Creato da massimofurio il 20/04/2012
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« PURPESCINNE, II PARTE | 21.Novembre.1979 Genova ... » |
Passavamo sempre in fila indiana, nel letto del fiume, che fiancheggiava quel podere bellissimo e curato come una reggia. Il nostro cupido sguardo si posava sempre su qui filari di piante da frutta, pesche, albicocche, ciliegie, stracarichi, che crescevano su una terra scura e feconda, che veniva arata regolarmente da Gaitan, il custode, con un aratro doppio in metallo e una coppia di buoi grigi colossali, che lo tiravano senza apparente sforzo, rivoltando a fondo la terra morbida.
Al nostro passaggio, Schell, un cagnone giallo, si scagliava contro di noi abbaiando con la bava alla bocca, quello capiva le nostre intenzioni…, solo il muro di cinta e contenimento della proprietà, che dava sul fiume, lo fermava da provare ad addentarci le chiappe. Così i nostri intenti tali restavano, proprio perché il solerte guardiano, era ligio al suo dovere, di giorno come di notte. Avere avuto a che fare con lui sarebbe stato un brutto momento. Quella terra era la nostra spina nel fianco, e in più il Gaitan, conoscendoci, ci guardava con severità e un certo ostico senso di sfida, il che rendeva insopportabile il tutto……
Così, andò avanti per anni.
E poi, proprio come si dice: persa ormai ogni speranza, accadde l’evento che modifico gli schieramenti in campo.
La villa era bellissima, una corte lunga una cinquantina di metri, con serre e campi coltivati esposti a sud, ci usciva di tutto e tutto veniva portato autonomamente al mercato, un terreno pianeggiante in fondo valle, saranno stai una dozzina di ettari, forse di più. Il lato anteriore del podere era costeggiato dal fiume e vi si accedeva tramite un ponte sbarrato da un cancello in ferro, arabescato da abili mani nel lavorare il metallo. Le mura sul fiume erano imponenti ed incutevano persino un certo timore, pietre squadrate ed enormi e ben sistemate, lo formavano e tuttora resistono agli eventi. Il viale di accesso era costeggiato da pioppi ed era fatto con pietre di fiume, arrotondate dai rimbalzi nell’alveo, spinte dalla forza dell’acqua tumultuosa d’autunno. In fondo al viale c’era un porticato enorme e all’entrata due anfore colossali, indicavano l’ingresso agli ospiti, se fosse toccato a noi, l’ingresso ce lo avrebbero indicato a calci nel culo, se ci avessero preso, però.….C’erano fiori ovunque, rampicanti fioriti, porte finestre sempre aperte in estate e le tende ricamate parevano vele di navi al vento. Tutto il terreno era grigliato da tanti piccoli canali d’irrigazione regolati da piccole chiuse, precisi e simmetrici, come disegni di stilista. Alle spalle della villa si ergeva una piccola collina, irta di cespugli di lavanda, poi il terreno saliva ancora verso il monte e le vigne e le olive prendevano il sole, intorno pascolavano animali da carne. Al canto sinistro, una grossa voliera con fagiani, pavoni e altri uccelli, al canto destro un piccolo paesino in miniatura, con giochi d’acqua, dove i figli del proprietario, giocavano in estate, quando venivano da Genova. Il proprietario era un noto avvocato genovese, che difendeva gli interessi di un’altrettanto nota compagnia di navigazione. Nelle assolati estati, mentre tutta la valle pativa la calura e la siccità, la villa era sempre fresca e verdissima, era un osai sempre rigogliosa, verde e curata, da un numero di persone che variava a seconda delle stagioni, ma il Gaitan c’era sempre estate ed inverno, come Schell. La osservavamo sempre, stando in mezzo alle canne del fiume, in silenzio, per non farci sentire dal cane, tutti gli occhi puntati e fissi sullo stesso obiettivo, gli stessi pensieri, gli stessi desideri, le stesse frustrazioni, gli stessi sospiri. Era il nostro eterno sogno di piccoli predoni, ma il tabù stava per finire.
Un giorno ci capitò di vedere la merenda, dei figli dell’avvocato, due femmine piccole e un maschietto un poco più grande, Leonardo, forse aveva la nostra età, era un quattrocchi e pure antipatico. La madre aveva preparato una tavola all’ombra del porticato, ove era presente ogni buona cosa da mangiare per merenda, compreso quella che a me, ha sempre fatto impazzire, i budini. Da in mezzo alle canne, tutto ci sembrava ingiusto e più ingiusto su tutto era il fatto, che i tre babanetti, non facevano nessun onore al succulento banchetto.
La madre, una signora a modo, si sgolava e si arrabbiava per far assaggiare questa o quella prelibatezza ai figli, che la ignoravano quasi del tutto e quella figura, che ora chiamano tata e allora bambinaia, cercava da far suo, di farli collaborare ai voleri della madre. Sentivamo la signora gridare “venite a mangiare… vi ho preparato questo, vi ho preparato quello e i tre baluba, niente a correre a destra e a manca, inaudito, rifiutare un cibo così sopraffino. Le nostre lingue battevano leggermente contro il palato, in una bocca acquosa e un singulto, metteva fine allo stato ipnotico della visione. Pochissimi infanti locali erano invitati, le poche volte che accadeva, a queste merende. Il figlio del medico, la figlia della maestra, il figlio del farmacista e il figlio dell’impresario edile. Ci stavano tutti sulle palle. Bene, noi no, nessuno ci invitava, a dire il vero, la signora, una volta, in negozio da mia madre, aveva portato l’invito orale a farmi partecipare, “faccia venire suo figlio, che è cosi un bel ragazzo educato”….Ci doveva veder poco, ma di più, intendere poco, perché passi il bello, ma l’educato…..Mia madre ovviamente declinò e anch’io dentro di me feci altrettanto, mentre a cena lo raccontava a mio padre, entrambe risero, immagino che pensassero a cosa avrei fatto una volta là dentro. Anche io ridevo dentro, ma mai avrebbero potuto sapere i miei pensieri e il motivo delle mie risa mentali, piccolo demonio…..
Era già accaduto che: camminando sul sentiero in mezzo alle canne, nel tratto davanti alla villa, facevamo silenzio quasi sempre e una di quelle poche volte che non lo facemmo, mentre salivamo correndo, prendendoci a pietronate, notammo che Schell, non c’era ad abbaiare, accompagnandoci come sempre sino al cancello del ponte. Strano. Ma ancor più strano fù, che nei giorni a seguire, non notammo più il cane, non ce ne era più traccia. Gaitan, viveva in una pertinenza, nel terreno a retro della villa e lasciava che il cane girava libero per tutta la proprietà. Ma il bestio non c’era. Era verso la fine dell’inverno e già le piante cominciavano a svegliarsi, le gemme si aprivano, le cortecce si coloravano, era solo una questione di tempo. Gli inverni erano passati anche per Schell e l’ultimo gli era stato fatale, evidentemente. Era l’ora, al seccaggio.
In mezzo alle canne, ci facemmo venire spianato da quante volte, abbiamo sostato in osservazione della villa, cani non se ne vedeva, non era stagione di cuccioli, e anche poi, un cucciolo, poveretto a lui, nulla ormai si poteva interporre tra noi e l’obiettivo, la villa, le sue piante da frutta.
Tantè, però, mentre il tempo passava e si faceva l’ora delle ciliege, ci prese un strano senso di paura, chissà, l’istinto o semplicemente aver perso le bave per tanto tempo, ci aveva fatto venire l’indigestione, ci aveva stufato, però il parlarne, ravvivava sempre il desiderio, considerando poi che era uno stato di fatto temporale e che non sarebbe durato in eterno, prima o poi avremmo visto un altro quadrupede canino, gironzolare in loco ed essere addestrato da Gaitan, ad abbaiare ai poveri e innocui viandanti, noi per l’appunto e allora addio a tutto.
Alla fine, di noi sei, la metà optò per una rinuncia, mentre io, Cita e Mattone, decidemmo e pianificammo l’azione.
Mattone, bravo come il pane ma un po’ tardo, soprannominato, per via della sua scarsa capacità d’apprendimento, un giorno a scuola ci fu, una battuta, da fondo classe, tu non hai il cervello, ma un mattone, non riusciva a capire ciò che gli spiegava e rispiegava la maestra . Era la mia metà operativa, lo difendevo sin dai tempi dell’asilo, era un sacco da botte e pensare che era forte e massiccio come un orso, due volte più di me, ma purtroppo troppo buono e incapace di difendersi. Cita, per via della sua agilità scimmiesca e pure una certa somiglianza fisica alla scimmia di Tarzan, aveva perso la sua metà operativa, Scion, si perché quando facevamo le gare a chi piscia più lontano, lui vinceva sempre. E allora, u pisciun, poi anglofonato in Scion, era un po’ come Jhon. Bhè, tre saremo bastati e avanzati, poi meno bocche = più ciliege, semplice.
Credo in fondo, che la nostra sensazione negativa nei confronti della villa, nasceva dalla percezione di un pericolo celato. Da piccoli predatori, avevamo affinato la sensibilità alla caccia, al predonaggio, alla valutazione istantanea sulla fine positiva dell’azione e stavolta la gola ci tradì. Uno dei sette peccati capitali.
La villa era munita di un’autodifesa, fatta dalla grandezza e bellezza del sito, la totale mancanza di ricognizione dei luoghi, sul posto, la vedevamo da lontano ma da vicino mai, e poi aveva un fascino che ci tagliava le gambe, ma ci stregava nello stesso tempo, per noi era un sogno avvolto nell’ignoto e per me poi, ci pensavo pure prima di addormentarmi.
Cita si arrampicò per primo, su per il muro di pietre nel fiume, al canto destro del podere, passò attraverso un varco nei biancospini, poi sali Mattone, poi io. Avevamo stabilito di attraversare tutta la proprietà da destra verso sinistra, nella parte bassa, coperti da piante e siepi per poi risalire il lato sinistro del podere e andare alle piante di ciliegie, messe in batteria su due filari. Erano le più lontane dalla casa, altri filari di frutta ci avrebbero coperto alla vista dei lavoranti, che nel primo pomeriggio se ne stavano nelle stalle a riposare. Il sole e il caldo a quell’ora sarebbero stati eccessivi, poi verso le 17 e volte anche prima, uscivano e stavano a lavorare la terra sino a sera. Campo libero, tutto come previsto. Nell’avvicinarci avevamo fatto una mangiata di fragole, messe sotto un basso muretto di pietre, il profumo ci aveva guidato a loro.
Ai piedi delle piante, nel secondo filare, c’erano le cassette della frutta, quelle basse, da frutta, le frasche di castagno, c’erano anche le scale di legno a terra, era tempo di raccolta, ci demmo certe occhiate e la cosa ci elettrizzo, avevamo azzeccato alla perfezione i tempi, probabilmente nel pomeriggio, sarebbero state raccolte e l’indomani al mercou. Salimmo ravidi e furtivi, sull’ultima pianta, la più grande, alta una decina di metri e la più defilata alla vista di chi da casa, eventualmente avesse guardato la campagna. Squisite, così le ricordo, erano duroni straordinari, neri succosi fitti come grappoli d’uva, era una estasi essere lì. Le delizie scendevano nella gola e subito incominciammo a sputarci l’un l’altro i noccioli, ridendo anche al pensiero dei beccamorti in mezzo alle canne, a becco asciutto e noi lì a riempircela a più non posso. Mattone ed io eravamo sullo stesso grosso ramo volto a sud, c’erano delle ciliegie mostruose, le piante erano perfette, cresciute sotto un’occhio competente e amoroso, tutto lì d’intorno aveva questo aspetto curato e pulito, che terra, che podere. Mangiavo e guardavo tutto intorno eravamo in estasi, soddisfattissimi di tutto, delle ciliegie, del posto, di noi, dell’impresa, un orgoglio al di sopra di tutto vinceva persino la paura, guardavo i miei compari mangiare e sputare, sputare e mangiare, Mattone mi disse una frase che è ancora nelle mie oreccie: “Senti che buone, senti che purpescinne” e aveva una voce che sembrava un gatto in amore, “ vieni qua che sono buonissime”. Mi avvicinai a lui, aveva davanti un ventaglio di frutti da togliere il respiro, le raccoglievamo a manate e ce le infilavamo nel buco sotto il naso con ingordigia, si, erano veramente tutta polpa, purpescinne appunto.
A forza di mangiare, presi da una competitiva estasi d’ingorda euforia, spalla a spalla, non ci accorgemmo ahinoi di essere arrivati troppo in punta al ramo che avevamo sotto i piedi, si che ci tenevamo ai cimelli intorno a noi, ma entrambe eravamo belli robustotti, Mattone pesava solo lui ben oltre al mezzo quintale e io ero poco di meno, comunque, il ramo si spezzo all’improvviso sotto i nostri piedi e cademmo al suolo da un quattro metri di volo senza paracadute alcuno.
Ma non era ancora finita, nel cadere, Mattone che mi aveva agguantato ai fianchi per tenersi, mi trascino giù, e gli caddi in pratica addosso e come toccammo terra, il terreno sotto di noi cedette di schianto e piombammo in una cisterna d’acqua sotterranea per l’irrigazione.
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