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Parole sfinite

Post n°3319 pubblicato il 21 Aprile 2020 da namy0000
 

Diario spirituale dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini

Parole. Parole. Parole. I giornalisti chiedono parole. I vicini di casa chiedono parole. Soli in casa si rischia di impazzire se la televisione non fa compagnia, scaricando un’alluvione di immagini, di parole. Il fatto è che le mie parole sono finite o piuttosto sfinite: camminano per le strade deserte della città, ma non arrivano da nessuna parte. S’azzardano a bussare a qualche porta, ma nessuno apre. Sono sospette: non saranno per caso contagiose? Qualche persona di buon cuore, impietosita, le raccoglie e concede un momento di riposo su qualche pagina di giornale. Le mie parole sono sfinite.

Se anche cerco di rianimarle pronunciandole ad alta voce e ripeto: “Dio”, “vita”, “gioia”, “amore”, vagano nell’aria per un po’ e poi ricadono come passeri stanchi del volo. Non arrivano da nessuna parte.

Quindi? Quindi gli sguardi.

Ecco, è tempo di sguardi, sguardi silenziosi, sguardi pazienti. Tenere fisso lo sguardo su Gesù è il programa raccomandato per la Settimana santa. Lo sguardo si concentra sul crocifisso che mi ha parlato “anche l’altra volta”.

Tutti hanno un crocifisso che ha parlato, come ha parlato a Francesco o a don Camillo, per osare un accostamento irriverente. Forse è il crocifisso della chiesa parrocchiale o forse quello che mi ha regalato la nonna alla Prima Comunione. C’è un momento della vita in cui il crocifisso rivela il suo messaggio, necessario, tenero e doloroso. Lo sguardo fisso su Gesù è la scuola che può dare vita nuova, cioè verità credibile, alle parole sfinite, come “Dio”, “Vita”, “Gioia”, “Amore”.

È tempo di sguardi. Sguardi pazienti, rispettosi e benevoli, anche su quelli che vivono in casa. Sguardi che leggono gli stati d’animo meglio che le confidenze, vi trovano ragioni nuove per la stima, il perdono, un giovane amore. Sono pochi quelli che riescono a guardarsi negli occhi per lungo tempo. Ma quando si è costretti in casa c’è anche la possibilità che lo sguardo insista per leggere la verità che c’è nei cuori. Anche le persone, come le parole, sembrano sfinite: potranno ritrovare vigore, letizia, persino bellezza, rivelandosi allo sguardo che le accompagna con rispetto e benevolenza.

Quindi? Quindi prossimi.

Ecco, è tempo di imparare a farsi prossimi. “Prossimi” non vuol dire “vicini”. La vicinanza è ambigua: può essere rassicurante na anche minacciosa, gradita e desiderata, ma anche antipatica e fastidiosa. Costretti in casa a lungo si sperimenta l’ambiguità della vicinanza. Vicini e lontani, questo è tempo per essere prossimi. Prossimi si diventa con la decisione del “predersi cura”. Nella città sospesa abita la moltitudine dei prossimi, quelli che si prendono cura: dappertutto, negli ospedali, per le strade, nei cimiteri, nei supermercati, nell’istantaneo trasmettersi di operazioni di servizi da remoto. Dappertutto. Non so se basterà la moltitudine dei prossimi a rianimare le parole sfinite, ad aggiustare le parole rovinate. Anche in questo tempo ci sono parole che invece di riposare continuano a veicolare insulti, cattiverie, insinuazioni offensive. Non so se basterà la moltitudine dei prossimi. Io però mi iscrivo tra loro.

Quindi? Quindi preghiera.

Ecco, è tempo per imparre a pregare. Dato che le parole sono sfinite e anche finite, finalmente la preghiera diventa, come dovrebbe essere sempre, silenzio, ascolto, nostalgia del celebrare. Finisce nella discarica delle delusioni la lista delle richieste che si presentano come pretese perentorie per dire: ‹‹Guariscimi, guarisci almeno me! Aiutami, aiuta almeno me!››. Resta invece il tempo per consentire allo Spirito santo di dare voce all’unica parola della preghiera: ‹‹Abbà! Padre!››. così, anche le parole sfinite potranno tornare preghiera, quella che si celebra, insieme, nell’assemblea dei fratelli.

 
 
 
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