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I buoni frutti dei grandi mali

Luigino Bruni, Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020

La dimensione collettiva della paura e della morte, è questa una eredità che ci lascia il 2020. Avevamo dimenticato le grandi paure collettive, avevamo relegato la morte nell’intimità della famiglia e nella solitudine del cuore degli individui. E abbiamo imparato che una casa è troppo piccola per elaborare il dolore dei lutti, perché per non morire anche noi insieme a chi amiamo ci sarebbe bisogno della forza di una comunità intera. Dentro la stessa tempesta abbiamo provato la stessa paura, abbiamo condiviso la paura di avere paura della morte, e avendola condivisa non ci ha sopraffatto.

Non sappiamo come usciremo da questo annus horribilis. Certamente ne usciremo senza una buona parte di quella generazione nata in un’Italia poverissima e morta in una Italia benestante. Genitori e nonni che con le loro virtù, la loro pietas e fede popolare hanno generato famiglie, imprese e democrazia. Mezzadri, contadini, casalinghe che seppero usare i sassi delle macerie delle guerre per edificare cattedrali sociali ed economiche. Abbiamo sofferto tutti vedendoli morire, troppo spesso da soli, perché sentivamo che si stava consumando qualcosa di sbagliato e di profondamente ingiusto. Quella era una generazione che aveva camminato dietro una grande stella etica: "La felicità più importante non è la nostra, ma quella dei figli". Si sono sacrificati perché il valore del futuro era per loro più grande di quello del presente.

Ma poi, soprattutto le donne, dopo aver trascorso la loro giovinezza a curare figli e genitori rinunciando troppe volte alla propria fioritura professionale, si sono ritrovate a invecchiare e poi morire fuori casa.

Allora, una prima lezione di questo anno riguarda la cultura dell’invecchiamento che ci manca troppo. In pochi decenni abbiamo sperperato una buona arte dell’invecchiare e del morire appresa nei millenni, e mentre attendiamo di trovarne una nuova facciamo pagare un conto molto alto alle nostre mamme e nonne, che hanno lasciato questa terra con un enorme e inestimabile credito di cura e di accudimento. Sta anche qui una radice del dolore di questo anno, in un debito collettivo di cui abbiamo preso coscienza proprio mentre si estingueva.

La storia ha conosciuto altri anni orribili. Nel 536 d.C. una misteriosa nebbia (vulcanica) fece precipitare l’Europa e parte dell’Asia nella quasi totale oscurità per circa un anno e mezzo. Iniziò così il decennio più freddo degli ultimi duemila anni, con neve in estate, raccolti distrutti dall’Europa alla Cina, una carestia severissima e lunga. Il 1347-48 fu l’anno dell’arrivo della peste nera, una strage enorme che decimò un terzo della popolazione europea. A Firenze, particolarmente colpita, tre grandi novità furono generate da quella sciagura. A leggere le cronache di Matteo Villani e degli altri scrittori fiorentini, la fine del 1348 segnò l’inizio di una perversa concezione morale della vita e di un maggiore malcostume. Il ritorno alla vita dopo tutta quella morte generò una corsa affannosa al lusso, per bere il calice della vita ritrovata fino all’ultima sua goccia. Un nuovo sperpero e una corruzione amplificati anche dalle grandi eredità lasciate dai morti per la peste: quel molto denaro che affluì nelle casse dei fiorentini finì, in buona parte, nelle tasche sbagliate.

Ma ci furono altri effetti di segno diverso. I Priori della città adottarono provvedimenti per venire incontro ai debitori diventati insolventi in seguito alla peste, e nel 1352 si costituì in Firenze un ufficio per i diritti delle arti e dei mestieri, a vantaggio dei debitori insolventi. Infine, il 1349 fu per Firenze un anno di grande sviluppo delle biblioteche e degli investimenti in libri e in opere d’arte. Il governo cittadino rifondò lo Studium fiorentino, le biblioteche di Santa Croce e di Santa Maria Novella furono molto incrementate, e furono creati vari incentivi per l’acquisto dei manoscritti. Questi investimenti culturali furono decisivi per l’inizio dell’Umanesimo civile, uno degli effetti collaterali più imprevisti e straordinari di quella peste nera. Cittadini, domenicani e francescani capirono che la strada per ricominciare dopo la grande catastrofe non era la corsa al lusso, né la ricerca forsennata dei piaceri della vita per dimenticare la morte; intuirono invece che sarebbero risorti se una nuova cultura avesse scritto i codici simbolici per un Rinascimento.

Nel 540, mentre l’Europa stava attraversando la carestia più dura del primo millennio, a Montecassino san Benedetto scrisse la sua Regola, che segnò il decollo della straordinaria stagione del monachesimo occidentale, essenziale per la rinascita dopo l’impero romano. La peste a Firenze generò Il "Decameron", uno dei capolavori assoluti dalla letteratura mondiale, iniziato da Boccaccio nel 1349, con la pestilenza ancora in corso, con lo scopo di consolare il suo popolo: «Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti», queste le sue prime parole.

Non si esce dalle grandi crisi senza artisti e profeti, sono le loro consolazioni quelle davvero necessarie per la ripresa. Gli aiuti economici sono importanti, soprattutto se rivolti a evitare le insolvenze dei debitori, ma non bastano, e possono complicare il cammino, anche perché finiscono spesso nei posti sbagliati. Gli artisti e i profeti di oggi sono diversi da quelli che ci hanno salvato nei secoli passati; ma, anche questa volta, usciremo migliori se avremo generato artisti e profeti.

 
 
 
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