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Storie di generosità

Post n°3305 pubblicato il 04 Aprile 2020 da namy0000
 

2020, FC n. 13 del 29 marzo. CORONAVIRUS

Storie di generosità in corsia

Li abbiamo visti con i volti segnati per l’uso protratto delle mascherine; stramazzati di stanchezza sul computer; in lacrime  per aver toccato troppa sofferenza tutta in una sola volta.

Eppure nessuno si tira indietro nelle corsie dei reparti Covid-19, sulle ambulanze, nelle sale operative del 118, nonostante siano saltati i turni, le mascherine non siano adeguate, i pazienti ricoverati siano sempre di più, la guerra al virus ancor più pericolosa.

Molti li hanno definiti eroi. Loro, gli infermieri, ringraziano, ma si schermiscono: ‹‹Gli eroi non siamo noi. Gli eroi sono loro, che hanno un fratello, una madre o un figlio ricoverati e non hanno nessuna notizia da giorni. Gli eroi sono loro che sono in quarantena, che dopo sei ore di attesa per un’autombulanza, alle mie scuse per il ritardo, ci rispondono di non preoccuparci e che capiscono quanto sia difficile il nostro lavoro. Gli eroi sono loro che devono decidere se portare i loro anziani a morire in ospedale o farli morire a casa senza uno straccio di assistenza. Mai una lamentela. Mai una parola fuori posto. Tanta dignità, rispetto e civiltà. Sono loro che ci danno la forza››, così inizia il post sul profilo Facebook di Paolo B., 47 anni, di Vigevano, infermiere specializzato, da 15 anni a Soreu “Pianura” che gestisce il 118 delle cinque provincie lombarde a sud di Milano. ‹‹Tantissime cose non funzionano e rendono tutto più difficile. Ma non è il momento della polemica perché loro, i pazienti, si meritano la parte migliore di noi››, aggiunge.

‹‹Sì, è una guerra. Non saprei definirla altrimenti››, esordisce Paolo M., napoletano, 33 anni, infermiere alla Terapia intensiva dell’Ospedale Maggiore di Cremona: ‹‹Siamo stremati da turni allucinanti di 12 ore per garantire i riposi ai colleghi; due di loro sono state contagiate e sono in quarantena. Dagli otto posti letto iniziali in rianimazione, ora ne abbiamo trenta››. Anche la moglie di Paolo è infermiera e in questi giorni sta dando una mano al Pronto Soccorso. ‹‹Inizialmente – riprende – nessuno aveva compreso la gravità della cosa. La paura? C’è, non posso nasconderlo, ma siamo formati per sopportarrla. Quello che non riesci a farti scivolare addosso sono i pazienti che muoiono da soli, senza un caro che possa stare loro vicino. Appunto, è come morire al fronte››.

Sulla paura ‹‹che ci porta alla sera a casa››, riflette anche Rossano M., 60 anni, veneziano, infermiere presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, ‹‹è cresciuta poco alla volta, impercettibilmente. La Cina sembrava così lontana. Poi è arrivato il 24 febbraio: 48 operatori in quarantena solo al Pronto Soccorso. Questo nemico invisibile non ti infetta soltanto: muta i gesti, cambia le relazioni e i comportamenti di noi operatori. C’è un silenzio irreale che irrompe negli spazi usualmente pieni di voci. Quanta umanità ho visto in questi giorni che fatica a respirare, che non può parlare, che vorrebbe cercare aiuto, ma l’urlo resta soffocato in gola. E noi, che li portiamo ai reparti in barella, non abbiamo che le solite frasi di conforto: poca cosa per i loro sguardi impauriti››.

Ma di prime linee in quest guerra ce n’è più d’una. Cerca di spiegarlo Lucia C., dirigente infermieristica dell’Areu (Azienda regionale dell’Emergenza Urgenza della Regione Lombardia): ‹‹È una situazione inimmaginabile, difficilissima da reggere, soprattutto sul fronte della sala operativa. Siamo in totale emergenza: una volta presi i pazienti in ambulanza sempre più spesso non sappiamo dove ricoverarli. I Pronto Soccorso vicini ci implorano di non portarne più perché saturi all’inverosimile. E senza più ossigeno. E allora, via, si dirotta fuori regione. E si cerca di tenerne a casa il più possibile. Ma fino a quando? Mi creda: è uno sforzo inumano››. ‹‹Nonostante tutto, però››, rassicura B., ‹‹noi non molliamo. Ma ognuno faccia la sua parte: dovete stare a casa. Lo scriva chiaro, per favore››.

 
 
 
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