Creato da namy0000 il 04/04/2010

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La prima ad arrivare e l'ultima ad andare a casa

Testimonianza di vita ai tempi del Coronavirus nell’Istituto don Carlo Gnocchi di Milano

Tutto è iniziato la mattina del 10 marzo 2020. Qualche avvisaglia vi era stata nei giorni precedenti, in quanto lo spostamento da una camera all’altra di alcuni nostri ragazzi non era passato inosservato. Nemmeno a uno “distratto” come me.  Quella mattina, intorno alle 11, piombano in reparto dottori, infermieri, ambulanza, personale sanitario, tutto bardato con camici, guanti, mascherine. Sembrava di essere sul set di Grey’s Anatomy. Ma era tutto vero. Un nostro ragazzo veniva trasportato in ospedale perché positivo al virus. Da giorni in Italia sentivamo parlare del Coronavirus con le notizie dalla Cina. Ma forse mai avremmo immaginato che questo “male” improvviso ci invadesse così rapidamente da lasciare l’Italia e noi impreparati. Forse anche la Fondazione Don Gnocchi, seppur all’avanguardia, è stata colta di sorpresa e un po’ impreparata.

Ho visto subito l’impegno di tutti i vertici del centro Santa Maria Nascente, ogni giorno, in ogni momento. Non ci hanno mai lasciato soli. Momenti di confronto e aggiornamento quasi quotidiani. Attenzione e cura della nostra persona con tutte le accortezze necessarie. Grazie al loro fondamentale apporto e alla serenità che ci hanno trasmesso, sono rimasto in “campo” per tutto questo periodo, offrendo la mia disponibilità a coprire turni o fare ore in più vista la cospicua assenza dei miei colleghi colpiti dal virus. In 32 anni di servizio, mai avevo vissuto una situazione simile che da tragica si è trasformata, per me in un’esperienza che mi ha completamente trasformato, nonostante la mia non più giovane età.

Ho vissuto due mesi “incredibili” con l’entusiasmo di un ragazzino. Incredibili non per le difficoltà, ma per il clima che si è creato tra noi vecchi e nuovi operatori. Abbiamo accolto colleghi provenienti da altre sedi o assunti per l’emergenza e li abbiamo fatti sentire a casa, da subito. Non c’era il tempo di “insegnare” il mestiere! Subito in “trincea” ad aiutarli a conoscere i nostri ragazzi e le loro esigenze in fretta, senza perdere tempo. Ne è nata una sintonia straordinaria vissuta con “gioia” in alcuni momenti. La fatica dei doppi turni, della poca conoscenza di luoghi nuovi e persone non ha frenato la voglia di conoscersi e vivere insieme questo momento. Condividere pranzi o cene, dormire nella stessa stanza perché non c’era il tempo di rientrare a casa tra un turno e l’altro, fare due chiacchiere sulle proprie esperienze, raccontarsi o semplicemente conoscersi e, quando serviva, farsi forza a vicenda è stato davvero gratificante.

Un’esperienza “incredibile” anche quella con i colleghi di sempre. In questo periodo, anche tra noi “vecchi”, si è passati dal semplice e scontato “ciao” a instaurare un rapporto di affetto e amicizia. Cogliere, anche da più giovane o dall’ultimo arrivato, insegnamenti e complicità emotive è davvero “tanta roba”. Forse non ce ne siamo accorti, ma abbiamo creato una “famiglia”, esattamente ciò di cui i nostri ragazzi avevano bisogno. Giorni e giorni chiusi in camera senza poter “vivere” la loro quotidianità è stato ed è per loro un grande sacrificio, unito al dolore per un compagno di vita che se n’è andato. Ma noi eravamo lì in trincea a combattere questa battaglia e vincerla. Non li abbiamo lasciati soli. Noi tutti, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Ciascuno secondo le proprie competenze.

Appunto, competenze. Non puoi superare questi drammatici momenti o questa esperienza se non c’è qualcuno che ti guida, ti sprona, ti incoraggia, si preoccupa di te. Qualcuno (o meglio qualcuna nel nostro caso) che in questa situazione di piena emergenza è stata capace di mettere in gioco tutta la sua umanità e competenza: la prima ad arrivare e l’ultima ad andare a casa, o meglio, a riposare nelle stanze messe a disposizione dalla Fondazione ogni giorno, sino allo svenimento. Merita davvero un grazie.

Questa esperienza “incredibile” mi ha cambiato dentro. È cresciuta la fiducia e l’autostima. Sono tornato indietro con il tempo, al 1988, quando 24enne ho iniziato il mio cammino professionale in Fondazione. Un ragazzino pieno di entusiasmo che, con l’avanzare dell’età, ho un po’ perso per strada. Oggi ho ritrovato e riscoperto quell’entusiasmo. Ed è incredibile quanto un’esperienza come questa, dove la paura di un possibile contagio ti toglie serenità e certezze, in me ha risvegliato tutto ciò che davo ormai per scontato: la sensibilità nel nostro lavoro quotidiano al servizio dei ragazzi affidati alle tue cure; il coraggio e la capacità di adeguarsi a una situazione difficile dei nostri ragazzi. Sono degli eroi e il loro esempio è un ricordo e un insegnamento di vita che non dimenticherò.

In questi mesi ho imparato come, a volte, sia sufficiente cogliere lo sguardo di chi ti sta accanto condividendo un percorso non solo lavorativo, ma anche di amicizia; come a volte è sufficiente incrociare lo sguardo di un tuo ragazzo/a che, seppur senza voce, è lì a dirti tutto il suo grazie perché sei lì con lui, non lo hai lasciato solo. Il momento di emergenza che abbiamo vissuto ha cambiato i nostri rapporti, il modo di lavorare. Ogni giorno sto più “attento”, non solo alle misure sanitarie, ma a quello che c’è, ai nostri ragazzi, alle loro domande e al loro bisogno, innanzitutto di conforto. Questo maledetto Coronavirus avrei potuto e potrei ancora prenderlo in qualsiasi luogo e momento. Ma chi è rinchiuso da settimane in una camera ha bisogno anche di me. Oggi più di ieri. – Antonio Spinelli, Operatore socio sanitario fondazione don Carlo Gnocchi – Santa Maria Nascente – Milano (FC n. 4 del 24 gennaio 2021)

 
 
 
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