfida difficile, ammetto, ma ho creduto anche io di poterlo rimettere in piedi con delle calzature adeguate.  Chi mi conosce sa la ferocia che può assumere la mia determinazione.
Mi ci sono buttata anima e corpo, medicazioni, consulti, interventi per migliorare la circolazione, barili di antibiotici.

Lui mi parlava, mi parlava molto. Io ascoltavo.
Era un maestro di Karate per hobby, cintura nera.
Mi parlava di filosofia orientale, ho incontrato anche il Dalai Lama, mi diceva.
A volte piangeva.
Io no, io piangevo a casa.
Sua figlia era taciturna, mi veniva incontro in corridoio tutti i giorni con uno zaino di tela, i capelli raccolti, lo sguardo supplichevole.
Io sceglievo con cura le parole, soppesavo bene, due chili di speranza, uno e mezzo di fallimento. Ogni giorno il bilancio si spostava ora di qua, ora di là.

Ma poi ho dovuto fare una scelta.  Esiste un momento in cui l’accanimento può uccidere. 

In cui la soluzione più drastica e disperata è l’unica per ritornare a vivere.
Era dimagrito, l’infezione lo stava divorando, germi armati fino ai denti  contro cui non avevo più armi. Il rene cominciava a fare le bizze.

Dovevo prendere una decisione.

Entrai nella stanza del mio primario, più per avere un conforto che una risposta:

”Non possiamo sempre vincere” mi disse e mi chiamò per nome.

Io tacevo carica di frustrazione, lo guardavo come se potesse tirare fuori dal cilindro una soluzione alternativa.
Lui era bravo, mi aveva insegnato tutto quello che sapevo. Mi aveva insegnato soprattutto che i paziente viene prima di tutto.

“Vuoi che ci parli io?” mi chiese con dolcezza.

Io avevo solo voglia di tirare giù tutti i libri dagli scaffali come le isteriche di certi film.

“No, grazie. L’ho gestito io, è giusto che ci parli io”.

Lui pianse.
Con dignità, quasi in silenzio.
Amputare sotto il ginocchio. Entrambe le gambe. Entrambe. 

L’unico caso nella mia vita fino ad oggi.
Io continuavo a parlare, nemmeno ricordo cosa dicessi, non ci credevo nemmeno io:

”Lei sarà un uomo rinato, so che in questo momento sembra la cosa più drammatica del mondo. Tornerà a rimettersi in piedi, si riprenderà la sua vita”.

Intanto il senso di fallimento mi schiacciava, provavo una sofferenza acuta proprio al centro del petto.
Sua figlia col suo zaino mi aspettavano immancabilmente in corridoio, muti entrambi come sempre, era piena di occhi, aveva questi occhi che le mangiavano tutta la faccia.
Era bella in un modo quasi triste.

Circa sei mesi dopo qualcuno bussò alla porta del Day Hospital.
Sollevai lo sguardo e lo vidi.
Sorridente, ingrassato, pieno di colori.

E in piedi.

Per una frazione di secondo faticai a riconoscerlo. Una giacca di tweed, gli occhi nerissimi.

E mi disse qualcosa che non ho più dimenticato:

“Dottoressa, quando incontrai il Dalai Lama, molti anni fa, mi disse una cosa per me allora incomprensibile.

Mi disse: -Quando non potrai più camminare, comincerai a correre-

Finalmente oggi so cosa volesse dire”.

 
 
 

Pensieri da femmina

Post n°10 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

L’ho capito quando ho aperto gli occhi questa mattina come sarebbe stata.
Mentre il getto d’acqua  della doccia mi schiaffeggiava il viso, dietro i miei occhi chiusi ombre fastidiose. Forse perché ho dormito male.
Un’inquietudine strisciante tra il sonno e la veglia, la percezione della notte che passava.

Eppure era la mia mattina del sabato, quella tutta per me, quella delle amiche al bar da cui non veniamo mai via, di De Gregori a palla nell’abitacolo, dell’andiamo tutte insieme a comprare una borsa, quella del calore della confidenza, del conoscersi da anni, del compriamo un pensierino a Roberta per quando uscirà dall’ospedale.

 Le mie amiche, tutte straordinariamente diverse, ma ineluttabilmente solidali.
 Era un sabato dei nostri, questo.

Però.

Io non ero io, insomma, avevo interferenze fastidiose che mi  impedivano di dedicare loro tutta la mia attenzione.
Camminiamo tutte insieme, come facciamo sempre, lente, a piccoli gruppetti che si mescolano e si ricompongono continuamente. 

Vane mi mette un braccio attorno alle spalle:

”Che hai?” mi chiede. 

“Che ho?” ripeto come una cretina, mentre penso  che mica lo so qual è la risposta.

Cerco di non rispondere mai a caso a una domanda vera.

“Sono opaca?” azzardo.

Lei mi sorride con quei suoi zigomi alti, piena di capelli com’è, forse ha capito meglio di me cosa ho perché mi dice, dopo una pausa a effetto che ha la precisa funzione di riportarci su un livello frivolo:

”Ho un cappottino rosso praticamente nuovo. Lo sai quanto mi sbatte il rosso no? Non so nemmeno perché l’ho comprato. Voglio che lo prenda tu”.
E’ il suo modo per  tendermi la mano  per risalire la china.
Il nostro modo.

“Ieri sera ho visto quel film, o meglio l’ho rivisto” le dico.

Sa che parlo di Innamorarsi, me lo rivedo con una cadenza quinquennale, appena il tempo di averne smaltito gli effetti.

Sospira.

“Non credi che ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, dovrebbe essere guardata come De Niro guarda lei?”  chiedo.

Vorrei che mi dicesse di no, che quello è solo un film, lo hanno scritto a tavolino, hanno deciso su un foglio come dovesse andare a finire, accidenti a loro.
E’ un film che fa credere che la vita poi ti restituisce quello che ti ha tolto solo temporaneamente.

“Tu non prendi mai il treno, ecco perché” mi stuzzica senza guardarmi mentre continuiamo a camminare.

“Scema”.

Lui che le dice, guardandola facendo in modo di non guardarla (ma come farà?):
- Sei molto bella-
E lei arrossisce  e quanto può essere femminile una donna che ancora è capace di arrossire. – Sono anche molto sposata-

Quel film mi dà un senso di malessere che non posso descrivere, un senso di perdita e di rimpianto e di non vissuto e di invidia.

Ecco sì, muoio di invidia, dopotutto.

Lei che corre disperata quando sa che lui sta per partire per sempre, la bellezza della sua lotta intestina che esplode in quella scelta coraggiosa e che muore davanti a un passaggio a livello chiuso.
Ogni volta guardo quella scena in piedi, sperando che vada in modo diverso.

Camminiamo in silenzio, sentiamo dietro di noi le risate delle altre, parlano di orrori culinari. Argomento su cui ci intendiamo benissimo (quello degli orrori).

“La vita è una stronza” mi dice.

Rifletto. Guardo il suo profilo familiare, la sua borsa gialla.

E rispondo:

”Sì.  Ma anche noi non scherziamo”.

 
 
 

Quando gli oggetti parlano

Post n°9 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

Il valore degli oggetti non può essere stabilito guardandoli.

Io ho un legame morboso con poche cose, credo che cederei più volentieri il mio portagioie che peraltro tengo in bellavista sul comò.

La collana regalatami da mamma più di dieci anni fa, comprata per cinque euro ad una bancarella, che resiste all’usura, agli sguardi disgustati delle altre collane che le stanno intorno, con la chiusura oramai rotta e sostituita da me con una certa pervicacia (che sfiora la malattia mentale) con una spilla da balia.
Va da sé che non la indosso mai con i capelli raccolti, ma mentre cammino sento il dolce tintinnio dei ciondoli di ambra, appena percettibile.
Emana influssi benefici, ma è specializzata nel portare fortuna in ambito medico: l’anno scorso non volevo toglierla per fare la mammografia.

Poi c’è il libro di nonna, quella nonna con la terza elementare e una sensibilità straordinaria, che teneva sul comodino Cent’anni di solitudine e riusciva a rileggerlo a spezzoni senza nemmeno aver fatto uno schema (come me) di quell’immenso albero genealogico dei protagonisti.
Una nonna novantenne con un’apertura mentale che farebbe invidia a molte quarantenni di oggi.
Mi regalò “Non ti muovere”, io ero di ritorno da Parigi, avevo la testa leggera, entrai nella sua casa che profumava sempre di pulito, mi allungò questo libro che aveva vinto il premio Strega.
“Quando scrive una donna è tutta un’altra storia” c’era scritto con la sua grafia tonda. ”Specie se è una donna che fa parlare e agire e pensare un uomo come protagonista. Quest’uomo, infatti, pensa come una donna. Facci caso. Con amore, nonna”.

In un cassetto, reduce da almeno tre traslochi, ho una reliquia in un cassetto del comodino.
Una calza autoreggente color blu notte con pizzo alto. Custodita da oltre venti anni.
La prima (e disastrosa) uscita col ragazzo dei miei sogni che si ostinava a guardarmi come un’amica.
Finché.
Presi il coraggio a due mani, chiusi in ascensore dell’università,  decisi che dovevo cambiare registro, ma fui maldestra (la parte della donna fatale non mi è mai riuscita granché, quella che prende l’iniziativa e ti sbatte al muro, per intenderci).
La buttai là, mentre l’ascensore saliva:” esci con me stasera?”.
Non so se ero più perplessa io o lui dal mio tono deciso, occhi negli occhi, rischio di infarto. Lui: ”Eh ma ho il basket stasera, tornerò tardi e sarò tutto sudato”.
Le porte si aprono con mio grande sollievo, posso uscire dal casino in cui mi sono infilata, ma per essere certa di non lasciare dubbi sulle mie intenzioni per nulla amicali, dichiaro uscendo a testa alta manco fossi Greta Garbo:
”La faremo insieme la doccia”.
Quella calza, unica e separata per sempre dalla sorella che non so che fine abbia fatto, testimonia la mia audacia, il mio essere volitivo, mi ricorda che nella vita le cose accadono perché vogliamo farle accadere. E mi piace.

E poi ci sono gli orecchini di oro giallo con la pietra nera. 
Due anelli sottili uno dentro l’altro. Sobri senza essere anonimi.
Li portavo la prima volta che l’ho visto.
Quando ho compreso con estrema lucidità, in pochi attimi, che sarebbe stato un amore per me inossidabile, che avrebbe resistito all’assenza, alla distanza, anche al rifiuto, forse.
Di quelli con cui impari a convivere e profumano di rammarico, ma anche di dolcezza. Quella sera ho perso uno dei due anelli dorati, lo cerchiamo insieme, in auto, per strada.
Ma non rinuncio ad indossarli, ho tolto il secondo anello anche all’altro orecchino; ora sono solo un po’ più scarni, ma sono loro.
Li indosso quando la mancanza è più forte, quando mi sento più sola.
Quando voglio farmi coccolare.

 

Alcuni oggetti possono parlare, ma possiamo capirli solo noi.

 

 
 
 

5 istanti di felicità

Post n°8 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

1.

Io e mio nonno torniamo da un giro in bici in campagna. A casa la nonna sta mettendo nei piatti il risotto. Ci sediamo a tavola, chiedo al nonno se posso assaggiare un po' del suo vino. Lui mi guarda soppesando le mie parole col suo sguardo torvo, ma me ne versa un goccio nel mio bicchiere che diventa rosa. So che gli vorrò bene per sempre.

2.

Londra. Ha smesso di piovere, ora solo gocce fini. Alessandro ha una felpa grigia ed è fradicio sulla spalla sinistra, perché in due sotto l'ombrellino di suo fratello si sta stretti. A metà strada tra la scuola e la casa della mia famiglia ospitante, c'è una chiesa col tetto spiovente. Ci fermiamo là sotto, io appoggio per terra l'ombrello. Alessandro mi prende il viso tra le mani e spegne sul nascere quello che stavo per dire.

3.

Io e Carmen affacciate alla finestra della nostra casa, una casa che ci ha visto insieme per sette anni, dio solo sa cosa direbbero le mura se potessero parlare. E’ una notte senza stelle. Siamo in silenzio, il suo braccio sfiora il mio. Sento che è la sorella che non ho mai avuto. La nostra complicità è più forte di tutto. Ci siamo laureate due giorni prima, lei partirà, ma io so che nessuna distanza potrà separarci. Esistono notti in cui il cielo può essere azzurro.

4.

Siamo a lezione, lui per caso si siede vicino a me. Ho il cuore a mille, so che dirò cose banali.
Ieri sera dopo l’esercitazione sono tornata a casa alle otto. Ero una donna finita”, infatti dico.
Lui ha un giubbotto di renna pieno di frange:
Bello aspettare a casa una donna che torna sfinita”.
Lo dice senza guardarmi, ma sta sorridendo.
Non ti ci vedo in questo quadretto da nucleo familiare. Secondo me non solo lei arriva distrutta, ma neanche ti trova”.
Mi capita di essere caustica quando voglio difendermi. Lui mi dà ancora il profilo, sfoglia i suoi appunti, sembra assorto.
Chi dice che sia un nucleo familiare, potrebbero anche essere due amanti”. Io incasso. Ho dato fondo alle banalità, quindi mi convinco che faccio una migliore figura a tacere.
Ma poi lui si volta e finalmente mi guarda dritta negli occhi. Il tempo sembra sospeso.
E dice qualcosa che non ho più dimenticato:
Ad esempio, a te potrei aspettarti”.

 

5.

E' in ritardo, ma non è la sua città e oggi non mi sembra nemmeno la mia. Sono in un bar sconosciuto, ho messo il vestitino nero, volevo essere sensuale senza apparire vistosa. L’attesa mi sta consumando, fisso la porta in trepidazione. Tutto dipenderà da questo incontro. Forse tutta la mia vita, penso. Mi chiama al telefono, vai verso le bandiere, gli dico. Ci sono davanti, dice lui. Eppure non riusciamo a vederci. (C’erano  maledettissime bandiere anche dalla parte opposta del piazzale antistante).
Finalmente entra, trafelato, sorride tutto, sorride con gli occhi, con le mani che non riesce a tenere ferme. Non smette di parlare, sento la sua emozione montare insieme alla mia, io sorrido, lo ascolto, ogni tanto gli tocco un ginocchio.
Ridiamo. Usciamo. Fa freddo.
E poi un bacio, di quelli che spostano le pareti. Un amore che sposta le pareti.

 

 

 
 
 

Contraccolpi

Post n°7 pubblicato il 30 Novembre 2014 da bellicapellidgl3

 

 

Quando sembra  che la vita scorra, sorniona, all’apparenza in acque tiepide, abbassi la guardia, dimentichi terre sommerse che potrebbero riemergere quando meno te l’aspetti, avanzi navigando a vista.

Ed invece accadono cose che credi di poter gestire, ti adoperi, tieni la testa alta, le sistemi in quella vita che hai e vai avanti dicendoti che tutto è a posto.

Ma poi devi saper gestire il contraccolpo, ferite che credevi ormai superate, mica lo sapevi che facevano ancora male.
Non sei più così spavalda nell’avanzare, ondeggi, ti chiedi come sia possibile essere ancora così esposta a certe intemperie dell’anima.
E’ un colpo di vento che all’improvviso spalanca porte sbarrate su stanze in cui non entri da secoli.

Non sempre sono così solida come penso.
Sono fragile, invece, chi mi conosce davvero sa dove sferrare colpi mortali.
Ma forse vale per tutti, non so.

Oggi mi sento così esposta che non potrei permettermi nemmeno di uscire di casa.

Forse gli spettri non sono reali, ma sono reali negli effetti.

 
 
 

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