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Nel cuore della Milano

Post n°1534 pubblicato il 12 Ottobre 2015 da namy0000
 

“Nel cuore della Milano multietnica, proprio vicino al parco Trotter, il polmone verde del quartiere di via Padova, una grande vetrina dà luce a un laboratorio artigianale in cui il legno la fa da padrone. Si costruiscono librerie a forma di albero, mappamondi, giocattoli, culle, si dipingono trompe l’oeil, si realizzano intarsi e si costruiscono persino scenografie teatrali. Dietro la vetrina, a far funzionare il laboratorio che ha aperto, quando è andato in pensione, per dare sbocco alla sua passione di sempre, c’è Agostino Faravelli. Lui, nella sua vita professionale ha sempre fatto il medico, un medico che per hobby si divertiva a fare il falegname. Oggi, dal suo laboratorio, si definisce invece un falegname che, per hobby, fa il medico. Faravelli, medico patologo, ha lavorato all’ospedale San Raffaele prima, ed è stato primario di Patologia a Desio, poi. Ma siccome un medico non smette di essere medico, nemmeno quando il meritato riposo lo porta a dedicarsi a un’altra attività, il laboratorio del legno di Agostino si trasforma, all’occorrenza, in un laboratorio di analisi per pazienti africani: non quelli che abitano a Milano, ma proprio quelli che vivono in Tanzania o nella Repubblica democratica del Congo, in Zambia o in Mauritania. Faravelli, infatti, è anche vicepresidente di Patologi oltre frontiera, una Ong nata nel 1999 da un gruppo di medici anatomopatologi che si erano dati l’obiettivo di rendere possibili le diagnosi mediche delle malattie anche nei paesi del Sud del mondo, dove manca la tecnologia che invece hanno a disposizione gli ospedali occidentali. Come è stato possibile farlo? Con internet, ovviamente: in termini tecnici si chiama “telemedicina”. ‹‹Abbiamo deciso di lavorare su quello che, nei paesi poveri, è un problema drammatico – racconta Faravelli – e cioè l’impossibilità, per la maggior parte dei cittadini africani, di avere una diagnosi corretta per una malattia. Fino a pochi anni fa, si credeva che il tumore fosse una malattia dell’Occidente ricco e moderno. Chiaramente no, solo che in paesi poveri, come quelli africani, quasi nessuno si può permettere la diagnosi, e così si muore senza sapere di cosa. In molti di questi paesi, la carenza di medici, che possono fare la diagnosi, che hanno a disposizione la strumentazione giusta, è totale. Noi cerchiamo di supplire a questo››. Vengono formati, quindi, dei medici patologi o dei tecnici di laboratorio, persone che siano in grado di effettuare analisi e trasmettere le informazioni a distanza. ‹‹È qui che interviene l’ausilio della tecnologia, perché i medici o i tecnici locali, che preparano il materiale per le biopsie su vetrini o scattano le immagini al microscopio, le inviano via web a noi medici in Italia e, dai nostri laboratori riusciamo a leggerli e svolgere quella parte di lavoro che in loco non riuscirebbero a fare››. Così, il laboratorio di falegnameria-medicina di Agostino riceve dati e immagini da Cuba e dalla Nigeria, dal Kossovo e dalla Palestina, da Gibuti e dall’Uganda, dal Corno d’Africa e dal Madagascar. ‹‹La telepatologia è in molti casi l’unica possibilità, il solo modo per sopperire all’assenza di specialisti e strumenti diagnostici – ci spiega Antonio Antidormi, dell’ufficio missionario della diocesi di Milano, che da anni segue le attività dell’ospedale di Chirundu. Il rischio, purtroppo, è che si abbia una diagnosi della malattia, senza alcuna possibilità poi, comunque, di curarla››” (Scar pe’ tenis, Sett. 2014).

 
 
 
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