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La colpa è nostra - quarta parte

Post n°2259 pubblicato il 29 Giugno 2017 da namy0000
 

Tra qualche anno, dei libri racconteranno – sempre che ci siano ancora libri, sempre che ci sia ancora un paese chiamato Argentina – che la nostra è stata la generazione più fallita della storia del paese. Che siamo stati noi – a portare il paese fino a questo punto. Chiaramente, la generazione dopo la nostra potrà contenderci lo scettro, ma credo che ci riconosceranno il merito di avere aperto la strada. Il nostro marchio: l’Argentina in cui abbiamo cominciato a vivere era molto meglio di quella in cui finiremo di vivere.

Qualcuno mi dirà che è facile parlare standosene lontano, che è meglio se me ne sto zitto (“Chiudi il becco, stronzo”, mi diranno); me l’hanno già detto più di una volta. Non so se è facile o difficile: so per certo che la distanza è una condizione comune a molti. E questo mi consola. Ma è vero che in quegli anni molti di noi lasciarono l’Argentina: da quelli che come me abbandonarono il paese nel 1976 per il terrore fino a quelli che l’hanno abbandonato nel 2002 per il disastro. Spesso abbiamo approfittato del fatto che l’Argentina era un paese recente, che i nostri genitori o i nostri nonni erano nati altrove, per raccontarci che stavamo tornando da dove erano arrivati loro. Per quanto mi riguarda, sono stato costretto ad andarmene in Francia nel 1976, sono tornato entusiasta nel 1983, me ne sono riandato (in Spagna) nel 2013. L’ultima volta è stato diverso: nessuno mi ha obbligato. Non so bene perché me ne sono andato: mi sono detto che il mondo era troppo grande e interessante per rifiutare la tentazione di un cambiamento, ma so anche che è successo perché ero stufo. Stufo di una vita di aggressioni, di scontri; stufo delle menzogne che avevano preso il posto del dibattito, a proposito di cui avevo già detto e scritto tutto quello che potevo dire e scrivere; stufo, in anticipo, del fatto che l’unica alternativa a quel discorso pieno di falsità sarebbe stato un discorso destinato a diventare falso. Stufo di sapere che non c’era via d’uscita. Ho preso armi e bagagli, sono fuggito. Mi sento anche responsabile.

Siamo passati: abbiamo vissuto quaranta, cinquant’anni argentini e non abbiamo lasciato nulla che valga la pena di ricordare (oltre a un paese in rovina, il suo eterno carosello, le sue reazioni povere). Ci saranno anche stati dei miglioramenti, ma non riesco a vederli. Vale la pena di parlarne. È vero che per alcuni aspetti la vita è più libera di cinquant’anni fa. ma molte di queste libertà, soprattutto sessuali, che non esistevano all’epoca, sono arrivate da altre culture. Noi ci siamo limitati ad adottarle, neanche del tutto: l’aborto, per esempio, resta illegale grazie alla sottomissione delle nostre autorità all’autoritarismo senza autorità della chiesa cattolica. E il resto dei cambiamenti proviene da tecniche inventate dagli statunitensi e fabbricate dai cinesi.

Noi, nel frattempo, abbiamo fallito; è così facile sapere che abbiamo fallito. Cosa si può fare quando è tutto così chiaro? Guardare dall’altra parte, cercare qualcuno da incolpare, negare tutto, dissimulare o perfino convincerci che non è poi tanto grave? Nessuna di queste reazioni serve per cercare di aggiustare qualcosa. Forse l’idea che chi ha fallito possa aggiustare qualcosa è un altro modo per fuggire. Forse per noi è l’ora di darci per vinti e di ritirarci. Di lasciare spazio ad altri che, probabilmente, faranno ancora peggio. Ma è difficile: nessuno si ritira a sessant’anni, i nuovi quaranta o venticinque o trentasette e mezzo.

Cosa fare allora? Decidere che saremo diversi, come si fa con i buoni propositi l’ultimo dell’anno o il giorno del compleanno? Decidere che forse non potremo essere diversi ma potremo agire diversamente, cercare altre strade? Decidere che vale la pena di lasciare da parte stupidità e sbruffonaggini e farci carico del disastro, sapendo che abbiamo costruito con il fango, sapendo che non si può costruire con il fango facendo finta che sia cemento? Accettare che ormai abbiamo perso la nostra opportunità e che saranno altri a comandare, ma che comunque varrebbe la pena collaborare per quanto possibile? Accettare che dovremmo collaborare a una ricerca i cui risultati, se mai ci saranno, non vedremo mai?

Abbiamo un paese, l’abbiamo mandato a rotoli. Negare questo fatto è il modo più sicuro per continuare sulla stessa strada. Un paese, nonostante tutto. Forse vale la pena di parlarne, rassegnarsi a pensarlo: reinventarlo”. (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 
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