Creato da tommaso.mt il 26/07/2010
DI TUTTO UN PO'
 

 

UN RITORNO ALL’ECONOMIA DI MERCATO CIVILE: IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE (1)

Post n°36 pubblicato il 02 Settembre 2011 da tommaso.mt

Che la politica economica dei governi italiani degli ultimi anni abbia perso la bussola dei veri principi liberali si era già capito da un bel po’, anche durante le tante campagne elettorali, ma la confusione che sta imperversando per il varo della manovra economica, ancora in discussione, è la conferma di un vecchio modo di fare politica, più vicino ad interessi di una parte soltanto, più forte e determinante, piuttosto che al benessere collettivo. Le linee lungo le quali si sta muovendo il provvedimento sono fondate sull’ipocrisia, sull’insulto contro quelli che sono i veri principi ispiratori di uno Stato liberale, privandolo di un serio progetto industriale di crescita e di progresso, senza spirito innovatore che riporti il sistema verso lo sviluppo economico. Manca il coraggio del liberale! Quell’Albero della Libertà piantato nel bel mezzo della Rivoluzione napoletana, che per decenni ha prodotto e continua a produrre frutti succulenti, da noi oggi cresce su di un terreno arido, che abbisogna di nuova linfa e di essere innaffiato da quell’acqua limpida che sgorga dalle sorgenti liberali che erano dei nostri padri.

I debiti eccessivi nei bilanci degli Stati, sono certamente frutto di miope scelte del passato, lontane anni luce dalle logiche liberali, improntate sulla crescita generale e della collettività, piuttosto che ispirate da interessi personali, locali, di partito, che hanno prodotto disavanzi esorbitanti. Questa situazione è sicuramente di ostacolo a quelle politiche di cui oggi necessita il sistema, per superare l’attuale fase congiunturale. Come hanno evidenziato studiosi ed economisti, purtroppo, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui i consumi e gli investimenti ristagnano mentre la disoccupazione aumenta. Tutto questo porta ad un ulteriore rallentamento dell’economia e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per la copertura del debito. Ed è in questa fase che servono risorse vere per ridare ossigeno al mondo economico, stimolando la produzione ed il lavoro, premiando tutte quelle iniziative che vanno in questa direzione, risorse che non devono essere viste come spese, piuttosto come investimenti per il futuro: pensiamo alle famiglie, alle imprese, alla scuola, alla sanità, alla ricerca scientifica ed universitaria. Nel pensiero dell’abate A. Genovesi, “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”.

L’attività politica-amministrativa dei governi degli ultimi venti anni, almeno, è stata caratterizzata dalla mancanza, come hanno sottolineato numerosi economisti negli anni addietro, di quel modo di agire tipico del “buon padre di famiglia”, perché durante gli anni delle cosiddette “vacche grasse”, ossia la crescita, occorreva approntare tutte quelle riforme che liberassero l’economia da lacci e impedimenti di ogni sorta, per la riforma fiscale e previdenziale, la giustizia, il welfare e altro ancora, creando quegli avanzi di bilancio, linfa indispensabile cui attingere durante il periodo delle “vacche magre”, ossia la depressione. Già nel 1967 Paolo VI esortava i governi perché “lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l'assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d'azione”. Purtroppo, i provvedimenti di riparazione vengono sempre adottati a ridosso delle catastrofi. Risorse generate dal risparmio, come diverse volte esortava dagli scranni parlamentari G. Fortunato, per incentivare gli investimenti e la crescita, perché la produzione genera ricchezza e quindi lavoro, non le rendite di capitale, che contribuiscono alla propagazione della speculazione. Ma rimase “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 1-3)! E il debito divenne zavorra!

Lo storico e politico di Rionero in Vulture (PZ) maturò una decisa posizione liberista sul finire del XIX secolo, quando proclamava una politica tesa al risparmio di spese inutili, per poter meglio canalizzare le risorse così liberate verso gli investimenti pubblici, di cui l’Italia Unita aveva necessariamente bisogno, generando ricchezza, lavoro, progresso. “Il cambiamento di rotta andava riportato, semmai, alla convinzione che, date le mutate condizioni del paese, fosse necessario assumere un nuovo indirizzo politico generale” (Griffo M., Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico): dovrebbe diventare il proclama degli attuali governi dei Paesi liberali, per sintonizzare le loro politiche su sentieri caratterizzanti lo sviluppo.  L’abate Genovesi, strenuo sostenitore delle idee liberali, avrebbe detto che “facilitando lo smercio, si da moto a tutti i prodotti della terra e dell’arte: questo moto, aprendo gli scoli, agevola e accresce il guadagno; e il guadagno è sempre l’esca di coloro che travagliano”. Quindi, una politica che incentivi la produzione e di conseguenza il lavoro, che generi ricchezza attraverso il soddisfacimento dei bisogni, e di conseguenza, la nascita di altri e più complessi bisogni. Lo ha ribadito anche Giovanni Paolo II riprendendo la Sua Lettera Enciclica del 1981 Laborem exercens nel Centesimus Annus (1991) quando afferma che “il lavoro ha una dimensione «sociale» per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, «poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati”.

Ma niente di tutto questo avviene. Quella bandiera ormai si è ammainata. Nel corso degli anni, si è sempre attuata una politica di rimando al futuro della soluzione dei debiti di bilancio, e quando l’economia attraversa la fase ciclica della depressione, è duro cercare di risollevarla, se non si intraprendono iniziative che attingano risorse dai bilanci pubblici, le quali, in quel momento, devono essere disponibili per intervenire a sostegno della difficile congiuntura. Ad appesantire la situazione, nel corso del tempo si è imbastita una fitte rete di leggi e strozzature al commercio, tanto che C.A. Broggia afferma: “riposando chi governa nella molteplicità delle leggi, non trascurasse le strade più efficaci, più semplici, e più naturali, per rimediare a i mali, ed alle Contravenzioni, e non causasse nell’istesso tempo un mare di frodi; dal moltiplico delle quali la Polizia in fine si stanca, e lascia che il Mondo vada come sa andare, salvando ogni uno per lo più l’Apparenza”. In questo terreno prende piede la rivoluzione liberale, anche dal fragile tessuto sociale del Sud d’Italia, con illustri protagonisti che hanno portato sempre avanti le istanze della loro gente.

Lo stesso G. Fortunato sosteneva che la situazione politica italiana e la stessa questione meridionale erano frutto della scarsa capacità della classe dirigente, imprigionata in logiche e spartizioni locali, mostrando inadeguatezza nella gestione delle risorse pubbliche, senza mettere al centro dei propri fini il benessere economico, sociale e civico della collettività. Diceva, ancora, l’abate Genovesi che “tutti i dritti, de’ quali le persone nascono fornite, non hanno altro fine, salvochè la loro conservazione, e felicità”. C.A. Broggia afferma che “tutti sanno che il Commercio arricchisce i Popoli, e rende forti e robusti gli Stati, e che quanto più i Popoli stessi son ricchi in generale, più stanno contenti, e più di leggieri soffrono i Pesi pubblici, e soddisfano ai Tributi”. Il fine del bene pubblico, la soddisfazione dei bisogni collettivi deve essere il centro catalizzatore di tutta l’attività di ogni governo, che si proclami liberale nelle intenzioni e nei fatti, attraverso un percorso che faciliti la produzione e la commercializzazione della ricchezza di un Paese, premiando chi investe in attività produttive. Liberare l’uomo dallo stato passivo del bisogno, così come affermava K. Menger nei suoi Principi di Economia Politica, deve essere l’obiettivo primario, perché dal suo soddisfacimento deriva benessere e da questo scaturiscono nuovi bisogni cui occorre dare risposte, senza vincoli e legami particolaristici.

Occorrerebbe, forse, ritornare ad esaminare e riflettere su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, analizzata da Stefano Zamagni nel suo saggio L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo. Secondo questa chiave di lettura, l’analisi di Zamagni porta a distinguere, così come impostato dalla storia del pensiero economico, l’economia di mercato civile, dall’economia di mercato capitalistica, dove la prima ha come fine il bene comune, da sempre ricercato dall’uomo, “ossia l’etica cattolica, è la logica della reciprocità a preservare il mercato dalle degenerazioni”. La seconda, invece, è caratterizzata dal conseguimento del bene totale, ossia la massimizzazione del profitto, che ha preso piede con l’avvento del capitalismo puro del guadagno facile e nel breve termine, a prescindere da ogni e qualsivoglia patrimonio culturale e di valori morali, largamente inteso. Contro questa logica si schiera Giovanni Paolo II quando afferma, dopo aver riconosciuto la funzione del profitto come buon andamento dell’azienda, che “Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa”. Si passa così da un economia di mercato civile che aveva la propria mission nel benessere comune, ad una economia di mercato capitalistica, che con la massimizzazione del profitto ha comportato la degenerazione sociale e la perdita di quel bagaglio di valori sociali e morali posseduto dagli individui. Avrebbe risposto Karl William Kapp che “non la massimizzazione del piacere, ma la soddisfazione delle basilari necessità umane o la minimizzazione dell’umana sofferenza a me sembra debbano costituire il principio cardine che guidi le politiche e serva come goniometro dell’efficienza sociale”. Nel 1925 fu Keynes ad affermare che “il capitalismo moderno è assolutamente irreligioso” (Berselli, 2010). Giovanni Paolo II sosteneva che persino l’economia del benessere, dopo aver vinto il marxismo, poggiata sul consumismo sfrenato, mostra “come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali”, portando a “ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Per questo occorre un ritorno ad un’economia liberale impostata secondo lo schema del libero mercato, attraverso un sistema di regole ben definite, ispirate dal proprio patrimonio storico, valoriale di un popolo, o di una comunità, ripensando il benessere collettivo e ristabilendo quell’equilibrio tipico dei grandi pensatori dell’economia di mercato civile (A. Genovesi, M. Palmieri, P. Palmieri, P. Verri, C.A. Broggia, solo per citare qualcuno). Sono forti e scuotono le coscienze dei più intelligenti le parole, nella  Populorum Progressio, di Paolo VI quando afferma che i popoli privati del minimo materiale soffrono delle carenze materiali, mentre coloro che vivono nell’egoismo, chiusi in se stessi, soffrono più intensamente la carenza morale.

Nel pieno dell’era dell’Illuminismo, fu proprio l’abate Genovesi a gettare le basi per le sue lezioni liberali, in un’opera magna, piuttosto che un vero e proprio trattato di scienze sociali, economiche, civiche e politiche, secondo un’impostazione antropologica della missione dell’economia, cui attinse anche il nostro G. Palmieri. Per poter governare, rifletteva Genovesi, “si richiede il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”. In questa visione, la politica diviene servizio al cittadino, una vera e propria missione che deve svolgere chi si presenta quale servitore del bene pubblico. La straordinarietà del pensiero di Genovesi sta nello stravolgere, ma diremmo pure nel prendere le distanze dal pensiero di A. Smith, nel senso che si passa dal considerare il motore dell’economia quegli spiriti egoistici dell’uomo, che tende all’appagamento dei suoi bisogni, all’idea di uomo come “un animale naturalmente socievole […] per natura compagnevole”, pertanto “ogni membro di una comunità è come ogni membro del proprio corpo, tutti devono soggiacere alla legge per poter garantire la personale conservazione”. Secondo questo pensiero (“ogni uomo è membro della società”, nelle parole di Paolo VI), G. Palmieri introduce il concetto di Amore sociale nell’economia, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello degli altri” (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli), che fa da sfondo, successivamente, al pensiero della Progressio PopulorumLo sviluppo integrale dell'uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell'umanità. E qui ritorna il pensiero di S. Zamagni, quando afferma che i valori del Cristianesimo possono divenire fondamenta del nuovo percorso dell’economia, ispirando l’azione produttrice del bene comune, che era l’obiettivo dei padri del pensiero liberale. Lo affermava Paolo VI (1967): “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d'angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Valori cristiani che lo stesso pontefice invocava come dovere sulle famiglie, sulle organizzazioni multilaterali ed internazionali in genere. Secondo questa interpretazione, G. Palmieri e A. Smith ci offrono, così, due diverse chiave di lettura, concatenate tra loro, perché l’uomo, perseguendo il proprio fine egoistico, in perfetto stile smithiano, inconsapevolmente, porta tutta la società di cui fa parte verso il benessere diffuso, procurando, in tal modo, il bene degli altri. Questo certamente avrà ripercussioni positive sulle proprie condizioni e sulla sfera personale di ciascuno, nel senso che se gli altri stanno bene, certamente ci sarà anche il tornaconto individuale. Le parole di Paolo VI indicano, in modo chiaro e diretto, nell’ottica della Sua visione antropologica, la strada maestra su cui muoversi, perché “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev'essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo”, nel senso che la visione dell’economia non deve essere separata o considerata distinta dal suo attore principale, ossia l’uomo, come il progresso dalla civiltà in cui si inserisce, piuttosto occorre prendere in esame l’umanità nella sua completezza e interezza.

Tommaso Manzillo

 
 
 

UN TAGLIO NETTO ALL'ITALIA

Post n°35 pubblicato il 15 Luglio 2011 da tommaso.mt

La manovra finanziaria varata dall’Esecutivo di centro – destra, quello che non doveva mettere le mani nelle tasche dei cittadini e contribuenti italiani, probabilmente sarà un toccasana per il bilancio pubblico dello Stato. Prima doveva avere un saldo pari a zero euro, poi di qualche milione, ora di quasi ottanta milioni di Euro. Non siamo in grado di dire con certezza se verrà raggiunto il pareggio dei conti nel 2014, così come nei programmi e nei richiami dell’Unione Europea. Certamente manca, a detta anche degli addetti ai lavori, un vera e propria riforma liberale, perché di liberale, questa manovra, ha veramente poco o nulla. Piuttosto, comporta una vera e propria miccia al sistema economico, che cerca timidamente di uscire da una lunga e profonda recessione. Cerca. Perché la fine del tunnel forse è ancora lontana, dato che ora sono i conti pubblici degli Stati Uniti ad essere passati sotto la lente d’ingrandimento delle agenzia di rating internazionali. E se si dovesse fermare l’America, si ritorna indietro, e non possiamo dire di quanti anni!!!

Inutile nascondersi o far finta che la crisi sia passata. L’Europa non cresce bene a causa dei deficit eccessivi di Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda; l’Italia cresce male, o forse non cresce affatto: eppure avremmo dovuto superare la crisi senza troppi sacrifici! Soprattutto questo governo ha perso la bussola dei principi liberali, non è più in grado di coniugare quelle misure economiche di risanamento delle finanze pubbliche, con l’attuale situazione dello stato sociale. Tagliare le detrazioni fiscali per tutti indistintamente, per tutte le famiglie italiane, vuol dire mettere in seria difficoltà lo stato sociale, l’istruzione, la sanità, i mutui sull’abitazione principale, le stessa fondamenta della famiglia con le sue agevolazioni. Per una famiglia di reddito medio-bassa sono piccoli numeri, ma indispensabili per vivere con dignità.

È mancato il coraggio di toccare lo stato sociale del ceto alto in maniera decisiva, rivedendo drasticamente i costi della politica, ma lo hanno avuto nei confronti di chi non rappresenta il potere forte, e forse, oggi, non vuole nemmeno guardarlo in faccia. “Gli italiani sono abituati ai sacrifici”, per questo continuano a succhiarci il sangue, come faceva il Ministro Visco, soprannominato il “Conte Dracula”. Manca la visione sociale nella manovra, mancano le riforme economiche strutturali, le liberalizzazioni, innestare quel processo che porti il sistema produttivo verso la vera e libera concorrenza. Si tassa sempre il lavoro, si cerca di non far crescere ciò di cui veramente il Paese ha bisogno, mentre le rendite finanziarie continuano a fuggire da ogni vera riforma liberale. Investire oggi in Italia è veramente un problema serio e domani potrebbe diventare impossibile, con una tassazione vicina al 50% del prodotto. Ritornano le parole di G. Palmieri, di Martignano: “bisogna contentarsi di un dato, in cui convengono gli scrittori di economia politica, qual è che il tributo non debba oltrepassare i tre decimi del prodotto”(Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1783).

Se proviamo a restringere lo sguardo, la situazione, forse, è pure peggiore. La Regione Puglia ha recentemente aumentato la tassazione fiscale, l’addizionale regionale all’Irpef, per pagare i lauti compensi dei nostri rappresentanti politici, che oggi battono cassa, mentre la Provincia di Lecce mette le mani sulle addizionali provinciali sulle Rc auto, date le magre casse che si ritrova: il responsabile è il passato, ma nessuno mai ha fatto opposizione contro quelle scellerate politiche. Tutti hanno tratto benefici!

Domani toccherà ai Comuni, che avranno via libera, grazie alle disposizioni sul federalismo fiscale, mettendo le mani nelle tasche dei poveri malcapitati, che hanno deciso di mai intraprendere carriere politiche di questo tipo.

Ma noi, siamo abituati ai sacrifici! Dai, svenateci pure!

Tommaso Manzillo

 

 

 
 
 

IL MARCHESE DI MARTIGNANO

Post n°34 pubblicato il 12 Giugno 2011 da tommaso.mt

Nel preparare un breve contributo sul tema dell’economia salentina, la mia ricerca è penetrata fino agli albori del pensiero economico liberale, per conoscere un illustre protagonista del Settecento salentino, il marchese di Martignano, Giuseppe Palmieri (1721 – 1793). Fu discepolo, possiamo dire, di Antonio Genovesi (1713 – 1769), titolare della cattedra napoletana di economia politica (la prima in Europa), che diede un grande impulso agli studi economici del tempo, con proposte di riforme per favorire la produttività. Giancarlo Vallone, nell’Introduzione al libro di Manzillo e Lattarulo (2010) afferma che “Genovesi e Palmieri, uno di queste parti, avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese”.

Alfiere in un reggimento del re di Napoli, primo tenente e maggiore col rango di tenente-colonnello nel reggimento di Calabria, si distinse negli studi delle leggi e coltivò la pratica del foro. Incaricato dell’amministrazione generale delle dogane in provincia d’Otranto, dimostrò intelligenza, rettitudine e moderazione, tanto da renderlo uomo necessario agli interessi e alla felicità dello stato. La carica avuta nel 1787 di ministro membro il Supremo Consiglio delle Finanze, gli valse la nomina di Direttore delle Reali Finanze nel 1791, “col soldo di annui ducati tre mila”. In questo delicato impegno, egli diede prova del suo talento e delle sue vedute liberali nel governo, quando “cominciarono i popoli a respirare aure d’amenità, coll’abolizione di tanti appalti onerosi, e di molti abusivi impedimenti di passi e di pedaggi, che in questo regno sovente s’incontravano”. Artefice dell’abolizione del “Tribunale della Grascia tanto nocevole alla stessa libertà del commercio ne’ confini del Regno”, del dazio sullo zafferano, e nella penuria del grano del 1792 provvide con saggi ordini alla vera carestia. “L’immortale sua opera Della ricchezza nazionale, che illustrando l’autore, onorò anche tanto la patria, ben meritava ch’egli le avesse posto in fronte il suo nome; ma egli per eccesso di modestia volle occultarlo, come l’occultò in tutte le altre sue opere economiche” (D. Martuscelli). Si meritò persino l’elogio del re Federico II di Prussia per l’opera Riflessioni critiche sull’arte della guerra del 1761, esortando i suoi generali a studiarla.

Con le Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli e i Pensieri economici, per merito dei quali ottenne gli incarichi governativi di cui sopra, può bene il Palmieri essere elevato a padre del pensiero economico liberale nel Salento, maestro nelle scelte di politica economica, mostrando la sua intelligenza e la lungimiranza dei suoi principi, ancora attuali in questo delicato periodo storico, caratterizzato da una pesante e persistente congiuntura. “Il compendio di questa scienza, ed il merito più facile e breve così per apprenderla come per praticarla, risiede nell’amor sociale”, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello de’ suoi simili”. In questi insegnamenti Palmieri dimostra la funzione sociale della scienza economica, segnando le direttrici lungo le quali dovrebbe muoversi il sistema produttivo, accompagnato da un’efficiente amministrazione locale delle risorse pubbliche, per portare l’uomo singolo e la società in cui è inserito verso la pubblica felicità, che poi era l’obiettivo del suo quasi coetaneo e padre della scienza economica, Adam Smith (1720 – 1790). L’economista scozzese, come l’aristocratico salentino, fanno un analisi antropologica della scienza economica, il cui attore protagonista è sempre l’uomo, nei suoi istinti egoistici (Smith) che inconsapevolmente portano al progresso delle nazioni (la mano invisibile del mercato), ma soprattutto nel suo ruolo determinante all’interno della società, perché, nelle parole di Palmieri, “fra tutti gli esseri l’uomo è più utile all’uomo. Non può egli sperare da altri quei beni, che soltanto da’ suoi simili può ottenere. […] Ma di tutti gli esseri il più nocivo all’uomo è l’uomo medesimo”.   

Affrontando il tema delle riforme fiscali, Palmieri sostiene che per incrementare “l’annua riproduzione” e per garantire la pubblica felicità, “bisogna contentarsi di un dato, in cui convengono gli scrittori di economia politica, qual è che il tributo non debba oltrepassare i tre decimi del prodotto”. Sarebbe la migliore riforma tributaria se l’amministrazione statale e locale riuscissero a reggersi secondo le impostazioni di Giuseppe Palmieri, perché “nello stabilire la quantità del tributo, i primi a considerarsi sono i veri bisogni dello stato ed i precisi bisogni degl’individui. Non deve stabilirsi oltre i bisogni dello stato, e non può stabilire se non oltre i bisogni degl’individui”. Proprio per il raggiungimento dello scopo istituzionale della scienza economica che Palmieri ribadisce il concetto che “o che si muti l’intiera forma del tributo o una parte, sostituendo nuove imposte ad altre che si aboliscono, il ben pubblico deve esserne il fine, la franchezza deve accompagnar queste operazioni, e l’utile della nazione dev’essere evidente”.

La realtà delle cose è decisamente diversa, perché la funzione del tributo è quella di essere di mantenimento ad un’amministrazione statale piuttosto corposa, in quanto “molti di questi uffici sono stati creati, non già perché l’amministrazione ne avesse bisogno, ma per il bisogno pressante del denaro”. Quant’è attuale questo passaggio nel Paese dei liberali! Giuseppe Palmieri gettò le basi di quel principio della scienza delle finanze, che è la capacità contributiva, quando afferma che “il tributo secondo la sua natura deve essere imposto su tutte le classi, perché sono tutte protette dallo stato, e deve essere imposto a proporzione delle forze de’ contribuenti e della protezione che ne ricevono”. In questi principi di base risiede l’altro insegnamento dell’aristocratico di Martignano, per quelle politiche che tendono a far aumentare i tributi per far fronte alle tante esigenze dello stato, in quanto “per poter accrescere il tributo, bisogna pria accrescere la ricchezza nazionale”. E abbiamo toccato il punto nodale del discorso, che poi è il filo conduttore della scienza economica, ossia raggiungere la pubblica felicità attraverso il conseguimento della ricchezza nazionale, perché “la ricchezza è un mezzo, non già il fine della società”. È il perno su cui ruotano le politiche dei Paesi aspiranti liberali, ma è soprattutto un valore morale considerare la ricchezza come il mezzo che la società usa per raggiungere un più alto livello di soddisfacimento dei propri bisogni, che con il progredire dei popoli, diventano sempre più evoluti, più complessi. Va alla deriva quella comunità in cerca della ricchezza intesa come fonte accumulazione di ingenti patrimoni senza il fine dell’appagamento delle proprie esigenze, ricchezza come fonte di prestigio personale, di usurpazione del più debole e indifeso, come strumento di soprusi e angherie. Viene violato il fine sociale della scienza economica.

Proprio per garantire il fine sociale della scienza economica, Palmieri sostiene con forza i principi della libertà nel campo economico, contro la burocrazia e gli impedimenti al libero commercio, l’anima principale della ricchezza nazionale, affermando che “tra tutti i mezzi, quello che costa meno ed è il più efficace è la libertà economica […] Le formalità eccessive, che si esigono, ritardano gli affari e turbano la tranquillità ed il commercio; dirette ad evitare le frodi, mai ne conseguirono il fine”. E questo concetto diventa il tema principale delle sue Riflessioni, la sua bandiera, il suo cavallo di battaglia, ritornandoci spesso, quasi a voler sempre ribadire da quale parte occorre collocare il pensiero dell’aristocratico e il suo pensiero intorno alla felicità dei popoli. È l’inizio, il Settecento, dei grandi fermenti liberali, che ci condurranno, successivamente, verso il nostro Risorgimento. Esamina, in sostanza, tutti i buoni propositi per impostare una vera economia liberale, con riforme che abbracciano tutti i campi della vita civile, compresa quella della giustizia (anche il giusto processo), intendimenti di base che danno slancio all’industria e al commercio di ogni nazione che vuole chiamarsi liberale: “tutti que’ mezzi che ne agevolano ed accelerano il cammino, quali i mercati, le fiere, la libertà e la buona fede concorrono a formare la massa della felicità della nazione”.

Negli intenti di ricostruire il patrimonio morale del Paese Italia, del buon costume, e di conseguenza di una politica che torni ad essere competente, preparata, professionale e onesta, Giuseppe Palmieri fa affidamento sulle giovani generazioni, le protagoniste del domani, lanciando un serio allarme sociale a noi del presente: “i giovani, dopo qualche sorpresa, si avvedono che sono stati delusi da’ loro maestri: che le massime loro insegnate non sono proprie per regolare la vita nella società”. È il momento di far sentire la loro voce, ancora carica di buoni e genuini propositi, prima che venga logorata dalla realtà.                                                    

Tommaso Manzillo

 

 
 
 

REGIONE PUGLIA: AUMENTO DELL’ADDIZIONALE REGIONALE ALL’IPERF

Post n°33 pubblicato il 06 Giugno 2011 da tommaso.mt

La Regione Puglia rischia di avere, oltre al Governatore tra i più pagati d’Italia, una pressione fiscale tra le più elevate. Non bastano i sacrifici chiesti ai pugliesi dovuti al piano di riordino ospedaliero, alle addizionali sull’accise delle benzine e la già insopportabile IRAP al 4,82% (contro il 3,90% nazionale), sulla cui base imponibile grava il peso del lavoro dipendente e gli oneri finanziari, ci voleva anche l’addizionale regionale all’I.R.P.E.F. per coprire il disavanzo del settore sanitario per l’anno 2010 pari ad euro 335,452 milioni, risultato insufficiente per 93,661 milioni di euro.

Con decreto del Presidente della giunta regionale commissario ad acta del 30 maggio 2011, n. 2, pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 86 del 01 giugno 2011, è stata determinata l’addizionale regionale all’IRPEF, applicata sul reddito imponibile al netto degli oneri deducibili (abitazione principale ed altri componenti negativi deducibili).  Le novità principali sono sostanzialmente due. La prima è che la nuova misura grava su tutti i contribuenti pugliesi, a differenza della manovra di qualche anno fa che colpiva solo i redditi superiori a 28 mila euro. La seconda è che la misura dell’addizionale si applica per scaglioni di reddito. E vediamo come.

Al punto due del decreto è stabilito che ai redditi fino a 28 mila euro si applica l’1,20% (+0,30%), mentre per i redditi oltre tale soglia l’aliquota è dell’1,40% (+0,50%). In caso di modifica degli scaglioni di reddito previsti dall’articolo 11 del TUIR di cui al DPR n. 917 del 22 dicembre 1986, l’aliquota dell’addizionale pari a 1,20% permarrà sul secondo scaglione di reddito, mentre l’aliquota dell’addizionale pari a 1,40% permarrà su successivi scaglioni. Quindi per un reddito inferiore a 28 mila euro lo scaglione di appartenenza corrisponde all’aliquota del 1,20%, mentre per redditi superiori tale soglia si applicherà l’1,20% fino a 28 mila euro di reddito, mentre per la parte di reddito eccedente tale limite si applicherà l’1,40%.

Mutuando dallo slogan del neo sindaco di Milano (espressione della stessa corrente politica del nostro Governatore): PUGLIA, BUONGIORNO!

Tommaso Manzillo

 
 
 

LA BELLA ADDORMENTATA

Post n°32 pubblicato il 06 Giugno 2011 da tommaso.mt

Con l’istituzione della BAT (Barletta-Andria-Trani) e il conseguente ridimensionamento demografico della provincia di Bari, quella del Salento, al 31 dicembre del 2010 (fonte ISTAT), sarebbe la provincia più popolosa della Puglia con 1.798.854 abitanti, mentre quella del capoluogo barese è di 1.258.706. La sesta provincia pugliese conta invece 392.863 abitanti, sempre alla stessa data. Il bel risultato salentino, oltre all’istituzione della nuova provincia, però, non è dovuto ad un incremento naturale della popolazione (-474), bensì ad un saldo migratorio positivo. Il saldo migratorio negativo della provincia di Taranto (-792) è più che compensato da quello positivo della provincia di Lecce (+2.652) e quella di Brindisi (+291), mentre la provincia del capoluogo barese ha avuto un incremento di 2.754 unità, quella di Foggia un decremento di 480 e quella della BAT un aumento di 417. Comunque, la popolazione della provincia salentina è sostanzialmente stabile rispetto al 31 dicembre del 2009.

Se analizziamo il dato della sola provincia di Lecce, emergono informazioni molto interessanti. Il solo capoluogo leccese ha registrato un forte incremento di ben 571 abitanti, con un saldo migratorio positivo di 660 (+0,60%), mentre quello naturale è risultato negativo per 89 unità. Al 31 dicembre del 2010 Lecce contava 95.520 abitanti. Un fortissimo incremento è stato registrato per Nardò (+2,43%) con 31.952 abitanti, sempre al 31 dicembre 2010 e un incremento di 757 unità, contro l’aumento di 571 unità della sola Lecce, confermandosi il secondo centro più popoloso dopo il capoluogo. Cavallino ha avuto un incremento di 2,3%, San Cesario di Lecce e Surbo di 1,74%, Lizzanello di 1,21%. Il tutto è dovuto, come detto riguardo tutta la provincia, al saldo migratorio positivo.

La nostra città presenta un andamento demografico sostanzialmente stabile, con 27.299 abitanti al 31 dicembre del 2010, contro 27.317 del 31 dicembre del 2009. Il saldo naturale è positivo per 10 unità, con 245 nati e 235 decessi, mentre il saldo migratorio è decisamente negativo per 28 unità, con 381 iscrizioni e 409 cancellazioni. Rispetto all’analisi fatta lo scorso anno (vedi “il titano”, supplemento economico de “il galatino” nr. 12 del 26 giugno 2010), si potrebbe notare che nulla è cambiato nella nostra città, e nulla di nuovo, in senso positivo o negativo, vi è da menzionare dopo un anno dalle ultime elezioni amministrative. L’andamento demografico rispecchia perfettamente il quadro stazionario della politica cittadina, ingessata da logore guerre intestine. Nardò cresce, ma anche alcuni piccoli paesi proseguono a gonfie vele: Galatina sembra ancora la bella addormentata nel bosco. Cosa succederà quando partirà il federalismo fiscale? Come e cosa cambierà nella vita cittadina, sul lato amministrativo, fiscale, sociale, economico e quant’altro? Chi vivrà vedrà.

Tommaso Manzillo

 

 
 
 

UNA STORIA DEGNA DI MEMORIA

Post n°31 pubblicato il 01 Giugno 2011 da tommaso.mt

Dovrebbe pazientare il lettore se si insiste con un ulteriore approfondimento su Antonio De Viti De Marco, ma lo spessore culturale, economico e politico dell’uomo impone un altro contributo su una figura storica grandiosa. Per gli addetti ai lavori, per gli amanti della scoperta e della ricerca, cercare di capire meglio il marchese di Casamassella è sempre appagante, pieno di sorprese, e riempie l’animo di grande soddisfazione e orgoglio per aver saputo portare il Salento nel mondo. Si, nel mondo. Perché la sua fama si estese presso i più grandi economisti americani, tedeschi, inglesi, oltre agli italiani Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Luigi Einaudi ed altri. L’uomo che approntò la nuova scienza delle finanze viene dal Salento ed è Antonio De Viti De Marco. Sarebbe l’ora di iniziare anche a parlare, oltre che di federalismo fiscale, anche di federalismo culturale. Ce lo chiedono i protagonisti più grandi di ogni particolare territorio, che molto spesso rimangono oscurati dalla Storia, lontani dalle aule scolastiche ed univesitarie, dopo aver offerto decisivi contributi nel panorama culturale, storico, politico, economico e sociale. E il Salento, soprattutto Galatina, hanno una lunga schiera di figure da conoscere e approfondire.

Il portale internet dell’Università del Salento offre al navigatore un bellissimo e interessante documentario sulla vita privata, e non solo, dell’aristocratico, così come raccontata da Emilia Chirilli, l’ultima testimone della famiglia De Viti De Marco. La storica e biografa del professore universitario visse i suoi primi anni di fanciullezza nella tenuta di Casamassella, e ricevette tante preziose informazioni, lettere e documenti originali da donna Carolina, sorella del marchese. Il documentario di Manuela Mosca, che ho letteralmente trascritto, autrice anche del libro, eleva l’uomo a maestro della scienza delle finanze (lo aveva già fatto Einaudi, davanti a Pareto, Pantaleoni e Mosca), riconosciuto sul piano nazionale ed internazionale.

Economista liberale, ma anche sociale, democratico, radicale e laico, subì, grazie alle origini famigliari, l’influsso della cultura anglosassone nella sua formazione personale. Fu un grande innovatore anche della teoria della banca. De Viti De Marco impose un nuovo modo di intendere la scienza delle finanze, grazie allo studio, fin da giovane, insieme all’amico Maffeo Pantaleoni, di Stanley Jevon e la scuola del marginalismo di Karl Menger e Leon Walras. I due intendevano introdurre gli ideali del pensiero marginalista in Italia, applicato con la matematica, per tentare di diffondere un orientamento spiccatamente liberale. Durante la sua attività parlamentare tenterà, senza riuscirci, la costruzione di una grande area politica per i liberali e democratici.  

Fu De Viti De Marco ad inserire per primo i beni pubblici nel contesto generale della finanza pubblica, definendo la scienza delle finanze come la scienza della domanda e dell’offerta di beni pubblici. Il suo punto di partenza, come del resto lo è nel campo dell’economia politica nello studio del mercato, è il bisogno collettivo, che nasce e si sviluppa dal vivere insieme. Il bisogno della pace e della sicurezza, il bisogno delle infrastrutture, dei servizi, sono avvertiti dall’individuo che vive inserito nella sua collettività. Per questo rifiuta il costituzionalismo tedesco con la sua economia politica che hanno sempre difeso lo Stato subordinando l’individuo, mentre abbraccia quello anglosassone e la sua economia politca che difende l’individuo: chiaro intendimento contro il fascismo. Gli economisti del tempo riconoscevano soltanto il mercato come unico modo di intendere l’economia polica, mentre De Viti De Marco introduce il concetto di economica pubblica, in cui lo Stato gioca un ruolo essenziale nel soddisfacimento dei bisogni collettivi. Nella letteratura italiana di finanza pubblica ci sono due scuole di pensiero. La prima vuole che l’attività politica dello Stato si svolga in maniera efficiente, e De Viti De Marco rientra in questo caso, mentre Montemartini e Puviani parlano di fallimento del mercato. Quella che prevalse con il tempo fu l’idea di De Viti De Marco, ossia che l’attività dello Stato funziona proprio come il mercato.

Nel 1986 James Buchanan, il caposcuola dell’orientamento Public Choice, ottenne il premio Nobel per l’economia grazie allo studio inteso, fin dal suo viaggio in Italia del 1949, di Antonio De Viti De Marco, la cui opera più importante fu, dallo stesso Buchanan, citata nel suo primo lavoro sull’economia pubblica. I teorici di questa branca sociale, come il nostro Giuseppe Palmieri di Martignano, seguono certamente gli insegnamenti di Pietro Verri, nelle sue Meditazioni sulla economia politica (1771), quando afferma che “l’interesse privato di ognuno, quando coincide con il pubblico interesse, è sempre il più sicuro garante della felicità pubblica”.

Siamo certamente d’accordo con Emilia Chirilli quando afferma, agli inizi del documentario in sua memoria, che la storia di Antonio De Viti De Marco è veramente degna di memoria.

Tommaso Manzillo

 
 
 

IL CARATTERE DELL’ECONOMIA SALENTINA

Post n°30 pubblicato il 25 Maggio 2011 da tommaso.mt

Il carattere è per un popolo più importante che l’ingegno e la dottrina. Sventura dell’Italia è stata sempre la mancanza di carattere in troppi fra coloro che avrebbero dovuto darne l’esempio”. (G. Salvemini, 1946). Pasquale Villari, in una lettera del 1861, avrebbe aggiunto: “qual è il carattere più notevole in questo popolo, dopo che il regime borbonico è caduto noi diremmo: la mancanza di fiducia in se stesso”.

Nelle sue Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli (1788), seguendo, in alcuni tratti essenziali, le teorie economiche e tributarie del milanese Pietro Verri, autore delle Meditazioni sulla felicità (1763) e delle Meditazioni sull’economia politica (1771), Giuseppe Palmieri di Martignano gettò le basi fondamentali per liberare l’economia del Salento dai tanti impedimenti fiscali e non solo, per dare ampio respiro a una realtà piena di potenzialità. Dopo l’Unità d’Italia, gli indirizzi governativi che caratterizzarono quell’epoca che gli storici chiamano “liberale”, ma solo nel pensiero e nelle idee di quel tempo, finì per danneggiare seriamente un territorio agricolo già povero e arretrato. Giustino Fortunato fu tra i primi a parlare di questione meridionale e, dopo la delusione della politica liberale, di “misera Italia”. Questo periodo è caratterizzato dall’intensa lotta parlamentare in difesa dell’economia del nostro territorio, da parte di due illustri conterranei, ossia Antonio De Viti De Marco (Casamassella) e il coetaneo Antonio Vallone (Galatina). La loro politica era diretta contro la tariffa granaria del 1887 e il protezionismo industriale che affossarono la fragilissima economia agricola del meridione e del Salento, provocando la fame e la miseria di una popolazione ridotta allo stremo, che esplose, a Galatina, con i “tremendi fatti di Cristo Risorto del 1903”. 

La situazione odierna, nel contesto storico e congiunturale presente, non è poi così diversa da allora. Basta guardare le condizioni in cui operano le imprese allocate nella prima vera zona industriale di tutta la provincia di Lecce, ossia quella di Galatina-Soleto, ma stesso discorso vale anche per le altre, comprese quelle artigianali e commerciali. Isolate dalle più importanti arterie stradali, rendendone difficile, senza nemmeno un’opportuna segnaletica verticale, il collegamento viario dei mezzi pesanti con la S.S. 101 Lecce-Gallipoli e con la S.S. 16 Lecce-Maglie, obbligando loro il passaggio da alcuni centri abitati; prive delle altre infrastrutture, di un adeguato sistema di illuminazione, dei servizi idrici e fognanti, con seri problemi riguardo la sicurezza stradale. Purtroppo, la classe dirigente del Salento non ha dimostrato carattere e determinazione nemmeno davanti alle problematiche riguardanti la tanto discussa S.S. 275, che, nei progetti, collegherebbe l’isola (il Capo di Leuca) con la penisola, perché gli interessi particolari, alle volte, hanno la meglio su quelli del territorio e del suo sviluppo forte e duraturo.

Sono gli imprenditori del Salento ad avere dimostrato carattere nell’operare in queste impervie condizioni, dovendo fronteggiare una pesante crisi economica e finanziaria, e un primo trimestre 2011 a tinte fosche. Le imprese del Salento sono state costrette a fare da sole, con le ristrutturazioni aziendali, attraverso l’innovazione e la ricerca di nuovi mercati, nonostante le promesse elettorali, rimaste tali, e innalzate da chi ha avuto bisogno di consensi per fini puramente particolari. Ritornano le parole di Villari: “la cosa veramente indispensabile alle nostre province sono le strade, le opere pubbliche”. Sono esigenze dell’Italia post-unitaria, ma ancora presenti. Eppure non mancano gli enti territoriali competenti, consorzi e altro ancora, che assorbono, però, denaro pubblico per risanare i propri bilanci deficitarii, sottraendolo dalle realtà produttive. Delle ricche risorse 2007-2013, è stato speso soltanto un misero 6 percento, con il rischio di vedersi cancellate quelle assegnate e non spese: una vergogna, degna di una politica priva di carattere e piena, invece, di false pretese.

Le imprese salentine vogliono continuare ad essere protagoniste e forza trainante dell’economia e della crescita di tutta la Puglia, preparandosi per agganciare quella fragile ripresa intravista da qualche parte. La chiave di lettura è nelle parole di De Viti De Marco, che destino volle abbia frequentato il collegio “Giuseppe Palmieri” di Lecce, il quale sosteneva che “gli alti salari sono la condizione dell’elevamento materiale e morale della classe lavoratrice” che “porta con sé automaticamente l’elevamento di tutto il paese; e questo rifluisce nuovamente a beneficio, anche economico, di tutte le classi, compresi i proprietari”. Il programma di risanamento dei conti pubblici italiani è stato una delle cause della crescita quasi zero dell’economia nazionale e salentina, in particolare, amplificando gli effetti della pesante congiuntura. Manca una seria politica che porti al centro del dibattito il lavoro e la produzione di ricchezza, temi importanti di un Paese che vuole proclamarsi liberale, discorsi che abbiamo imparato a memoria dalle diverse campagne elettorali, ma gli effetti si perdono nelle stanze del potere: la riforma del fisco e della giustizia, un efficace processo di liberalizzazioni, lotta al sommerso e sgravi fiscali per il lavoro e per chi crea valore aggiunto e lo distribuisce sul proprio territorio. Lo sguardo delle imprese salentine è rivolto con grande speranza allo svilupparsi del Piano nazionale per il Sud, stilato dal Ministro per i Rapporti con le Regioni e la Coesione, Raffaele Fitto. Tanti progetti per il meridione, promessi per accontentare una parte della classe politica e dirigenziale del Sud: soltanto si spera che questo abbia fortune migliori. Diceva ancora De Viti De Marco: “noi vogliamo atti di giustizia tributaria, non concessioni graziose. Noi vogliamo che sieno eliminate dalla legislazione alcune delle disposizioni inique, che operano una speculazione del carico tributario nazionale a nostro danno”.

Stiamo oramai per entrare nell’era del federalismo fiscale tanto voluto anche da De Viti De Marco, il quale lo sosteneva con forza (nell’ottica dello Stato unitario) insieme alla riforma della magistratura, nel senso della sua indipendenza dalla politica, e strumento di difesa dei cittadini contro i soprusi dei consigli comunali. Il marchese aveva ben capito l’importanza della gestione locale delle proprie risorse, ma aveva anche intuito il pericolo che ciò comportava in termini di facili commistioni tra interessi pubblici e privati. L’essenza della sua lotta contro lo Stato accentratore era che “il governo burocratico è una jattura nazionale, non solo e non tanto per gli stipendi che ingoia e per gli edifici che popola, quanto per gli ostacoli che oppone allo sviluppo della produzione e della ricchezza”. Sono parole ancora attuali nel dibattito odierno.

I nostri padri furono lungimiranti a prevedere e volere il federalismo come strumento di sviluppo dell’economia del nostro territorio, pieno di vitalità, di idee e di iniziative, indispensabili per affrontare le nuove sfide della globalizzazione. Occorre, certamente, carattere, coesione e maggiore coscienza, da parte nostra, nel momento delle scelte elettorali, che dovranno tramutarsi in governi locali responsabili, che siano di impulso all’economia del territorio, dimostrando come le parole in premessa appartengano alla storia del nostro passato. Senza essere troppo idealisti ma realisti, occorre saper concretizzare le parole di uno dei padri del pensiero economico liberale del Salento, Giuseppe Palmieri, quando dice che l’”ottimo governo, qualunque ne sia la forma, è quello in cui i cittadini sono felici, ed ottimi mezzi sono tutti quelli per cui questo fine si ottiene”. “La giustizia sia il termine da cui bisogna partire, ed il bene pubblico e la pubblica felicità il termine a cui si deve giungere”.

Tommaso Manzillo

 
 
 

IL FEDERALISMO COME SOLUZIONE PER LA QUESTIONE MERIDIONALE?

Post n°29 pubblicato il 06 Maggio 2011 da tommaso.mt

Si può essere d’accordo sul fatto che il federalismo fiscale sia lo strumento idoneo per la migliore gestione delle risorse di ogni territorio, ma è d’obbligo anche fare le dovute precisazioni e osservazioni in merito al suo intimo significato. Certamente, non è una nuova forma di governo, piuttosto una diversa modalità di organizzare uno Stato, detto appunto federale.

Antonio e Carlo Iannello nel loro libro Il falso federalismo (La Scuola di Pitagora editrice, 2004), analizzano le differenze tra il concetto di federalismo e quello riguardante le altre forme organizzative della macchina amministrativa dello Stato, ripercorrendo brevemente i diversi interventi in seno all’Assemblea Costituente. Attraverso il pensiero di illustri protagonisti della scena politica italiana del tempo, illustrano le loro perplessità sul modello del decentramento amministravo così come è emerso dalla Carta Costituzionale,  perché consente che nuove forze centrifughe si sprigionino per ottenere sempre maggiore autonomia gestionale, da parte degli enti locali. Allo stesso modo, gli stessi Padri Costituenti sentenziarono come la questione meridionale non fu causata dall’allora sistema amministrativo centralizzato dello Stato, così come impiantato all’indomani dell’Unità d’Italia, quanto piuttosto divenne figlia di scelte scellerate da parte della classe dirigente meridionale che prese il sopravvento nella vita politica, per imporre una vera e propria deviazione del potere locale dai suoi obiettivi, per finalità sostanzialmente estranee alla gestione della cosa pubblica. Giustino Fortunato già nel 1896 accusava il Governo centrale “di tante partigianerie, di quelle tante soverchierie, che sono state e sono la causa delle nostre amministrazioni locali”. De Viti De Marco si espresse sugli stessi livelli, pur accettando il decentramento amministrativo, soluzione richiesta per la rinascita delle popolazioni meridionali, piegate da tanti provvedimenti, in favore delle industrie del nord, adottati dal Capo del Governo, Giolitti, che più tardi G. Salvemini chiamerà il “Ministro della malavita”.

Nelle discussioni in seno all’Assemblea Costituente tornò prepotentemente in primo piano il dibattito riguardante il decentramento amministrativo, sostenuto soprattutto dalle forze politiche cattoliche e moderate. Come venne messo in luce da alcuni Costituenti come P. Nenni, P. Togliatti, F. S. Nitti ed altri, la nascita delle Regioni rappresentava, già allora, una seria minaccia contro l’Unità dello Stato, nel momento in cui ogni regione richiama a sé nuovi compiti e nuove funzioni. Di contro, il relatore della Seconda Sottocommissione, Gaspare Ambrosini, evidenziò come la creazione dell’ente Regione, dotato di propria autonomia, avrebbe potuto evitare i danni derivanti dall’eccessivo centralismo statale, favorendo la partecipazione dei singoli alla vita pubblica. Gli fa eco Luigi Einaudi, il quale immaginava una Regione senza l’ente Provincia, per evitare che si moltiplicassero gli uffici e i gravami fiscali: un dibattito ancora attuale soprattutto nel nostro territorio, interessato dal progetto per la Regione Salento!

 Il punto centrale risiede sul concetto di federalismo, che comprende in sé stesso la sostanza dello Stato unitario. Per essere veramente efficace, il federalismo deve abbracciare il senso civico dello Stato, inteso nella sua Unità, vivendolo nello spirito collaborativo tra le varie istituzioni ivi presenti. Gli Stati Uniti d’America sono nati come un Paese federale, nel senso che, mentre gli Stati federati hanno una loro legislazione per determinate materie, così come stabilito dalla loro Costituzione, lo Stato centrale ricopre altre e determinate funzioni, che non possono in alcun modo essere cedute agli Stati membri: basti pensare alla politica sul welfare state, sui grandi temi dell’economia, sulla giustizia e sull’equità sociale. Lo Stato federale opera in uno spirito collaborativo con gli Stati federati, nell’ottica del perseguimento di quelli che sono gli interessi della Nazione Intera. In questo l’Italia non è un Paese politicamente federale.

Assistiamo, purtroppo, ad una vera e propria alterazione del concetto di federalismo, spinti dall’impeto di forze territoriali e locali per ottenere maggiore libertà nella gestione delle proprie risorse, meglio impiegandole rispetto a scelte centrali piuttosto contestabili. Il vero significato non è soltanto questo, ma anche il riconoscimento della sua valenza di interesse generale, mezzo efficace per il progresso economico, sociale e civile di tutta la nazione, che si realizza con la collaborazione di tutte le istituzioni di ogni ordine e grado, nello spirito risorgimentale dell’Italia Unita, perché il federalismo non si trasformi in uno strumento che accentui ancora di più la disparità tra le regioni più ricche e progredite del nord e quelle povere del sud d’Italia. Collaborazione e sussidiarietà, che molto spesso vengono a mancare tra i diversi livelli istituzionali, tra Stato, Regione, Provincia e Comune, soprattutto quando sono i diversi colori politici ad elevarsi a paladini di singole istanze. La spiegazione è nelle parole di Adolfo Omodeo quando affermava che “lo spirito di autonomia, che in gran parte coincide con l’iniziativa dell’uomo libero, dev’essere creato prima di sancire le autonomie sulla carta, e incorrere in gravi errori politici”.

La speranza per le nostre regioni del Sud è che il federalismo porti con sé la nascita di una nuova classe dirigente più capace, più competente e più responsabile nell’affrontare le diverse problematiche dei rispettivi territori, cosa che è mancata con il decentramento amministrativo e l’istituzione delle Regioni. Riprendendo il pensiero di G. Fortunato, con le leggi che già abbiamo si sarebbe potuta risolvere la questione meridionale. Occorre un governo onesto, che si sforzi di “far dell’amministrazione, niente altro se non della buona amministrazione nella pratica della vita cotidiana, con sentimento di verità, non con ispirito di opportunità […] sotto l’egidia della formula sacramentale del nostro diritto pubblico interno: << la legge è uguale per tutti>>.” In questo sta il compito dello Stato centrale, che deve essere in grado di fare sintesi intorno ai grandi temi della collettività, rafforzando anche il ruolo del Presidente della Repubblica come Garante dell’Unità della Nazione nella fase storica del federalismo regionale: e qui entrano in gioco altre variabili, quali ad esempio, la riforma del sistema elettorale, ma questa è tutt’altra storia!

Tommaso Manzillo

 

 
 
 

A PICCOLI PASSI VERSO IL FEDERALISMO MUNICIPALE

Post n°28 pubblicato il 30 Marzo 2011 da tommaso.mt

Sbloccati gli aumenti delle addizionali comunali all’IRPEF, in attesa dell’entrata in vigore dell’I.MU., dal 2014 -

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana nr. 63 del 23 marzo 2011, il decreto legislativo del 14 marzo 2011 nr. 23, riguardante le “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale”. La sintesi perfetta di questo provvedimento è riportata nell’articolo 12, comma 2, dove viene stabilito che “non può derivare, anche nel corso della fase transitoria, alcun aumento del prelievo fiscale complessivo a carico dei contribuenti”, in quanto “l’autonomia finanziaria dei comuni come recita il comma 1 dello stesso articolo, deve essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e crescita”.

Viene stabilito, tra l’altro, a decorrere dal 2011, l’attribuzione ai comuni, relativamente agli immobili ubicati nel proprio territorio, del 30 per cento del gettito derivante dall’imposta di registro, imposta di bollo, imposte ipotecaria e catastale, i tributi speciali catastali e le tasse ipotecarie, per gli atti traslativi di beni immobili, nonché l’imposta sul reddito delle persone fisiche in relazione ai redditi fondiari, esclusi quelli agrari e la cedolare secca sugli affitti. Viene stabilita la compartecipazione dei comuni al gettito dell’imposta sul valore aggiunto, in percentuale stabilita da un successivo decreto ministeriale (equivalente alla compartecipazione del 2 per cento al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), assumendo a riferimento il territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo (art.1 c. 4). Dal 2012 cessa di essere applicata nelle regioni a statuto ordinario l’accisa sull’energia elettrica, aumentando l’accisa erariale, per assicurare la neutralità del provvedimento.

Ai comuni è assicurato il maggior gettito derivante dall’accatastamento degli immobili finora non dichiarati in catasto, consentendo loro l’accesso ai dati contenuti nell’anagrafe tributaria (art.1 c. 10) relativi ai contratti di locazione e detenzione di immobili ubicati nel proprio territorio, di somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas, ai soggetti che hanno il domicilio fiscale nel proprio territorio e a chi esercita nello stesso un’attività di lavoro autonomo e di impresa. Allo stesso modo sono elevati di ben quattro volte gli importi minimo e massimo della sanzione amministrativa prevista per l’inadempimento degli obblighi di dichiarazione agli uffici dell’Agenzia del Territorio.

In alternativa al regime ordinario, il proprietario o titolare di diritto reale di godimento su unità immobiliari abitative locate ad uso abitativo può optare per la cedolare secca, ossia un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle relative addizionali, imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione. La misura dell’aliquota è il 21 per cento sul canone di locazione annuo, ovvero il 19 per cento nei comuni ad alta densità abitativa. Queste disposizioni non si applicano per quelle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate nell’esercizio di un’attività d’impresa, arti o professioni. Nell’articolo 4 è stabilita l’imposta di soggiorno per i comuni capoluogo di provincia, le unioni di comuni e quelli inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche, fino ad un massimo di 5 euro per notte, a carico di chi alloggia nelle strutture ricettive situate nel proprio territorio. Il gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo e a sostegno delle stesse strutture ricettive, oltre che per interventi di manutenzione e recupero dei beni culturali ed ambientali.

Importante novità, nell’articolo 5, è la graduale cessazione della sospensione del potere dei comuni di istituire l’addizionale comunale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, ovvero di aumentare l’aliquota vigente per i comuni che l’hanno già adottata. In attesa del decreto attuativo, solo i comuni che presentano un aliquota al di sotto dello 0,4 per cento, o che non l’hanno ancora adottata, possono esercitare tale facoltà. In ogni caso, l’addizionale non può essere istituita o aumentata in misura superiore allo 0,2 per cento annuo.

Dall’articolo 7 le disposizioni sul federalismo fiscale. Dal 2014 è introdotta l’imposta municipale  propria e secondaria. La prima sostituisce, per la componente immobiliare, l’imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali sui beni non locati e l’imposta comunale sugli immobili. Sono esclusi gli immobili adibiti ad abitazioni principali e relative pertinenze. Tale imposta grava sui proprietari di immobili e di diritti reali di godimento sugli stessi, ridotta della metà se l’immobile è locato o sia improduttivo di reddito fondiario o posseduto dai soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società. L’aliquota è del 7,6 per mille, ben oltre quella che era l’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili. Inoltre, è indeducibile dalle imposte erariali sui redditi e dall’imposta regionale sulle attività produttive (art. 14 comma 1).

L’imposta municipale secondaria sostituisce la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, il canone di occupazione di spazi e aree pubbliche, l’imposta comunale sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni, il canone per l’autorizzazione all’installazione di mezzi pubblicitari. Il presupposto è l’occupazione di aree demaniali dei comuni e l’imposta è dovuta in base alla durata ed entità dell’occupazione.

Tommaso Manzillo

 
 
 

IL SISTEMA SCOLASTICO GALATINESE NELL’UNITÀ D’ITALIA

Post n°27 pubblicato il 30 Marzo 2011 da tommaso.mt

Nella ricorrenza per il 150mo dalla proclamazione del Regno d’Italia (che storicamente è l’espressione più corretta, dato che l’Unità si completerà con l’annessione dei territori di Trentino, Alto Adige, Trieste ed Istria e poi Fiume), merita una breve trattazione la nascita e lo sviluppo del sistema scolastico a Galatina durante il periodo risorgimentale e post-unitario. Da quanto sappiamo, prima dell’Unità l’istruzione era affidata storicamente, oltre alle parrocchie, agli enti ecclesiastici del tempo, come per esempio le Orsoline, la Compagnia di Gesù, i Barnabiti. Fu Orazio Congedo senior, morto nel 1804, che nel 1801 istituì a Galatina due scuole, con una munifica donazione dal suo patrimonio personale: una di primella e primaseconda, l’altra di seconda e umanità (Congedo P., Gli Scolopi e Galatina, 2003, pag. 33). Con il regio assenso del 1804, la prima prese il nome di scuola del leggere e dello scrivere, mentre la seconda fu indicata come scuola dell’umanità.

Per la vita del sistema scolastico a Galatina fu determinante un ordine religioso già operante nel Salento (Campi Salentina, Brindisi, Manduria, Francavilla), ossia gli Scolopi, fondato da San Giuseppe Calasanzio, che istituì le Scuole Pie nel 1597, ottenendo successivamente il riconoscimento dei pontefici Clemente VIII e Paolo V. Agli inizi del XVIII secolo a Galatina si tentò di far arrivare gli Scolopi, tramite il Capitolo della Collegiata, ma non si approdò a nulla, perché non si trovarono quelle disponibilità finanziarie ad integrazione del lascito di mons. Adarzo de Santander (1673).

Un altro tentativo in favore delle scuole pubbliche a Galatina, fu rappresentato dal testamento del canonico della Collegiata, Ottavio Scalfo, morto nel 1759, lasciando i suoi beni per l’istituzione delle Scuole Pie. Dopo un lungo processo civile durato diversi anni, a causa dell’impugnazione del testamento Scalfo da parte degli eredi del fratello Giovanni, ossia i Galluccio, la R. Camera di S. Chiara di Napoli decise, nel 1776, che il lascito di Giovanni Scalfo non andasse ai Carmelitani bensì ai Galluccio, eredi legittimi, mentre con quello del canonico Ottavio fu istituito il Conservatorio femminile dove un tempo era il palazzo Scalfo, come stabilito dallo stesso Ottavio nel caso in cui non fosse possibile portare gli Scolopi a Galatina.

È durante il regno dei napoleonidi che si cercò di promuovere l’istruzione secondaria gratuita mediante i Collegi Reali, mentre il re Ferdinando IV aveva già disposto anni prima il trasferimento delle Scuole di Castro a Poggiardo e il Murat le trasferì nuovamente ad Otranto. Ma tali provvedimenti rimasero disapplicati, perché, al ritorno dei Borboni a Napoli, le scuole si trovavano ancora a Poggiardo. Nel 1818 la Diocesi di Castro fu soppressa ed incorporata in quella di Otranto, mentre i beni degli ex conventi di Andrano, Marittima e Poggiardo andarono a Galatina per l’istituzione delle scuole secondarie, che avvenne soltanto nel 1833. A Poggiardo rimasero solo i beni del legato Capreoli (inizi del XVIII sec.), che destinò le modeste rendite di cui disponeva per l’istituzione di tre scuole pubbliche a Castro. Purtroppo, le Scuole Secondarie a Galatina incontrarono serie difficoltà economiche, costringendo l’amministrazione comunale a prendere trattative con gli Scolopi. Questi chiedevano, tra le altre cose, la possibilità di disporre di una chiesa pubblica, non lontano dal paese, oltre che di una casa ammobiliata, tutto a spese del Comune. Solo nel 1853 si ottenne il regio assenso e gli Scolopi poterono arrivare a Galatina, disponendo della chiesa di S. Maria della Grazia, oggi conosciuta come chiesa del Collegio, perché qui si istituì il Pio Istituto “P. Colonna”, rimasta libera in quanto, con l’arrivo dei napoleonidi, i PP. domenicani furono cacciati, insieme ai Carmelitani che si trovavano presso il Carmine. Come affermava l’Intendente Sozy Carafa, riportato Pietro Congedo in Gli Scolopi e Galatina, i PP. delle Scuole Pie “godevano tutte le simpatie dei liberali ultra e dei compromessi politici, simpatie ottenute e giustificate dal loro modo di pensare, di scrivere e di insegnare”.

Con l’Unità d’Italia, nel 1866 molti ordini religiosi furono soppressi e da Galatina furono mandati via gli Olivetani, i Francescani Riformati e gli Scolopi, mentre il collegio entrò nella disponibilità dell’amministrazione comunale. Nel 1881 il Ginnasio ottenne il pareggiamento alle Scuole regie, riconosciuto Opera Pia dal Governo, mentre nel 1898 fu istituito il corso liceale, e nell’anno scolastico 1907-08 l’intera Scuola divenne governativa, grazie all’intervento dell’ing. Antonio Vallone.

Sul finire del XIX secolo nasce l’Istituto Statale d’Arte “G. Toma”, come Scuola Serale applicata all’industria e ai mestieri, voluta dall’ingegnere Antonio Vallone, il cui nome ritorna spesso nella storia di Galatina tra la fine del XIX e il primo quarto del XX secolo. Nel periodo post-unitario, si rese necessaria l’istituzione di una scuola dei mestieri, dato il grande disordine subito dopo il 1861; mentre il Ginnasio rimaneva una scuola per pochi eletti facoltosi, l’istituto d’arte aveva la funzione quanto meno di abbassare l’elevata soglia di analfabetismo ancora presente tra la gran parte del popolo. Il suo ruolo fondamentale fu ed è quello di far acquisire alle giovani generazioni quelle competenze necessarie per poter svolgere con dignità un determinato lavoro. Successivamente fu regificata (1908), divenendo Regia Scuola Popolare di Arti e Mestieri (cfr. Antonaci A., 1999, pag. 785 e ss.), mentre nel 1924 passò alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione.

Nel corso degli anni successivi, furono istituiti l’Istituto Professionale Statale per l’Industria e l’Artigianato, poi intitolato al nostro concittadino Gaetano Martinez (1892-1951) e l’Istituto Tecnico Commerciale, dedicato solo nel 1964 al prof. fisiologo Michele Laporta (1903-1954).

Galatina deve un enorme riconoscimento ai grandi protagonisti della storia cittadina, per averla dotata di istituzioni scolastiche che l’hanno resa non solo “un’oasi di cultura”, come avrebbe detto De Viti De Marco commemorando l’amico Antonio Vallone, ma anche terreno fertile per la promozione e la diffusione di quei valori civici oggi oramai scomparsi nelle giovani generazioni.

Tommaso Manzillo

 
 
 

TRE SECOLI DI DEVOZIONE ALLA VERGINE ADDOLORATA

Post n°26 pubblicato il 30 Marzo 2011 da tommaso.mt

I lavori di restauro dell’Altare Maggiore (1716) della chiesa dell’Addolorata di Galatina, iniziati lo scorso 10 gennaio ed eseguiti dalla ditta DEA XXI soc. coop. a r. l. di Lecce, assumono, quest’anno, un significato importante nella storia dell’Arciconfraternita “Beata Vergine Maria Dei Sette Dolori”, ivi presente, ricorrendo il terzo centenario dalla sua fondazione. Dopo un terzo del lavoro di pulitura, si può già ammirare stupendamente quell’intreccio di oro e argento che lo arricchiscono, abbracciando tutte le statue in pietra dei santi protettori della confraternita e, in particolare, la nicchia dove è custodita la statua in legno policromo dell’Addolorata, conferendo all’insieme una maggiore luminosità. Per chi assiste assiduamente alle funzioni religiose, quell’altare offre a noi, e al visitatore di passaggio presso la chiesa, sempre nuove sorprese, come molte volte mons. Aldo Santoro ha sottolineato alla fine delle celebrazioni eucaristiche. Oltre all’altare, stanno tornando all’antico splendore le tele della Via Matris, situate nelle apposite teche ovali della navata centrale. Oramai sono quattro quelle già restaurate, mentre altre due sono state consegnate per poterle, fra qualche mese, contemplare nel loro insieme.

Nel libro di Antonaci, La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1967), è riportato che la confraternita “ha avuto origine dalla Congregazione ch’era situata nel Convento dei PP. Domenicani (chiesa del collegio, ndr) di questa Città sotto il titolo di S. Caterina di Siena e coll’abolimento dell’istessa colla occasione del nuovo fabrico della Chiesa di detti PP. accaduto verso la decadenza del secolo passato (XVII sec., ndr), i Fratelli di d° Oratorio di Siena, pensarono pietosamente dividersino perché molti, e stabilire due Oratori, o sia Congregazioni […] uno sotto il titolo della Vergine Addolorata, e l’altro sotto il titolo delle Anime del Purgatorio”.

Quindi, sul finire del XVII secolo, i confratelli usavano riunirsi in quei locali dove successivamente (1710) sorse la chiesa dell’Addolorata, mentre solo nel 1711 fu aggregata all’Ordine dei Servi di Maria, con bolla datata da Parma e firmata nell’agosto di quello stesso anno da fr. Giovanni Bertazzoli, Generale dell’Ordine. Il fondatore della confraternita fu il canonico don Nino Scalfo, che divenne il primo Padre Spirituale, mentre ottenne il riconoscimento giuridico soltanto il 16 ottobre 1776, con Regio Assenso firmato dal re Ferdinando IV di Borbone, dopo che nel 1759 era per sciogliersi dietro gli ordini perentori del regno di Napoli che richiedeva la compilazione degli statuti e atti di aggregazione. Nel 1963, con atto del Capo dello Stato, la chiesa fu elevata ad Ente Morale e nel 1966 si ebbe l’elevazione al titolo di arciconfraternita, con decreto del Segretario di Stato Vaticano, card. Cicognani, firmato il 1° marzo, quando Rettore era il molto rev.do mons. Mario Rossetti.

La storia delle confraternite affonda le radici in pieno Medioevo, ad opera degli ordini mendicanti, soprattutto francescani e domenicani, che esercitavano un’enorme influenza sul laicato e sulla vita religiosa delle masse, proprio attraverso l’organizzazione di gruppi di penitenti, di confraternite e di congregazioni pie (Miccoli G., L’Italia religiosa, in Storia d’Italia, collana de Il Sole 24 Ore, Giulio Einaudi Editore, Torino, pag. 793 e ss.). L’origine dell’Ordine dei Servi di Maria, cui la nostra confraternita fa parte oramai da tre secoli, è riportata nel testo del documento di aggregazione, raccontando dell’apparizione della Madonna, nella sera del venerdì santo del 1240, ai Fondatori dell’Ordine stesso, in una grotta del Monte Senario, vestita con abito nero e “col volto emaciato dal dolore”, a ricordo dei dolori che Ella patì per la crudele morte in croce del Suo Figlio Unigenito. A Galatina, la devozione verso la Madre Desolata e il Suo Figlio Morto è vissuta ancora in maniera silenziosa e pacata, con la folla muta al passare delle statue nella mattina del sabato santo, senza quelle manifestazioni esteriori, figlie di una tradizione di folklore e di puro richiamo turistico, piuttosto che atti di vera fede.

Tra i doveri dei consociati al Pio Sodalizio della Beata Vergine Maria Dei Sette Dolori, vi è quello di prendere parte alle solenni funzioni religiose che si tengono durante il Solenne Settenario in Onore alla Madonna, all’ora di adorazione eucaristica il giovedì santo, alla partecipazione nella Via Crucis cittadina della sera del venerdì santo e alla processione della mattina del sabato santo con le statue del Cristo Morto e della Desolata. Obbligatoria, perché sancito dalla Chiesa, la partecipazione alle processioni del Corpus Domini e dei Santi Patroni, Pietro e Paolo. L’abito maschile consiste in un sacco di colore nero, portando nei lombi una fascia di colore rosso, mentre sul capo va un cappuccio che lascia libero il volto, fermato da una corona di spine. Sul petto una placca cromata raffigurante un cuore trafitto da una spada. Le consorelle indossano un abito nero con uno scapolare nero da cui pende una placchetta cromata, sullo stile di quella usata dai confratelli. La caratteristica distintiva dell’abito è il richiamo alla meditazione della Passione del Cristo e dei dolori della Madonna.

L’arciconfraternita si prende cura anche dei confratelli e consorelle defunti presso la cappella cimiteriale, dove riposano anche le spoglie mortali del canonico don Antonio Albanese, molto caro alla confraternita. L’attuale amministrazione è affidata al Priore, Biagio Buccella, coadiuvato dal Primo Assistente, Donato Buccella e dal Secondo Assistente Michele Forte. Questi hanno nominato come Cassiere Gaetano Valente, figura storica della confraternita fin dal 1943, come Segretario Luca Trono e Maestro dei Novizi Donato Lattarulo e Laura Tundo, coinvolgendo, in tal modo, anche le donne nella gestione della vita amministrativa confraternale.

La vita di questa congregazione è scandita dal verbale delle Assemblee, dove sono riportati tutti i fatti dell’associazione, tra i quali meritano una menzione quello della vertenza con la congrega delle Anime del Purgatorio, circa la precedenza nelle processioni e quella riguardante il ripristino dell’uso della musica durante le processioni, dopo una prima abolizione, perché “si è veduto, con replicate esperienze, che a’ giorni nostri è un’occasione funesta di scandali, ed irriverenze; perché la melodia musicale, e vocale in vece di far l’effetto di sopra espresso (cioè di destare maggiore devozione) non fa altro che eccitare una vana curiosità, ed una dilettazione del tutto mondana”.

Quest’anno nella chiesa dell’Addolorata si contemplano i Dolori della Madonna a partire da giovedì 7 aprile, con un solette Settenario, per concludersi venerdì 15 aprile con la festa in onore alla Beata Vergine Maria dei Sette Dolori, con una solenne celebrazione eucaristica alla presenza di S.E. mons. Arcivescovo di Otranto Donato Negro, che accoglierà i nuovi confratelli e consorelle nel Pio Sodalizio. La meditazione sulla Passione del Cristo proseguirà nei giorni della settimana santa con la Pia Pratica meditata della Via Crucis, che si svolgerà dopo la tradizionale “chiamata della Madonna”, in chiesa madre dalle ore 20.30 del venerdì santo. Il mattino seguente, alle ore 6.00, si terrà la tradizionale processione cittadina del Cristo Morto e della Desolata, con l’intervento del clero e di tutte le autorità civili e militari. Al rientro, mons. Aldo Santoro, parroco della chiesa madre e Rettore pro-tempore, data la perdurante indisponibilità di mons. Antonio Antonaci, dopo un breve pensiero, impartirà a tutta la cittadinanza la benedizione con gli auguri pasquali.

                                                                                                                Tommaso Manzillo

 
 
 

UNA CRITICA ALL’HOMO OECONOMICUS

Post n°25 pubblicato il 30 Marzo 2011 da tommaso.mt

Nel corso di questa, oramai, lunga crisi economica e finanziaria che sta ancora attagliando i Paesi Occidentali, oggi resa più acuta dall’inflazione energetica, si sono susseguite diverse analisi introspettive del sistema economico, mettendo sul banco degli imputati il libero mercato e la libera concorrenza, come terreno fertile di nuovi scenari apocalittici. Molto spesso, però, ci si dimentica che il protagonista di ogni situazione in ogni tempo è l’homo oeconomicus. Adam Smith, ne La Ricchezza delle nazioni, metteva a confronto gli animali, in grado da soli di procacciarsi quanto basta per vivere e l’uomo, che aveva obbligatoriamente bisogno degli altri suoi simili nel soddisfare le proprie necessità. Da questa osservazione il pensatore scozzese riteneva che tutto il sistema economico fosse spinto soprattutto dalle inclinazioni egoistiche dell’attore principale, dalla sua necessità di dare risposte concrete ai propri bisogni. L’egoismo dell’homo oeconomicus  ha poi generato un sistema sociale e civile basato sulla libertà dell’iniziativa economica, i cui principi riposano sul libero mercato e sulla libera concorrenza, che sarebbero stati la strada segnata verso sentieri di crescita e di progresso per tutti i popoli.  

Per il suo essere debole, con sempre nuovi e più pressanti bisogni da soddisfare, che lo accomuna a tutti gli altri suoi simili nella lotta per la sopravvivenza, secondo Thomas Hobbes, l’uomo vive in uno stato di “guerra continua” contro l’altro, negando l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il suo simile. Pertanto, continua lo stesso Hobbes, non è la benevolenza dell’altro l’origine delle più grandi e durature società, bensì il timore reciproco, che deriva dall’uguaglianza di natura tra gli uomini, per la quale tutti sono condotti a desiderare la stessa cosa, cioè l’uso esclusivo dei beni comuni, come se ognuno avesse diritto su tutto, compresa la vita altrui.

Questa condizione non può realizzarsi in modo stabile, giacché porterebbe verso la distruzione totale del genere umano. Pertanto, sono le norme fondamentali del diritto naturale a sottrarre l’uomo al gioco spontaneo e autodistruttivo degli istinti e a imporsi una disciplina che gli procuri la possibilità di dedicarsi ad attività che rendono agevole la sua vita. Spinoza, a differenza di Hobbes, mette al centro della vita associata l’uomo libero, che liberamente si conforma alle sue leggi. In parole più semplici, se gli uomini non possono provvedere da sé ai propri bisogni senza l’aiuto reciproco, questo dovrebbe convincere gli esseri umani a cercare di vivere di comune accordo, perché associandosi accresce la loro potenza. Secondo questi illustri pensatori del Seicento, tra i quali va anche ricordato Pascal e il suo “spirito di finezza” che viene dal cuore, l’attività dello stato come quella dell’uomo singolo dovrebbero fondarsi sui precetti della ragione, perché in grado di garantire la conservazione del genere umano, invece di affidarsi agli istinti egoistici e autodistruttivi.

Un passo avanti nella storia del pensiero economico viene da Karl Paul Polanyi, filosofo, economista e antropologo, il quale riteneva che l’economia fosse embedded, cioè integrata, radicata all’interno della società in tre forme: la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio di mercato. In tal modo Polanyi contrappone all’arida logica dello scambio di mercato avulsa dalle relazioni sociali, un sentiero della distribuzione di beni basata sulla reciprocità e sull’aspettativa di ricevere altri beni in determinate circostanze stabilite. Quell’essere debole e bisognevole, che è l’uomo, spinto dal desiderio di soddisfare i propri bisogni, deve relazionarsi con gli altri suoi simili, “ha bisogno” degli altri per dare appagamento alle proprie necessità: in questo, è l’egoismo umano a portarlo fuori dal proprio isolamento per relazionarsi con gli altri e dare risposte concrete alle sue esigenze.

Quante volte l’homo oeconomicus ha seguito la propria ragione nelle scelte di politica economica, preferendo le relazioni sociali alla propria chiusura egoistica? Molti pensatori hanno messo alla gogna il libero sistema di mercato, come  causa principale dell’attuale periodo di crisi, facendo di dimenticare che tale organizzazione economica, incentrata sulla libertà d’impresa, è stata il lasciapassare verso nuovi sentieri di crescita e di benessere per tutti coloro che hanno adottato tale modello di pensiero. Forse, occorrerebbe focalizzare l’attenzione sull’homo oeconomicus, che molto spesso si è spinto ben oltre quelli che sono i limiti della ragione umana, mostrando quel carattere smithiano dell’uomo egoistico, dimenticando la propria natura di debolezza, che lo porta giocoforza a cercare l’aiuto altrui.

Certamente, a complicare il già pesante quadro generale è anche la situazione di deficit dei conti pubblici che ingessano l’intera struttura produttiva, priva ancora di quella vera riforma liberale che l’homo oeconomicus sta ancora aspettando, quel cambiamento della mentalità politica che porti il sistema produttivo verso migliori sentieri di crescita, con importanti benefici in ambito sociale e civile. Anche quest’anno potrebbe persistere uno stato di forte difficoltà, secondo gli analisti del settore, fino a quando l’homo oeconomicus del III Millennio non ritornerà a porre maggiore attenzione alla ragione umana, agendo sulla spinta delle relazioni sociali e sugli insegnamenti della Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009) dell’attuale Pontefice, piuttosto che ai propri istinti egoistici, tipici di un essere “pigliatutto”.                                          

Tommaso Manzillo

 
 
 

“SIAMO IL CERVELLO DELLE MASSE”

Post n°24 pubblicato il 16 Febbraio 2011 da tommaso.mt

Il contributo che qui vorrei proporre è la testimonianza di un’amicizia profonda e sincera tra due autorevoli personalità salentine, che fino alla fine hanno combattuto contro le tante problematiche del Mezzogiorno, all’indomani dell’Unità d’Italia. Fu una vera “fratellanza”, come avrebbe detto Antonaci (1999, pag. 707), nell’intento comune di dare onore alla vitalità del Sud, in termini di idee e di propositi, per “agganciare”, politicamente, economicamente, culturalmente e socialmente la nostra regione al resto d’Italia: sono battaglie ancora vive e presenti ai giorni nostri, ma non saprei dire se, chi vuole incarnare oggi questi ideali, sia degno di essere, se non paragonato, almeno animato dallo stesso spirito politico dei due coetanei Antonio Vallone e di Antonio De Viti De Marco. Quest’ultimo tenne, il 19 aprile 1925, un pubblico discorso di commiato per l’amico di una lunga vita politica, da poco scomparso (7 febbraio dello stesso anno), in occasione dell’inaugurazione della lapide in sua memoria apposta nella sede del Liceo-ginnasio “Pietro Colonna”.

Vallone-De Viti De Marco era un binomio inscindibile nella vita politica nazionale e meridionalista, un’amicizia nata forse ancor prima di quella riunione che si tenne a Casamassella tra Vito Fazzi, lo stesso Vallone e il fratello di Antonio dello scienziato delle finanze, quando fu deciso che il nostro concittadino avrebbe dovuto affrontare la battaglia contro il comune avversario del collegio di Maglie. Da allora ci fu una vera e profonda amicizia tra Vallone e De Viti De Marco, come riporta il discorso del professore universitario, tanto che nelle elezioni del 1919 si trovarono insieme in una lista di “blocco”, dopo forti pressioni da parte di Alfredo Codacci-Pisanelli, contro “la violenza del bolscevismo ammantato di socialismo”. Purtroppo, Giolitti pose un veto al pericoloso repubblicano Vallone, che fu costretto ad abbandonare la lista e, con lui, per spirito di solidarietà, lo stesso De Viti De Marco. Successivamente, fu Giolitti ad invitare il nostro concittadino a far parte del Governo di Sua Maestà con la carica di Sottosegretario ai Lavori Pubblici. Questo creò grande imbarazzo per Antonio Vallone, tanto da coinvolgere l’amico di Casamassella. La questione era se accettare l’incarico per il bene della nostra terra a scapito della propria coerenza politica, che non poteva accettare un repubblicano onesto nel Governo di Sua Maestà: quale migliore occasione per il Sud di dotarsi delle migliori infrastrutture per la sua economia e la sua crescita, ma alla fine vinse la coerenza politica di Vallone, che lo ha sempre visto avversario del Giolitti e delle sue logiche politiche manipolatrici. De Viti De Marco rispose all’amico: “ Se deciderai di accettare, noi tutti te ne saremo grati nell’interesse della nostra Regione; ed io prendo l’impegno di ripeterti questi ragionamenti e di spiegare la tua condotta in un pubblico scritto o discorso”. Il giorno dopo Vallone comunicò all’amico che avrebbe rifiutato l’incarico, con grande gioia per De Viti De Marco per aver tenuto fede alla sua straordinaria coerenza di pensiero. Antonaci riferisce, a pag. 709 di Galatina Storia & Arte (1999), che Vallone andò alla Camera nelle elezioni del 1919, con de Viti de Marco e Codacci-Pisanelli.

Amarono profondamente il Mezzogiorno, pur non essendo affetti da meridionalismo bensì desiderosi che la nostra terra salisse al livello delle altre più evolute parti d’Italia. Per questo Vallone era uno strenuo difensore della libertà economica, lottando contro ogni forma di protezionismo che penalizzi l’agricoltura del Mezzogiorno a vantaggio delle industrie del Nord e della burocrazia parassitaria dello Stato, intesa come fonte di spreco del denaro dei contribuenti meridionali. In questo Vallone trovò un valido sostenitore in Antonio De Viti De Marco, incarnando perfettamente l’ideale della “Grande Italia”, forte di una più ampia libertà economica e politica, per tutte le attività industriali e per tutte le regioni.

Oltre all’amore per la politica e per la libertà, ebbe un’altra grande passione, ossia quella per la cultura. Da ingegnere e dottore in fisica, Vallone amava inaugurare scuole, dotando la nostra città “di tutte le scuole atte a diffondere la istruzione professionale tecnica e classica in tutti gli strati della popolazione”, fino alla regificazione del Liceo-Ginnasio. In questo Vallone contribuisce all’elevamento della nostra città, definita da De Viti De Marco “un’oasi di cultura e di progresso economico in tutta la provincia”.

Ma c’erano delle distanze tra i due amici, dato che il repubblicano Vallone era un anticonservatore, o meglio un laburista, come dice Antonaci, mentre De Viti De Marco era un convinto radicale liberista. Ci fu una questione che li vide contrari: il destino dell’Acquedotto Antico, società inadempiente, che Vallone voleva statalizzare, mentre De Viti De Marco sosteneva la necessità di sostituire la società inadempiente con altra, forte di capitali e nel guadagno dell’esercizio. Il tutto finì con l’istituzione di un Consorzio, la cui presidenza spettava alla Provincia di Lecce, che aveva acquisito il diritto di preferenza. De Viti De Marco tanto insistette per persuadere gli on. Nitti e Grassi a fermarsi sul nome del nostro Antonio Vallone, ma questi uomini avevano già deciso “di fare dell’Acquedotto un mercato elettorale con la deputazione e con la città di Bari. L’intrigo parlamentare eliminava ancora una volta un galantuomo e un competente”.

Dal discorso dello scienziato delle finanze si alza un monito a tutti i cittadini galatinesi e alla politica di oggi, che prenda esempio dall’intensa attività di Antonio Vallone per il bene di Galatina e del Mezzogiorno, caratterizzata dalla coerenza politica, dall’amore per la propria terra e per i propri ideali, difesi in ogni istante contro i soprusi provenienti da interessi personali. Certamente erano anni intensi, caratterizzati da cruenti battaglie per la libertà del pensiero economico e politico, incarnate perfettamente dai nostri illustri conterranei. Il Sud ha sempre offerto valide personalità nel panorama nazionale, com’è ancora oggi, senza scordare gli straordinari esempi di queste due figure che qui ho presentato, testimonianza vera e sincera di una comunanza di interessi per amore della propria terra, andando oltre ogni tipo di bandiera politica. Un vero esempio per la politica di oggi e per chi è in cerca di un modello cui fare riferimento. Come affermò De Viti De Marco in quel giorno, “noi siamo qui le assise della parte più ristretta e intellettuale, siamo il cervello, non il sentimento delle masse popolari. Non siamo qui per redigere l’atto di morte; ma per decretare che Antonio Vallone è degno della posterità; e per redigere l’atto di nascita della nuova vita morale e politica”.

Cittadini, siate fieri del vostro concittadino!”                            

Tommaso Manzillo

 

De Viti De Marco A., Mezzogiorno e democrazia liberale. Antologia degli scritti, a cura di A. L. Denitto, Palomar, Bari, 2008, pag. 423 e ss, brano concesso alla curatrice del libro dal prof. Giancarlo Vallone. Il testo del discorso fu pubblicato a Galatina, nello stesso anno, da Marra & Lanzi, con una prefazione dell’allora preside del Liceo-ginnasio “Pietro Colonna”, Giacomo Candido.

 
 
 

IL LAVORO COME EXIT STRATEGY DALLA CRISI

Post n°23 pubblicato il 27 Gennaio 2011 da tommaso.mt

La generosa remunerazione del lavoro, quindi, com’è l’effetto della crescente ricchezza, così è la causa della crescente popolazione. Lamentarsene è lamentarsi dell’effetto e della causa necessaria della massima prosperità pubblica”, perché “non è la grandezza effettiva della ricchezza nazionale, ma il suo continuo incremento, a determinare l’aumento dei salari “ (Smith A., La Ricchezza delle Nazioni, dalla collana “I grandi classici dell’economia”, edizione Il Sole 24 Ore, 2010, pag. 158  ss.). Le parole del padre del pensiero economico non hanno bisogno di commento, ma assumono un significato importante nel quadro politico ed economico attuale, dove i veri temi del dibattito sono stati sbalzati fuori dalle finestre dei palazzi istituzionali, per far posto a gossip, a racconti erotici dei nostri rappresentanti politici e delle loro notti brave sotto le lenzuola. Il tema del lavoro, ora come ora, inserito nell’attuale congiuntura, dovrebbe diventare il tema centrale dei dibattiti e dei provvedimenti governativi. Lo ricorda anche papa Giovanni Paolo II nella Enciclica Centesimus Annus (scritta nel 1991, in occasione del centesimo anniversario dalla Rerum Novarum di Leone XIII), quando afferma che “il lavoro appartiene così alla vocazione di ogni persona; l'uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro”. “Il lavoro ha una dimensione «sociale» per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, «poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai quello che produce la ricchezza degli Stati»”. È un classico ingrediente che, nel complesso delle politiche sociali, conduce il sistema economico verso la crescita e il progresso, non solo economico, ma conseguentemente anche sociale.

Karl Menger, padre fondatore della scuola utilitarista austriaca affermava nei suoi “Principi di Economia Politica”, che il lavoro è “un oggetto dell’economia, un bene come tutti gli altri” nel senso che, insieme alla produzione “sono mezzi e non atti dell’economia soggettiva e quindi si devono tenere ben distinti dall’attività organizzativa  che conduce i beni verso il loro fine, cioè l’assicurazione del fabbisogno” (Menger K., Principi di Economia Politica, dalla collana “I grandi classici del pensiero economico”, edizione Il Sole 24 Ore, 2010, pag. 145). Luigi Einaudi, Governatore della Banca d’Italia e Presidente della Repubblica, da liberale puro, fu un grande sostenitore del rapporto tra la teoria economica e la legislazione sociale, soprattutto perché “il sistema economico di mercato è uno strumento che conduce a un equilibrio efficiente data un’iniziale distribuzione delle risorse. Se tale distribuzione non soddisfa determinati criteri di giustizia sociale, allora si apre lo spazio per l’intervento statale, per le politiche sociali, appunto” (Baffigi A., Luigi Einaudi: teoria economica e legislazione sociale nel testo delle “Lezioni”, in Quaderni di Storia Economica della Banca d’Italia, n. 1, settembre 2009, pag. 9). In questo senso, il maestro del pensiero economico liberale e liberista italiano ammette i possibili fallimenti del meccanismo del libero mercato, là dove non porta verso sentieri di crescita duraturi per l’intera collettività, pur rimanendo uno strenuo difensore del liberalismo, elevandolo a suo ideale di vita e visione del mondo. La centralità del pensiero einaudiano scaturisce dall’assunto che se la realtà economica fosse caratterizzata dalla presenza del regime della libera concorrenze perfetta, dove i prezzi di vendita sono uguali ai costi marginali, ognuno sarebbe remunerato secondo i propri meriti e non ci sarebbero problemi sociali che implicano l’intervento dello Stato.

Occorre, certamente, restituire al lavoro il primato per la crescita economica, attraverso politiche orientate verso la riduzione del carico fiscale per famiglie e imprese (in Italia, l’incidenza delle imposte dirette sul PIL è superiore al 35%, rispetto alla media europea del 32,5%), soprattutto in Puglia dove l’aliquota IRAP permane su livelli elevati (4,82% contro l’aliquota ordinaria del 3,9%), scontando il forte incremento della spesa sanitaria (Intervento del Presidente di Assonime, Luigi Abete, “Riforma fiscale: un esercizio di valutazione quantitativa”, presentato al Convegno annuale di Assolombarda e Assonime “La manutenzione del sistema fiscale in attesa della sua riforma”, 18 gennaio 2011). Si assiste, purtroppo, a una situazione caratterizzata da un’elevata tassazione del lavoro, contro una “sotto-tassazione” delle rendite finanziarie, ancora ferme al 12,50%. Certamente, l’incremento della ricchezza nazionale, sull’onda del pensiero di Smith, si esprime con l’incremento della prosperità pubblica, e quindi con il lavoro piuttosto che con la rendita e l’accumulazione del capitale: quindi “è tempo di muovere tutte le aliquote sulle cd. Rendite finanziarie verso l’aliquota del 20 percento”. Occorrono serie politiche che vadano nella direzione di premiare quelle iniziative economiche produttrici di benessere, di lavoro e prosperità: cosa purtroppo che manca nel nostro Paese. In questa era anche la visione di Einaudi, come afferma Baffigi nelle conclusioni all’opera citata: “l’ideale liberale verrebbe meno se non si perseguisse l’obiettivo di porre un limite alle posizioni dominanti, alle rendite, alle diseguaglianze ereditate dal passato”, per il perseguimento della libertà liberale.

Per ritornare al pensiero di apertura di questo contributo, non è la rendita lo strumento del benessere, quanto piuttosto l’incremento della ricchezza nazionale che può venire solo e soltanto attraverso quelle politiche che vanno nella direzione della promozione delle condizioni che garantiscano il lavoro, una politica fiscale di vantaggio per il lavoro delle imprese e delle famiglie e una politica sociale nella direzione dell’eguaglianza dei punti partenza, come voleva Einaudi. Se il piano per il Sud non verrà inquinato da pretese individualistiche ed egoistiche, può divenire un volano per la crescita del Sud e per agganciare il treno europeo e mondiale della ripresa.                                                      

Tommaso Manzillo

 
 
 

PREFAZIONE. IL PROTAGONISMO DI GALATINA DAL RISORGIMENTO ALLA COSTITUENTE

Post n°22 pubblicato il 25 Gennaio 2011 da tommaso.mt

Lo scritto che qui presento dei due giovani galatinesi Donato Lattarulo e Tommaso Manzillo, è il frutto di un loro duplice amor patrio: quello per Galatina, e quello per l'Italia. E quest'amore, è del tutto  convergente in unità, senza riserve e residui, e con una nettezza che si propone ad oggetto di riflessione. Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente, vuole infatti dimostrare la presenza di Galatina, e dei galatinesi, nell'intero percorso italiano, prima e dopo l'Unità, nei fermenti risorgimentali e, ad Italia unita, nelle istituzioni nazionali.  Questa presenza, questo esserci di Galatina, è non solo un gesto di orgoglio, ed una determinazione di costanza, e di volerci essere ancora in una 'lotta per la politica' ch'è e dev'essere all'interno della 'unità politica',  come dicono senza mezzi termini  gli autori;  questa esigenza di affacciarsi, come un tempo, al livello alto delle istituzioni, è, oggi più che mai, anche una scelta di campo ideale, più che ideologica, ma addirittura è una scelta di scrittura per un certo tipo di politica, e per un certo sistema di regole della politica da conservare, e da indicare così come s'è formato nella storia. Intendiamoci, il contributo di Galatina alle varie stagioni del Risorgimento, come è, del resto, evidente, in questo stesso scritto, e nelle sue fonti, è tutto sommato notevole per la sua ininterrotta continuità, ma non è dissimile, o superiore, a quello di altre città del Salento. Questo non sorprende, perché nel Risorgimento, e dopo il 1799,  il 'partito italiano' è il partito degli strati medi della popolazione, cioè di quel partito che ha subito e soprattutto compreso, il danno immenso fatto all'Italia meridionale dall'assenza di riformismo degli ultimi Borboni, ed anche dalla indifferenza ottusa al richiamo dell'Illuminismo innovatore, che invoca l'intensificazione delle colture agricole, e l'abolizione del peso feudale sulle campagne, e invoca la stessa riforma nei  rapporti sulla terra, senza spingersi necessariamente alla legge agraria. Genovesi e Palmieri, uno di queste parti,  avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese. Quel che rivela il mondo dei Borboni e spiega la loro fine, non ha a che fare subito con le forche, ma anzitutto con l'incapacità, tante volte dimostrata,  di comprendere il senso di una costituzione liberale. Ci sono personaggi galatinesi che vivono tutto questo, nemmeno tanto tra le righe, come si può ricavare dalle lettere dell'abate Tanza che parla del 1799 e dell'abolizione francese, ad inizio del Decennio, della feudalità, come in queste pagine è ricordato. Ci sono poi altri personaggi liberali di notevole caratura culturale, come lo stesso Baldassar Papadia, o Raimondo Vinella, che fanno parte di questa schiera, anche se certamente altri brillano maggiormente di luce italiana, anzitutto perché brillano di luce propria, come Cavoti nel 1848, e Toma nel 1860, secondo il racconto dei giovani autori. Ed anche come Nicola Vallone o Pietro Siciliani, che tracciano, con la loro vita di intellettuali e professori universitari, e con il loro impegno politico,  il percorso,  in Galatina,  di quel rinnovamento generale delle classi dirigenti che interessa l'intera Italia meridionale, appunto in coincidenza dell'Unità: si tratta poi della prima classe politica del Sud consapevole dei ritardi del Mezzogiorno e intenzionata a fare di questi ritardi un problema politico, appunto perché l'Unità c'è stata. E questo va detto: nello stesso partito liberale unitario dell'età borbonica, che esprimeva alla fine una borghesia agraria socialmente attenta, ma conservatrice,  si inclinava a ritenere il Mezzogiorno un'isola felice d'Europa (così era per Settembrini e De Sanctis) e c'era dunque una pressoché totale ignoranza, e non di rado una   voluta ignoranza   (come negli scritti, oggi,  dei neoborbonici),  delle immense contraddizioni sociali e della miseria contadina e pastorale,  che invece si erano manifestate spesso e sono anzi da ritenere insorgenze da uno stato quasi endemico di povertà  e che saranno poi la prima e fraintesa linfa del cosiddetto fenomeno del brigantaggio.  Dunque la scelta di campo di Lattarulo e Manzillo è anche una scelta di campo  per la tradizione liberale, per una tecnica delle libertà garantite e del progresso sociale. La continuità tra Risorgimento ed Unità, fino alla Costituente, è tale solo su questo fondamento. L' ideologia neoborbonica, può permettersi tanto? Direi di no, perché avanza, quasi inavvertitamente, molto meno e molto peggio che una proposta conservatrice: avanza una proposta reazionaria, in qualche caso spinta miseramente a nostagie aristocratiche, che cade alle spalle non solo delle tre grandi scansioni liberali e democratiche della storia nazionale, ma alle spalle delle grandi scelte di modernità della tradizione occidentale, e  non ha poi  nessun serio argomento da opporre alla illustre idea di Italia, che non è idea di toscani di lombardi o di napoletani, ma di italiani, dato che l'Italia  è una grande costruzione morale della cultura che unifica e precede, di secoli, il fatto politico dell' Unità. Naturalmente storici leghisti -anche insigni- di impasto cattolico (che è, evidentemente, la più tipica miscela antiitaliana), ci assicurano che lo Stato unitario "non corrispondeva ad una nazione", e ce lo dicono con la stessa disinvoltura con la quale scrivono che lo Stato assoluto "è una creazione del pensiero politico cattolico" o con la quale pensano che siano invece 'nazione' due popoli così diversi (di fronte a questo stesso e così povero concetto di 'nazione') come i lombardi e i piemontesi. In questo senso, quello cioè di un concetto serio di nazione, esserci semplicemente stati prima dell'Unità non è per niente esserci stati prima dell'Italia e degli Italiani.  La storiografia neoborbonica, intendo quella che abbia una qualche dignità scientifica, trascina con sé un andamento e un tono patetico, perché la sua legittimazione è povera cosa; perché parla il linguaggio d'un legittimismo tradito e di un popolo scannato, che sono cose diverse e che non fanno 'nazione' o anche solo sistema.  Intanto il legittimismo vagheggia impossibili restaurazioni, e senza poi legittimità nel vagheggiare, dato che i Borboni avevano, sul Mezzogiorno, lo stesso diritto politico degli Austriaci degli Spagnoli degli Angioini  o dei Normanni, cioè un diritto di conquista senza alcun riscontro nella autodeterminazione  delle popolazioni;  e non è certo su di loro che si può delineare un'identità meridionale nemmeno in senso politico, perché in questo senso un'autodeterminazione dei popoli meridionali inizia soltanto con l'Unità e con il loro ingresso nel portale europeo della modernità e cioè del liberalismo, perché se la democrazia è un plebiscito di tutti i giorni, per il Mezzogiorno il primo giorno di democrazia è quello del Plebiscito.   Per il resto, se ci si mette sul piano del dare e dell'avere, che non è il piano della scienza, e se si  ergono i cosiddetti 'briganti' a 'patrioti' e 'martiri', bisognerà pur dare statuto alle migliaia di loro vittime- i 'borghesi' e proprietari massacrati nei tanti paesi delle dorsali appenniniche- e dire quel che si pensa di loro,  dato che hanno eguale diritto alla storia; almeno nel senso che di entrambe queste categorie di caduti deve essere unitariamente ritessuta la storia vera, perché il brigantaggio non è una rivolta politica, e tanto meno 'patriottica',  ma anzitutto una rivolta sociale: la prima evidenza storica delle classi subalterne del Mezzogiorno, così come ridotte da secoli di asservimento feudale e di sfruttamento padronale,  che, o pro o contro,  presuppone necessariamente lo Stato unitario, ed ha un progresso possibile, e certamente visibile,  solo dentro di questo,  così come  presuppone lo Stato unitario la questione meridionale, ch'è oggi anzitutto questione criminale. Irrisolta, naturalmente, ma irrisolvibile in termini di secessione. Questa farebbe del Settentrione una periferia d'Europa, come potrebbero finire per capire gli stessi leghisti, ma cosa sarebbe un Mezzogiorno restaurato su queste, o su altre basi: una monarchia borbonica a trazione mafiosa, o una repubblica ad oligarchia camorristica? Cosa ha fatto mai, da solo, il Mezzogiorno,  da far presagire una sua dimensione europea nel tenore di vita della gente e nel riferimento politico? Se storicamente  lo sviluppo capitalistico dell'Italia settentrionale presuppone la presenza, e il sacrificio,  del Sud, può la questione meridionale non essere una questione unitaria e nazionale? Può trovare fuori dell'unità la sufficiente forza politica per una prospettiva morale, pur nelle generali condizioni morali della classe politica? Non a caso, dunque uno di questi giovani autori ha parlato, in altra occasione, degli 'scarti allarmanti del Mezzogiorno',  ed entrambi, all'unisono, ci dicono che la lotta politica, anche per il Sud, anche per Galatina,  è lotta nell'unità politica,  e non può essere altro.  Io penso come loro.   

Giancarlo Vallone

 
 
 

LA RICOSTRUZIONE POLITICA DI GALATINA NELL’ITALIA UNITA

Post n°21 pubblicato il 24 Gennaio 2011 da tommaso.mt

Il contributo di Galatina alla ricostruzione post-bellica, dopo il secondo conflitto mondiale, doveva venire da ambienti e personalità vicine alla Chiesa, tanto che si andò formando un gruppo di aderenti alla locale sezione della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), grazie all’iniziativa di mons. Antonio Antonaci, per il commento e la lettura sistematica della Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, e fu allora che si iniziò a parlare di movimento della Democrazia Cristiana, sia a Galatina che nel Salento, grazie anche all’intervento dell’avvocato Achille Fedele. “Furono, quelli”, scrive Antonaci in Galatina Storia & Arte (1999), “anni ruggenti di battaglie violente per motivi ideali, di cristallina purezza: che meritavano di essere sostenuti”.

Nelle elezioni del marzo del 1946 era la prima volta che le donne esercitavano il diritto di voto, e da questo momento si può parlare di suffragio universale, allora esercitato con il sistema maggioritario. Si presentarono tre liste: quella dell’Orologio, ispirato da interessi trasformistico-borghesi, quella popolare social-comunista, il cui esponente più illustre era l’avv. Carlo Mauro, e la Democrazia Cristiana, ma la lotta, essenzialmente, era tra le prime due formazioni. È in queste elezioni che si intrecciano e si mettono le basi per le premesse politiche e giuridiche indispensabili per un nuovo periodo costituzionale e istituzionale del popolo italiano.

Il più illustre esponente del movimento della Democrazia Cristiana divenne l’on. Prof. Beniamino De Maria, sotto la pressione dell’arcivescovo del tempo, il cappuccino Cornelio Sebastiano Cuccarollo (Otranto, 1930-1952), assumendo, successivamente, il ruolo di leader, sempre presente sugli scranni parlamentari, dalla Costituente fino al 1976. De Maria, figlio di genitori cattolici, ha sempre mantenuto i contatti con il clero locale, stringendo rapporti con le vecchie classi egemoniche di Galatina, contribuendo a saldare un legame tra il potere cattolico e quello politico in un’idea che lo Stato è soltanto la Chiesa, universale e soprannaturale. Dopo la caduta del regime fascista e gli orrori del comunismo russo, si creò uno spazio vuoto e ignoto, situazioni di confusione e di incertezze, colmate e risanate dal filone cattolico, divenendo protagonista della politica nazionale e locale. Proprio perché spinto da forti e sentiti principi e valori cattolici, respirati negli ambienti vicini e dentro le associazioni cattoliche, De Maria si prodigò per la costruzione del nuovo ospedale “Santa Caterina Novella”, inaugurato nel 1966 alla presenza del presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro.

La diversità delle culture e delle tradizioni presenti nel popolo italiano, figlie di una frammentazione politica centenaria, portano nella Costituente il dibattito sull’organizzazione delle regioni, inteso come decentramento amministrativo, politico e democratico, l’unico in grado di svecchiare totalmente la struttura sociale italiana, mantenendo in sede centrale il rispetto della sovranità popolare, l’unità politica e morale della nazione, secondo i disegni di Antonio Vallone e di Antonio De Viti De Marco. In tema di decentramento federativo, basti pensare che lo statuto della regione Sicilia era già un fatto compiuto davanti alla Costituente del 1946.

L’organizzazione amministrativa dello Stato italiano è ancora al centro delle propagande elettorali e politiche, dopo 150 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, e nonostante il tema sia sempre stato al centro degli interessi di molti, sia nella fase pre-unitaria, ma soprattutto all’indomani del 1861. Lo stesso Antonio De Viti De Marco, professore e scienziato delle finanze, affermava: Accetto l’idea generale del decentramento e delle autonomie locali” nel senso che “il potere centrale si spogli di molte funzioni, specialmente riguardanti la tutela sulle amministrazioni locali, e quindi assicuri a queste una maggiore indipendenza”. Continuando: Dal decentramento, come lo intendo, mi aspetto benefici effetti per queste ragioni in materia di lavori pubblici, che finora sono stati affidati allo Stato, e che invece andrebbero in più larga misura affidati agli enti locali e ai consorzj. […] Ma io non voglio sollevare questa questione per fomentare uno spirito separatista. Tutt’alto, io sono unitario”. Il pensiero di De Viti De Marco è la risposta adeguata alle critiche mosse da più parti contro il federalismo, ritenuto incapace di affrontare le questioni meridionali, divenendo causa dell’innalzamento della spesa locale, oltre che della pressione fiscale. “Noi – che siamo politicamente meno organizzati e quindi meno forti in Parlamento  - troveremo in una forma di decentramento il mezzo di difendere più efficacemente la nostra proprietà”.

Siamo, perciò, chiamati in questo periodo ad un passaggio indispensabile che è il federalismo, comportando una nostra maggiore partecipazione alle scelte amministrative, una decisa presa di coscienza che siamo noi i primi responsabili nella gestione delle nostre risorse, responsabilità che esprimiamo attraverso le preferenze elettorali: sta a noi scegliere, nei vari consessi istituzionali locali, o la persona più conosciuta, che ci garantisce lo “scambio elettorale”, oppure quella più competente per la crescita del nostro territorio, tenendo presente che nel primo caso guadagniamo noi nel breve periodo ma perdiamo tutti nel lungo, nel secondo il vantaggio è strutturale e si rivolge a favore di tutti. 

L’impegno di Galatina per la politica oggi è diverso da quello di ieri. È passata l’era dei Bardoscia, dei Vallone, dei De Maria, dei Finizzi, ma lo spirito unitario e della Costituente, in cui fummo presenti e protagonisti, forse è già storia passata, ed è per questo che abbiamo bisogno di altri Bardoscia, di altri Vallone, di altri De Maria e di altri Finizzi, di persone che lottano per la politica e per il traguardo del benessere comune, attenti alle istanze dei propri elettori e dello sviluppo del proprio territorio. Con questo intervento, vogliamo ricordare il contributo dei nostri giovani per l’indipendenza e l’unità politica, cardini indispensabili nella costruzione della Repubblica e valori fondanti la nostra Costituzione. Di certo, non possiamo sempre vivere di ricordi e di nostalgie dei tempi che furono, ma questa politica ha oggi bisogno di una nuova fase rigeneratrice, di nuovi protagonisti sull’esempio dei nostri concittadini, animatori del Risorgimento e della Resistenza, e guardando a loro si deve creare una stagione politica nuova per meglio affrontare le tematiche e le sfide che stanno emergendo sullo scenario nazionale, sulle quali occorre essere sempre preparati.  Per questo assume un tono particolare il commento del senatore De Giuseppe, rivoltomi la sera della presentazione del libro, quando ha ricordato che questo volume non è il solito piagnisteo del meridionale ottuso, che si lamenta di tutto contro tutti, ma vuole rappresentare una seria presa di coscienza di quello che dovrà essere il nostro avvenire, alla luce delle nuove esigenze dello Stato Unitario: ossia il federalismo, che non è sinonimo di separazione o secessione, ma si interseca perfettamente con lo spirito unitario (vedi gli Stati Uniti federati dell’America). Le paure verso un federalismo rappresentato da un inasprimento fiscale a livello locale, dipendono da come si affronta la gestione della cosa pubblica a livello territoriale e il senso di responsabilità degli uomini politici che oggi si ergono ad interpreti delle esigenze della collettività: su questo, noi, possiamo esprimere le nostre più severe rimostranze!

 

Tommaso Manzillo

 
 
 

LA SITUAZIONE DI GALATINA NELL’ITALIA POST-UNITARIA

Post n°20 pubblicato il 24 Gennaio 2011 da tommaso.mt

Con la battaglia del Volturno e l’ingresso di Garibaldi a Napoli, il re Francesco II fu costretto alla fuga, ma i galatinesi non mostrarono mai grande entusiasmo per questo passaggio reale, perché le radici filo borboniche, nella nostra città, erano ancora molto profonde. Ci volle l’intervento del decurione Nicola Bardoscia, affinché il sindaco, Antonio Dolce, indisse la data degli scrutini il 21 ottobre 1860, presso il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, situato presso la Torre dell’orologio (costruita nel 1861 come simbolo dell’Italia Unita). 

L’amministrazione galatinese aveva faticosamente soffocato le manifestazioni d’entusiasmo dovute alla notizia dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, mentre pochissimi avevano espresso il loro voto, nonostante gli interventi di Nicola Bardoscia, Fedele Albanese (che fu uno dei primi ad entrare, come giornalista, nella  “breccia di Porta Pia” del 20 settembre 1870, insieme a La Marmora) e Innocenzo Calofilippi. Per sconfiggere l’inerzia dei galatinesi, determinante rimane l’intervento del medico Nicola Vallone, per richiamare gli elettori alle urne, mentre bivaccavano in piazza San Pietro. Nicola, figlio più giovane di Donato e morto in giovane età, ebbe una brillante carriera di medico e scienziato, spesso lontano dalla sua città: a Napoli, per conseguire la laurea in medicina; a Vienna, entrò in contatto con gli ambienti accademici e culturali approfondendo gli studi professionali e la ricerca e la sperimentazione in una branca importante della scienza medica, ossia l’anatomia patologica; alla Sorbona di Parigi, dove seguì le lezioni di Claude Bernard, considerato tra i più grandi scienziati del tempo; a Berlino dove subì l’influenza delle idee democratiche del suo maestro e deputato parlamentare Rudolf Virchow, uno dei più autorevoli esponenti dell’anatomia patologica. Nicola Vallone rappresentò un modello di cultura politica e un prestigioso referente nelle relazioni sociali, proiettando la famiglia nella politica attiva, grazie anche al forte influsso che subiva dall’ambiente liberale galatinese, nel quale erano influenti le figure di  Pietro Cavoti, Berardino Papadia, Giustiniano Gorgoni e Rosario Siciliani. Ritornando al 21 ottobre 1860, Il voto si esprimeva con l’uso dei legumi, dato l’alto tasso di analfabetizzazione: le fave erano per i sì, mentre i fagioli per il no. Il responso fu di 1257 sì, più 1253 voti favorevoli espressi dai forestieri che stavano a Galatina per il mercato.

Dopo la proclamazione del regno d’Italia (17 marzo 1861), la carta fondamentale o Statuto cui fare riferimento era quello Albertino, varato e concesso al popolo in fretta e in furia nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, il quale rimase in vigore, seppur con opportune modifiche, fino al 1946, quando fu adottato un regime costituzionale provvisorio, in attesa della prima vera Costituzione del 1948. Così, partì la nuova macchina amministrativa italiana, con la nuova fisionomia dei governi comunali, dove, abolito il decurionato, si insediarono i primi consigli comunali e la giunta. Galatina all’epoca aveva una popolazione di poco inferiore ai 10.000 abitanti e, pertanto, il sindaco veniva eletto dai consiglieri comunali, scelta prima affidata a nomina regia. Antonio Dolce fu l’ultimo sindaco di nomina borbonica e il primo di “nomina italianissima”. L’amministrazione galatinese si costituì sulla base di vecchi baronati di discendenza borbonica, esprimendo una forte resistenza all’apertura verso ogni forma di intervento sul territorio e nel sociale.

Le prime elezioni comunali si svolsero il 26 maggio 1861, mentre Nicola Bardoscia divenne il primo deputato galatinese nelle elezioni del 1880, riconfermato poi nel 1882, battendo lo stesso Pietro Siciliani, contribuendo alla diffusione della coscienza democratica della sua gente. Grazie all’avv. Bardoscia, si realizzano opere quali la rete ferroviaria, in particolare il tronco di strada ferrata Zollino-Galatina-Gallipoli, soluzione osteggiata dal Depretis che pretendeva un collegamento diretto tra il capoluogo e il porto salentino, mezzo indispensabile per lo sviluppo non solo economico di Galatina, ma anche per la creazione di un tessuto sociale fatto di scambi culturali e di rapporti tra zone geografiche distanti. Proprio dalla questione della realizzazione della strada ferrata, si creò un ceto dirigente galatinese tutto collocato nell’area di sinistra, grazie al binomio Bardoscia-Viva, chiudendo la Destra di fronte ad una Sinistra aperta socialmente, guidata da Luigi e Pietro Vallone, insieme a Giuseppe Siciliani, Pasquale Micheli, Celestino Galluccio, Raffaele Papadia e Antonio Romano.

 Esponenti di spicco della politica galatinese post-risorgimentale e post-unitaria furono l’ingegnere Antonio Vallone e l’avvocato penalista Carlo Mauro, che contribuirono in modo significativo a quella sterzata nella mentalità tra il ceto medio e la classe operaia, per un recupero globale della condizione sociale locale. L’ingegnere Vallone prese il posto dell’avvocato Nicola Bardoscia, andando alla Camera dei Deputati nel 1900, unico pugliese nelle fila dei repubblicani, battendo il suo avversario magliese De Donno, mentre l’avvocato Mauro prese in eredità quella fascia dei seguaci di Paolo Vernaleone (1859 – 1902), appartenenti alla classe contadina e operaia, il primo vero socialista galatinese. Vernaleone, più che discutere di ideologie o strategie politiche, preferiva occuparsi principalmente dell’aspetto sindacale dei lavoratori e del mondo operaio, tanto che rifiutò la candidatura alle elezioni politiche del 1897, nel collegio di Maglie-Galatina. Di lui oggi si ricorda soltanto con l’intitolazione di una strada nel rione Nachi.

 In Antonio Vallone e nel suo repubblicanesimo sono incarnate le tematiche e le istanze della questione meridionale, come l’ordinamento regionale, la revisione tributaria e la lotta contro il protezionismo e il monopolismo. In questo modo assunse in Puglia una posizione di primo piano, “distinguendosi in una valida tradizione di cultura laica e democratica di origine e formazione meridionale” (Virgilio G., “Memorie di Galatina”, editore M. Congedo, Galatina, 1998, pag. 13). Grazie all’intervento dell’ingegnere Vallone e del fratello dott. Vito, si deve la soluzione positiva ai tremendi fatti del giorno di “Cristo Risorto” del 1903, quando alla popolazione affamata, a causa di un inverno rigido caratterizzato da scarso lavoro, fu negato dal sindaco Mario Micheli, il sussidio giornaliero. L’ingegnere Vallone si impegnò sempre attivamente per le cause del Sud, soprattutto con i suoi interventi alla Camera contro la crisi vinicola del 1906, la concorrenza della Spagna nella produzione dell’olio e contro lo strapotere commerciale del Nord favoreggiato proprio dal Giolitti.

Carlo Mauro si dedica prevalentemente all’azione e all’organizzazione sindacale più che alla pura militanza politica, si pone alla testa delle lotte per l’emancipazione sociale di tutti i lavoratori, in particolare chimici, pellettieri, barbieri, e ferrovieri, tentando invano, attraverso l’alleanza con il repubblicano Vallone, un’integrazione dei nuclei familiari medi e piccolo-borghesi rurali e cittadini, ma la nascita di quell’aggregazione politica che va sotto il nome di fascisti di don Vito (il riferimento è al fratello dell’ingegnere Vallone), provoca il fallimento della politica di Carlo Mauro e l’isolamento di tutta la sinistra galatinese. Nel periodo fascista rappresentò nel Salento l’intransigenza più assoluta contro la dittatura e la sua testimonianza di libertà gli procurò innumerevoli arresti, minacce e vessazioni. Partecipò, quale Consultore Nazionale (Commissione per la Ricostruzione) e Alto Commissario per l’epurazione fascista in Puglia, alla preparazione delle elezioni per l’assemblea costituente. Candidato alle politiche del 2 giugno 1946, morì a Galatina il 12 dello stesso mese, subito dopo la proclamazione di quella Repubblica che aveva sognato sin dai lontani anni del Liceo.

Tommaso Manzillo

 
 
 

LO SPIRITO UNITARIO A GALATINA TRA IL 1799 E il 1848

Post n°19 pubblicato il 24 Gennaio 2011 da tommaso.mt

Il 17 marzo di quest’anno ricorre il 150mo dalla nascita del Regno d’Italia, proclamato dal re Vittorio Emanuele II di Savoia, grazie all’intesa opera diplomatica svolta da Camillo Benso conte di Cavour e alla impresa dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Mentre fervono i preparativi in tutta Italia per l’importante traguardo raggiunto (tra l’altro il 17 marzo 2011 sarà festa nazionale, onorata con il riposo dal lavoro e dalla scuola), anche Galatina ha ricordato l’evento nella serata del 4 dicembre 2010, presso la sala Fede e Cultura “Mons. Gaetano Pollio”), con la presentazione e distribuzione gratuita del libro di Tommaso Manzillo e Donato Lattarulo, “Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente”, con prefazione del prof. Giancarlo Vallone, presente alla serata, insieme al sindaco, dott. Giancarlo Coluccia, al senatore Giorgio De Giuseppe, all’onorevole Ugo Lisi e alle altre personalità istituzionali locali, tutti coinvolti in un appassionante dibattito, moderato dal dott. Rossano Marra, ricordato da quel pugno duro battuto sul tavolo dallo stesso senatore De Giuseppe, segno evidente della carica ideale del suo pensiero.

Il processo di unificazione italiana ebbe un forte impulso con la nascita della Repubblica Partenopea del 1799 (22 gennaio – 13 giugno), figlia, a sua volta, della grandi rivoluzioni europee, prima fra tutte quella francese con la diffusione degli ideali della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità e la decapitazione della sorella della regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, ossia Maria Antonietta. Di questa prima esperienza rivoluzionaria e libertaria, che fu rappresentata dalla Repubblica Partenopea, il nostro Gioacchino Toma ci ha lasciato due stupende raffigurazioni di Luisa Sanfelice, figlia di un generale borbonico di origine spagnolo, decapitata nel settembre del 1800 per aver smascherato la congiura dei Baccher, dopo aver diverse volte rimandato la sua esecuzione perché ella riteneva di essere incinta. Per questo il nostro Toma la raffigura nella sua cella intenta a preparare il corredino per un bimbo che non nascerà mai. Una di queste tele trovasi presso il museo Capodimonte a Napoli, mentre la seconda presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. Come alcuni studiosi hanno sottolineato, la grandezza del Toma si esprime proprio attraverso la sua straordinaria capacità di ridurre all’essenziale un episodio ricco di profondi sentimenti e di tragiche situazioni. Gioacchino Toma è ancora ricordato a Napoli come il “Grande Toma”, come ho piacevolmente notato la scorsa estate, e fu coinvolto anch’egli nelle lotte rivoluzionarie del 1860, quando si aggregò alla Legione del Matese con il grado di sottotenente, partecipando all’assalto di Benevento “che prendemmo piegando poi su Padula”. Da questa esperienza trasse l’ispirazione per alcuni dipinti patriottici quali O Roma o morte del 1863.

Gli effetti della Rivoluzione napoletana si ebbero anche a Galatina quando il sindaco, Donato Vernaleone, fece issare nel febbraio del 1799 l’albero della Libertà in piazza San Pietro, segno dei tempi che stavano mutando. Difatti, l’arrivo dei napoleonidi e la legge di eversione della feudalità, determinò a Galatina, tra l’altro, anche la soppressione del microcosmo feudale cateriniano, risalente al 1384 e arricchito dalle successive donazioni ricevute. L’abate Antonio Tanza (Galatina, 1740 – Galatina, 1811) fu tra coloro che accolsero con favore la riforma del 1806, divenendo una delle voci salentine più autorevoli del momento. È in questo periodo che prendono forma le società segrete, che nascono per il desiderio di indipendenza e di una modesta forma di liberalismo, che si esprimeva nell’esigenza di un costituzione come strumento di difesa contro gli arbitrii del dispotismo e la tirannide. Queste associazioni si svilupparono anche nella nostra città, dove si riunivano periodicamente presso la masseria della Torre, in agro di Soleto, sulla via che porta verso Corigliano d’Otranto, soprattutto durante le giornate delle fiere o dei mercati, quando a Galatina vi giungevano in tanti, provenienti dai paesi vicini, ed era più facile nascondersi tra la folla. Le loro riunioni si svolgevano persino nelle chiese, come il 13 giugno 1816, giorno del Corpus Domini, nei locali della sagrestia della chiesa della Grazia (o del Collegio), in cui i Domenicani furono cacciati anni prima a causa della soppressione degli ordini religiosi, e con la connivenza di un certo clero, vicino alle posizioni liberali. Di questi moti carbonari è ricordata dalla storia la vendita dei “Novelli Bruti”, cui era affiliato persino il nostro Orazio Congedo, uno dei primi liberali che emergono nel nostro risorgimento cittadino. Congedo studiò presso le Scuole Pie di Campi Salentina, e conseguì la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Napoli, mentre esercitò a Galatina la sua professione, proprio nel periodo dell’affrancamento della feudalità con l’applicazione delle nuove leggi sulla proprietà terriera, dedicandosi gratuitamente alla difesa dei suoi concittadini che trovarono difficoltà nell’affrancare le loro terre dai vincoli feudali. Insieme ad Orazio Congedo occorre ricordare la figura di Innocenzo Calofilippi, laureato in lettere e filosofia, e poi anche in giurisprudenza, fervente mazziniano, fondò a Galatina una “curia” della “Giovane Italia”, le cui riunioni si svolgevano nella sua abitazione, in piazza San Pietro, per la lettura e il commento dei testi classici del Settembrini, del Manzoni e tutti quegli scritti che esaltavano gli ideali di Mazzini della libertà e della patria.

La dominazione francese e i suoi proclami avevano provocato nel tessuto sociale del meridione profondi cambiamenti, i cui effetti si sono esplicati soprattutto nel Quarantotto, l’anno del grande entusiasmo con i suoi protagonisti più attivi, tra i quali va ricordato Pietro Cavoti. Dopo aver frequentato le scuole dei Gesuiti di Lecce, curò le illustrazioni della “Storia dell’Italia antica” per il suo amico Atto Vannucci, ricoprendo anche l’incarico di Presidente della Commissione Conservativa dei Beni di Terra d’Otranto e di Ispettore dei monumenti, affidatigli da Sigismondo Castromediano. Al Cavoti si deve, inoltre, l’elevazione della basilica minore di Santa Caterina d’Alessandria al titolo di monumento nazionale dal 1886. Di animo più romantico e passionale, con una fantasia accesa e dalle tendenze contraddittorie, divenne segretario del Circolo patriottico provinciale di Lecce, e svolse un lavoro penetrante, silenzioso, in tutti gli strati della popolazione galatinese. Lo stesso amico Cosimo De Giorgi, nei suoi “Bozzetti di viaggio”, ebbe a sottolineare il carattere nervoso e a volte scorbutico del nostro artista, definito dallo stesso De Giorgi una “torpedine elettrica”. La notizia della Costituzione del 1848, concessa dal re di Napoli al popolo, giunse in città grazie al cocchiere delle poste, Domenico Trani, uomo cui si affidava il Cavoti per mandare le notizie da Lecce a Galatina. Entrò trionfalmente dalla porta delle beccherie, la porta principale sita in piazza San Pietro, dove nelle vicinanze vi era il venditore delle vuccerie, con la coccarda tricolore impettita e gesticolando portava la lieta notizia della Costituzione. L’entusiasmo si esaurì nei giorni seguenti, quando il re sciolse il Parlamento, provocando violente reazioni nella capitale del Regno, coinvolgendo un altro nostro concittadino, un tal Giovanni Sambati, studente di Veterinaria, rinchiuso in carcere a Castelnuovo, insieme al Settembrini. Il ’48 non finì invano perché gettò nel tessuto sociale, tra la popolazione agricola e analfabeta del Mezzogiorno e di Galatina, il seme della lotta per la scalata alla libertà costituzionale e la formazione dello stato unitario.

Tommaso Manzillo

 
 
 

GRAZIE GALATINA

Post n°18 pubblicato il 06 Dicembre 2010 da tommaso.mt
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Nonostante le difficili premesse, la serata del 4 dicembre 2010, svoltasi presso la sala fede e cultura “mons. G. Pollio, per ricordare il traguardo dei 150 anni dall’Unità d’Italia nelle imprese dei personaggi più illustri di Galatina, è stata un successo. Un ringraziamento va a tutti i partecipanti, dalle autorità istituzionali, civili e militari presenti, al clero e a tutti i galatinesi che hanno voluto partecipare a quello che, il Vice Presidente della provincia di Lecce, dott.ssa Simona Manca, ha definito, il primo evento commemorativo per i 150 anni dall’Unità d’Italia nel Salento. Grazie all’esperienza del moderatore e Direttore de “il galatino”, dott. Rossano Marra, abbiamo potuto ascoltare con grande interesse gli interventi del prof. Giancarlo Vallone, Ordinario presso l’Università del Salento, e del Vice Presidente della Commissione bicamerale per le Questioni Sociali e Regionali, on. Ugo Lisi, ma, senza mancare loro di rispetto, più di tutti abbiamo ascoltato con profonda ammirazione l’intervento del Difensore Civico della Provincia di Lecce, sen. Giorgio De Giuseppe, per quel colpo a pugno duro battuto sul tavolo, segno evidente dell’intensità del ragionamento portato avanti e profondamente sentito dall’oratore, circa il perfezionamento del federalismo nell’Unità d’Italia. Ogni intervento è stato seguito con grande entusiasmo dai numerosi presenti, cui ancora va il nostro ringraziamento.

A chi ci ha chiesto il motivo del profondo silenzio in cui si è svolto tale dibattito, noi abbiamo dovuto rispondere del mancato interesse da parte di certi organi di stampa verso il nostro invito, abbondantemente pubblicizzato mediante pubblici manifesti affissi tra le strade cittadine. A chi avrebbe voluto il coinvolgimento delle scuole noi abbiamo dovuto rispondere che sono stati invitati tutti i dirigenti degli istituti didattici presenti sul territorio, oltre a depositare nelle stesse segreterie il manifesto pubblicitario: cosa avremmo dovuto fare in più se questi personaggi si sono dimostrati indifferenti verso un’iniziativa esclusivamente culturale?

Ci scusiamo a nome di chi doveva dare più spazio all’evento e non lo ha fatto, a favore di chi avrebbe voluto ascoltare un coinvolgente dibattito sul tema attuale del federalismo statale inserito in un progetto unitario voluto dai nostri padri.

Eppure il nostro lavoro “Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente”, definito “futurista” per aver saputo guardare oltre il presente e curato dal prof. Giancarlo Vallone, è distribuito gratuitamente a tutta la cittadinanza.

Grazie a tutti.

                                                                                                          Tommaso Manzillo

Donato Lattarulo

 
 
 

Vitalizi ai consiglieri pugliesi con i soldi dei libri di testo

Post n°17 pubblicato il 03 Dicembre 2010 da tommaso.mt

di MASSIMILIANO SCAGLIARINI
BARI - Sarà un ricco Natale per i poveri consiglieri regionali che ad aprile non sono stati rieletti, e che - legge alla mano - hanno diritto ad un assegno di fine mandato e ad un vitalizio. Parliamo di una liquidazione a tutti gli effetti e di una pensione che per i politici pugliesi è la più alta d’Italia. Bene: siccome quest’anno il turn over è stato incredibilmente alto, le casse di via Capruzzi non ce la facevano a pagare. E dunque martedì alla giunta è toccato aprire i cordoni della borsa, raschiando il fondo del barile: due milioni e seicentomila euro attinti dal fondo di riserva, ma azzerando la disponibilità «di competenza» del capitolo dedicato all’acquisto dei libri di testo per gli studenti. 

Certo, è solo un passaggio tecnico. Ma il segnale è quello che è: i comuni mortali (chi ha un’impresa, chi aspetta una borsa di studio) possono aspettare, gli ex consiglieri no. Nell’assestamento di bilancio, in agosto, la Regione riconobbe al Consiglio (cioé a se stessa) altri 4,5 milioni per spese di funzionamento, soldi che però non erano mai stati erogati. Il 23 novembre, la Ragioneria ha messo a disposizione di via Capruzzi i primi 2,8 milioni. Per trovare il resto, è invece stata necessaria la variazione di bilancio. 

Così, con due delibere consecutive, martedì la giunta ha autorizzato il prelievo di 900mila euro da ciascuno dei fondi di riserva (quello per le spese obbligatorie e quello per le spese impreviste). Per effettuare il riequilibrio in termini di competenza, è stata azzerata la disponibilità del capitolo dedicato al contributo ai Comuni per la fornitura dei libri di testo. 

«A fine anno - spiega l’assessore regionale al Bilancio, Michele Pelillo - si rastrella tutto quello che è possibile, quindi si vanno a individuare tutti i soldi che non sono stati spesi». Però quello di impadronirsi pure dei pochi spiccioli destinati ai libri di testo non è un bel segnale. «Attenzione - precisa Pelillo - perché si tratta solo di un adempimento tecnico. Avevamo in bilancio una certa cifra iscritta solo come competenza (cioè riferita all’anno in corso, ndr), perché i fondi del ministero per il contributo ai libri transitavano da noi: su quel capitolo non c’è mai stata alcuna disponibilità di cassa. Poi ad agosto abbiamo fatto un accordo con il ministero per l’erogazione diretta del contributo ai Comuni, quindi quella partita non aveva più ragione d’essere in bilancio e l’abbiamo azzerata». 

Nel frattempo, il 22 settembre, il presidente del consiglio regionale Onofrio Introna ha scritto a Pelillo per chiedere altri 3 milioni necessari - guarda un po’ - a pagare vitalizi e gli assegni di fine mandato. Dagli uffici del Bilancio fanno sapere che per il momento non se ne parla. Così come non si parla dell’annunciato taglio del 10% delle retribuzioni e delle indennità dei consiglieri. 

Il disegno di legge che lo prevede, intitolato «Norme in materia di ottimizzazione e valutazione della produttività del lavoro pubblico e di contenimento dei costi degli apparati amministrativi nella Regione Puglia», è stato rinviato dalla giunta per la seconda volta. Ma non - spiegano i bene informati - per quel taglio del 10%: in quel disegno di legge c’è un articoletto che renderebbe impossibili certe nuove stabilizzazioni...

 
 
 

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